Lettere da Creta: Sitia e la nostalgia dello sconosciuto
E’ a causa di un portolano che Fabio Fiori arriva a Sitia, la città più orientale della costa nord di Creta. Continua il nostro viaggio a puntate attraverso l’isola greca
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Ancora in bus, sempre in direzione est, da Aghios Nikólaos a Sitia, settanta chilometri per quella che è la città più orientale della costa nord. Non è certo la guida Lonley Planet che mi ha spinto ad andarci. “Pur non essendo bella secondo i canoni tradizionali, Sitia emana un fascino molto particolare, che deriva in gran parte dal fatto di non aver venduto l’anima al turismo di massa”. Un attacco che, letto sulla ormai unica guida turistica di Creta, come di ogni altro luogo del mondo, non era sufficiente per motivarmi. E vi assicuro che Sitia non appare diversa dalle altre città della costa. E’ mal costruita, architettonicamente anonima anche intorno al castello che è l’unica vestigia del passato, molto frequentata dai turisti nel periodo estivo, come è immaginabile facendo una passeggiata sul lungomare. Ma io spesso sono mosso anche solo da una poesia, da una pagina di diario, dal verso di una canzone, dal fotogramma di un film, da una vecchia cartolina. Questa volta è stata la pagina di un portolano ottocentesco a incuriosirmi.
“A venticinque miglia in Levante da Capo Sidero è la punta di Libeccio di Caso, ed è ciò che forma verso Levante uno dei passaggi più frequentati nell’Arcipelago”. Caso è l’isola di Kasos, nel Dodecanneso, che precede Scarpanto e Rodi, ponte terracqueo che porta alle coste dell’Anatolia. I portolani erano un tempo indispensabili strumenti di bordo al pari di carte, bussole, scandagli, sestanti ed effemeridi. Oggi sono per me dei fabulari, racconti di porti lontani, venti volubili, isole misteriose. Questo è il Manuale pratico-costiere per la navigazione dell’Arcipelago, scritto dal capitano Carlo Costantini e pubblicato a Trieste nel 1864. Anno in cui il Canale di Suez è ancora in costruzione, il vento porta la quasi totalità delle navi e d’inverno con venti di Greco e Scirocco “le terre si nascondono, il giorno si cangia spesso in una vera notte, e i navigli tormentati dal mare in furore, assaliti dai venti scatenati” rischiano tragici naufragi. Sono arrivato quindi a Sitia non per visitare la città ma per andare in bici a Capo Sidero e di lì vedere un orizzonte asiatico, cercando instancabilmente con lo sguardo isole sognate. Perché “percorrendo queste isole pittoresche, ognuna delle quali ha una propria storia, si prova un sentimento esilerante di benessere, e l’anima si eleva al concepimento di quei fatti storici che resero altre volte la nazione Greca famosa per arti, letteratura e legislazione”.
Salito sul bus ad Aghios Nikólaos, vorrei già scendere dopo venti chilometri alla fermata di Pacheia Ammos, nel punto più interno del Golfo di Mirabello, dove Creta si restringe e le due coste sono vicinissime. Vorrei percorrerli a piedi quei dieci chilometri, per andare dalla riva nord a quella sud, dal Kritiko Pelagos al Liviko Pelagos in tre ore di cammino. Ma sarà per un’altra volta, per altre strade da percorrere lungo la costa meridionale, per altri sentieri da camminare sulle montagne che sono la robusta schiena di questo drago di pietra chiamato Candia. Ci tornerò per andare nei villaggi dove Fermor trovò antiche tradizioni, a Lakkoi nei Monti Bianchi, ad Anogeia sulle pendici del monte Ida. Per poi salire per sèmite ancor più impervie fino alla grotta dove Amaltea, una ninfa in forma di capra, allattò il neonato Zeus. Lì la madre Rea lo aveva nascosto per salvarlo dalle fauci del padre Crono, che divorava i suoi figli sapendo che uno di essi lo avrebbe usurpato, così come lui a sua volta fece con il padre Urano. Luoghi che furono per Fermor la vera casa durante gli anni drammatici della Seconda Guerra Mondiale, dove “prese radici un’autentica devozione verso le montagne della Grecia e i loro abitanti, dopo ore e ore passate a scarpinare, al di sopra dei villaggi più vertiginosi”. Lui che, insieme all’amico, compagno militare inglese W. Stanley Moss, e ad altri partigiani cretesi, trascorse mesi negli stabbi delle capre, nelle capanne dei formaggiai, nelle grotte di cui sono crivellate quelle montagne sacre.
“Tutto è pieno di dei”, diceva Talete. Ma sui sentieri selvaggi cretesi, è più probabile incontrarli, è più facile capire e vivere quella pienezza divina che per gli antichi greci non dimora nel mondo ma è il mondo. Una pienezza divina che continua ad aleggiare su Creta, malgrado gli stravolgimenti recenti, le orde turistiche estive, le brutture immobiliari. Perché le sue montagne continuano ad essere dee seducenti e silenziose, abbracciate da un mare e da un cielo che ne amplificano la bellezza.
Nostalgia del viaggio, di ciò che si è visto e sognato. Ma Creta accende anche una nostalgia della lontananza che in maniera molto approssimata provo a chiamare ormalgia. Neologismo, forse sbilenco ma necessario, nato sulle rive adriatiche in una nebbiosa mattina d’inverno, pensando ai lontani, luminosi giorni cretesi di primavera. Qualcosa di simile alla Fernweh dei tedeschi, che significa nostalgia di posti in cui non si è mai stati. Creta è per me anche nostalgia di sentieri mai camminati, di rotte mai navigate, di strade mai pedalate. Candia eternamente fantasticata.
ps
Patrick Leigh Fermor, grande viaggiatore e scrittore inglese, nascose altre pagine dedicate a Creta, che conosceva benissimo e di cui era innamorato, in Mani. Viaggi nel Peloponneso, pubblicato nel 1958 e tradotto in italiano da Franco Salvatorelli per Adelphi, nel 2004. Mani doveva essere un capitolo di un libro dedicato a un viaggio in Grecia partendo da Costantinopoli. Un viaggio lungo e affascinante, un “affare di innumerevoli tragitti in corriera, di lunghi tratti a cavallo, a dorso di mulo, a piedi, su vapori e caicchi interinsulari, e molto di rado, per un paio di settimane sibaritiche, su uno yacht”. Poi però si accorse che troppi erano i taccuini riempiti, le storie ascoltate, gli incontri inaspettati. Perché la Grecia è un luogo magico, dove “storie e vicende curiose e memorabili, si addensano a ogni passo sul cammino del viandante”. Così il progetto cambiò radicalmente e Mani divenne una specie di breviario della grecità, continentale e insulare, antica e moderna, in cui i luoghi rimangono però protagonisti. Tra questi “all’estremo sud il gigante di Creta”.