Lettere da Creta: Iraklio, ultima tappa

A Creta le capre sono dèi. E si possono permettere di interrompere il traffico quando vogliono. L’ultimo tratto di strada percorso a Creta da Fabio Fiori. Il cui viaggio non termina qui, si concluderà a Venezia, dove del resto era iniziato

16/01/2023, Fabio Fiori -

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Un murales raffigurante il poeta Nikos Kazantzakis - Fabio Fiori

(Vai alla mappa multimediale con tutte le puntate del viaggio)

Sono sul bus che da Sitia mi riporta a Iraklio, dove domani prenderò l’aereo per tornare in Italia. Sono stanco, dopo la lunga pedalata di ieri, il faticoso ritorno controvento. Anche oggi c’è poca gente a bordo. Qualche anziana signora e ragazzi che vanno da un paese all’altro. Solo una mamma con tre bambini e una coppia d’anziani, faranno con me l’intera tratta, i 130 chilometri che separano Sitia dal capoluogo, in quasi tre ore. Mi immergo nella lettura dell’Odissea, la mia guida dell’isola, quella di ieri e quella di oggi. Mi appisolo e m’appaiono ninfe che ballano e cantano al chiar di luna, hanno serpenti nelle mani che s’intrecciano con le loro braccia alzate al cielo. Invocano che la grande Madre, signora dei monti, dell’aria e del mare, ridoni forza e prosperità all’Isola.

“Creta chiama con le sue terre. Rendila feconda! / Creta chiama con i suoi agnelli, i cavalli, i buoi, / Creta chiama con i suoi uomini, gridano le donne”.

Il sogno s’interrompe con una brusca frenata del bus e le imprecazioni dell’autista, rivolte non a uomo o a una donna, ma un gregge di capre che ci sta attraversando la strada. Arrivano davanti, nel corridoio tra me e l’autista, i bambini che guardano divertiti la scena. Il più piccolo si mette a canticchiare, immagino una filastrocca perché una frase si ripete e suona più o meno così: oi katsíkes eínai theoí. Chiedo aiuto in inglese al ragazzo che è seduto dietro di me, che sorridendo mi dice: goats are gods. Suona bene anche in inglese: le capre sono dèi! Oggi queste che ci attraversano la strada sono forse le Meliadi che cantavano e ballavano davanti all’Ulisse di Kazantzakis. Di certo ci hanno costretti a una brusca frenata a un’inaspettata fermata. A Creta gli dèi abitano i monti ed escono dalle acque, ci accompagnano lungo i sentieri solitari, ma possono anche attraversare strade trafficate.

Arriviamo alla stazione centrale degli autobus di Iraklio a metà mattinata. È subito fuori le mura, nella parte bassa, verso il mare, tra il porto antico e quello nuovo. C’è un feriale andirivieni di gente e di bus. Pochi i turisti, molti i cretesi che vanno e vengono, in questi giorni che precedono la Pasqua ortodossa. Oggi non ho musei o monumenti da vistare, voglio solo vivere la luce di quest’ultimo giorno a Creta, perdermi per le strade di Candia, nuotare nel Kritiko Pelagos. Così ho fatto, cercando di succhiare fino all’ultimo la linfa vivifica dell’isola, riempiendomi gli occhi di colori, le orecchie di suoni, il naso di odori. Ma l’ho anche gustata, mangiando e bevendo in un kafeneion. Poi l’ho toccata camminando scalzo sul lunghissimo molo, per andarmi a tuffare dal suo estremo. Un nuovo, salvifico battesimo cretese.

Al tramonto sono andato ancora sul Bastione Martinengo, lì dove Nikos Kazantzakis ha voluto la sua sepoltura. Da qui sono partito e qui sono tornato, per questo mio viaggio d’aprile a Creta, solitario e randagio. Il τάφος, la sua tomba, è battuta anche oggi dal vento e dalla luce, quella del tramonto. Una luce accecante e malinconica, ossimorica come la poesia di Kazantzakis. Questa sera, tutta Creta sembra a portata di mano. Il Monte Ida innevato, a ponente, davanti a me che sono seduto sulla pietra tombale. Alla mia destra, tutto il settentrione è occupato dall’Egeo, imbiancato dal maestrale che non molla da questa mattina, con l’Isola Dia che riluce in tutta la sua solitudine marina. Un’isola che incarna quella che Kazantsatis chiama la nudità immortale della Grecia.

Lo stormire delle fronde delle palme sono le voci dei guerrieri sorveglianti. Queste si mescolano con quelle dei ragazzi che giocano nel centro sportivo ai piedi del bastione. Evocano antiche gesta di atleti cretesi. Non il circo, con i tori, ma lo stadio, con i palloni. Nuove ritualità, per ataviche necessità ludiche. Rumori di vite pulsanti, di entusiasmi animali. Gioventù, νεολαία, neolaia. Gioventù cretese, una vitale sonorità che sono certo sarebbe piaciuta al poeta. Alzo gli occhi dal taccuino e mi perdo sul mare. Potenti mi risuonano in testa le parole dell’amico di Zorba il greco: “Felice l’uomo, pensavo, che prima di morire ha avuto la fortuna di navigare l’Egeo”.

Navigare è archetipo del lungo viaggiare, nello spazio e del tempo. Il viaggio! Questo viaggio cosa mi lascerà? Ma è giusto chiedermelo ora che sono ancora qui? ho scritto su taccuino. La stessa domanda me la faccio ora, alla scrivania a mesi di distanza, a strade e ricordi ripercorsi, inventati e dilatati, nell’esercizio della scrittura. Allora ho scritto: profumi, di tigli e zagare delle città, di origani e salvie delle scogliere. Aggiungendo: con un desiderio grande di ritornare, per scoprire quelli delle montagne, le bianche vele di questa nave di pietra. Oggi ho invece distillato e riassunto: divina Creta / attrazione minoica / luce Candia.

Ma è il luogo l’oggetto del viaggio? O forse il luogo è solo il pretesto? Wanderlust, desiderio di vagare, lo chiamano i tedeschi. Dromomania, ossessione del viaggio, è per gli psichiatri. Horreur du domicile, orrore del domicilio, era per Baudelaire. Di ormalgia, composta dal greco ὀρμή, ormé (partire, ma anche impulso, furia, desiderio) e ἄλγος – algos (dolore), ho già parlato io. L’ormalgia al contrario della nostalgia, è un dolore latente non per un agognato ritorno, ma per una partenza, difficile, rimandata o impossibile.

Di restkessness, d’irrequietezza, soffre Chatwin. E alla sua raccolta di scritti, intitolata proprio Anatomia dell’irrequietezza torno anche adesso, per cercare risposte al mio desiderio di viaggiare, a piedi e a pedali, a remi e a vela, ma anche in treno e in bus, come ho fatto a Creta. Chatwin dice che il viaggio deve essere avventuroso e ricorda le parole di Robert Louis Stevenson: “La gran cosa è muoversi”, scritte mentre viaggiava a dorso di mulo nelle Cevenne. Che gran cosa è muoversi, confermo anch’io dopo aver viaggiato in bus e in bici sulle strade di Creta, dopo aver camminato sui suoi solitari sentieri d’aprile. Kalo taxidi!

 

ps

Zorba non è greco, ma macedone. Le vicende non si svolgono sul continente greco, ma sull’isola cretese. Ciò non toglie che lo spirito dell’uomo e del luogo sia greco, così come esplicitò nel titolo l’editore Aldo Martello che per primo lo pubblicò in Italia nel 1955, tre anni dopo l’uscita. Il romanzo Zorba il greco è imperdibile per tutti quelli che sono affetti da cretafilia e che dal 2011 possono leggerlo nella traduzione dall’originale di Nicola Crocetti, il nostro insuperabile Virgilio della lingua neogreca.

Anatomia dell’irrequietezza è invece la traduzione letterale del titolo inglese che riunisce i migliori “scritti marginali” di Bruce Chatwin, grande viaggiatore e affabulatore, nato nel 1940 e morto nel 1989. Sono articoli apparsi su diversi periodici, dedicati alle sue grandi passioni: radici e sradicamento, esilio ed esotico, possesso e rinuncia. Su tutte, quelle di viaggi ed erranza, che Chatwin intende come “alternativa nomade”, titolo di uno dei pezzi più significativi.

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