Lettere da Creta: Iráklio, discesa nell’Ade
Continuiamo nel nostro reportage "Lettere da Creta": gli incontri presso la tomba del poeta Kazantzakis e le meraviglie del Museo archeologico
(Vai a tutte le puntate di questo viaggio, partito da Venezia)
Seduto sulla tomba di Nikos Kazantzakis, leggo e rileggo per mandarlo a memoria l’epigramma del filosofo cipriota Demonatte che lui ha scelto e fatto scolpire sulla bianca pietra cretese: “Non spero niente. Non temo niente. Sono libero”. Un Ponente gelido che discende dalle vette innevate musica le palme e gli alberi di Giuda che circondano il prato cimiteriale. Alberi di Giuda che in questi giorni d’aprile sono nuvole rosa, testimoni fiammeggianti di un amore divino e fraterno a cui ha dato parola Kazantzakis in uno dei suoi libri più controversi “L’ultima tentazione”, portato al cinema da Martin Scorsese.
Il sole sta salendo, i suoi raggi si fanno strada tra nuvole che corrono veloci come vascelli spinti dal vento e incominciano a intiepidire l’aria. Io come Ulisse apro gli occhi e la mente “pozzi in cui cadono Creta, le sue città, i profumi”. Metto un fiore di acetosella a mo’ di segnalibro a pagina 144 e chiudo l’Odissea . Prima di ridiscendere in città, faccio il giro del perimetro del bastione. Incontro solo una nonna che indica un punto lontano sull’orizzonte egeo alla nipotina con grembiule scolastico e tre vecchi signori, silenziosi seduti su una panchina. “Yassas”, saluto io. “Yassou”, risponde quello al centro che si alza e mi indica di sedermi con un sorriso, al suo posto tra i suoi amici. Accetto l’invito e per qualche minuto ci godiamo un silenzio musicato dal vento e dal ticchettio del komboloi del più anziano alla mia sinistra. Poi il più giovane in una neo lingua franca mediterranea ulteriormente imbastardita con il globish, mi chiede ragione di questa visita mattutina e della mia provenienza. Rispondo anche io nel mio med-globish, altrettanto elementare, mostrandogli copia della mia Odissea. Yorgos, il più anziano, mette il komboloi nella tasca della giacca e mi chiede di dargliela. La sfoglia con attenzione e il suo sguardo torna ad essere quello del bambino analfabeta che era in quel lontano novembre 1957, quando insieme al nonno e a una grande folla partecipò a Iraklio alla cerimonia funebre del Poeta. Il più giovane, che fa da traduttore, lo interrompe e mi mostra sul suo smartphone alcune foto in bianco e nero di quel giorno. Si vede la folla che segue il feretro, l’auto coperta di parametri con la bara sul tetto che sale verso il bastione, l’aereo da cui viene scaricata la salma di Kazantzakis portata da Atene dove le autorità ortodosse negarono l’esposizione nella cattedrale, perché reo di averle ferocemente criticate. Li saluto uno a uno con una forte stretta di mano, ironizzando sulla ritualità ritrovata dopo la crisi pandemica.
Ritorno in città, ascoltando Eleni Karaindrou con gli auricolari su Spotify e, dopo aver preso un caffè greco questa volta ben servito nel kafeneio che c’è nell’edificio storico vicino alla Fontana Bembo, vado al Museo Archeologico. Già l’edifico è forse l’unica grande architettura modernista presente a Creta, costruito tra 1937 e il 1940 su progetto di Patroklos Karantinos. Gli spazi interni e la collezione sono stati riorganizzati nel 2014 e restituiscono tutta la magnificenza delle culture cretesi. Se gli archeologi ottocenteschi le definirono “palaziali” e così con questo nome continuiamo a studiarle, in relazione alla grandiosità architettoniche di cui Cnosso è l’esempio più noto (e ricostruito!), qui rimango incantato soprattutto dai piccoli oggetti del quotidiano e della festa. Capolavori in pietra, osso, ceramica, metallo, realizzati 4000 anni fa e ancora perfettamente conservati. Ecco la mia personale cinquina. Tre famosissimi: il misterioso disco di Festo, i lucenti orecchini delle api, la seducente Dea dei Serpenti. Due invece meno noti ma altrettanto potenti: la maga dei papaveri (come l’ho ribattezzata io che ho una particolare romagnolissima devozione per questo fiore e la sua saporita rosetta basale) e la ragazza sull’altalena (fiabesca rappresentazione della relazione tra la vita e la morte). La visita al museo è una vera e propria dantesca discesa nell’Ade, un regno di morti vivissimi che parlano attraverso oggetti preziosi, testimoni di culture cicladiche, minoiche, greche e romane raffinatissime.
Esco dal museo nel tardo pomeriggio e decido di scendere al porto, per verificare l’immagine scolpita nella pietra della chiesa veneziana di Santa Maria del Giglio. Ma soprattutto voglio vedere e sentire il mare, quell’Egeo che è stato pontos di culture, di relazioni tra Creta e i continenti, perché geograficamente l’isola è un nodo imprescindibile di comunicazione tra Europa, Asia e Africa. Il perimetro del vecchio porto veneziano è ancora facilmente riconoscibile, dominato dall’imponente fortezza, chiamata Rocca del Mare da poco restaurata e riaperta al pubblico. Sulle due porte troneggiano ancora i leoni marciani, sopravvissuti alle intemperie, meteorologiche e guerresche. Dalla Rocca parte il lunghissimo molo settentrionale che protegge il porto nuovo. Sono quasi due chilometri di passeggiata su due livelli, una più bassa e ampia percorribile anche in bici e da qualche auto autorizzata e una più alta e stretta solo pedonale, in testa all’antemurale. Di lì il cammino si fa navigazione, celeste e acquea, con vista sulla città, sul Monte Ida a ponente e sull’isola Dia a levante. Il monte e l’isola diventano i due miragli geografici e mitologici di una camminata indimenticabile, un suggerimento che incredibilmente non trovate su nessuna guida ma che è il miglior modo per capire la fortuna geografica di Candia e per ritrovare il suo silenzio antico musicato solo dal vento e dalle onde. Una serie di murales restituiscono personaggi e fatti salienti della città, una graphic novel disegnata a più mani. “Per Dio, più che di pane e vino, la mia anima / è ansiosa di vedere e percorre questa terra!”, ripeto ad alta voce riprendendo le parole di Granito, uno dei marinai dell’Odisseo cantato da Kazantzakis.
ps
Per chi vuole rivivere le commoventi atmosfere del funerale di Nikos Kazantzakis e più in generale della sua lunga vita e della Grecia dell’epoca può consultare il ricco archivio online . Per chi invece desidera immergersi in struggenti atmosfere musicali greche suggerisco l’ascolto di Eleni Karaindrou, compositrice che ha lavorato molto anche per il teatro e il cinema. Fondamentale il suo sodalizio con il regista Theo Angelopoulos, per cui ha composto le colonne sonore di tutti i suoi film dal 1984 al 1998.