Georgia: le ferite delle dighe
Nel corso nel 2020 hanno preso il via in Georgia i lavori preparatori di quello che dovrebbe essere uno dei progetti infrastrutturali più rilevanti nella storia del paese: le dighe di Namakhvani. Associazioni e comunità locali denunciano un tragico impatto ambientale e un notevole rischio sicurezza
Il settore energetico è cruciale in tutte le economie perché incide notevolmente sui costi di produzione e quindi sulla competitività generale. Il controllo sulla propria capacità di produrre energia è veicolo di indipendenza economica e sottrae da ricatti politici. Se questo vale per tutti i paesi del mondo, ha ancora più significato per la Georgia che ha rapporti complessi con un esportatore come la Russia e che vede nella propria capacità di produrre energia anche una grande opportunità dal punto di vista regionale: la Georgia confina infatti con un paese – la Turchia – che ha puntato ormai da decenni su una massiccia industrializzazione, e che è affamata di energia. E potrebbe essere un ottimo acquirente.
L’81% dell’energia prodotta in Georgia proviene dall’idroelettrico ma la stima è che solo il 25% del potenziale del paese sia sfruttato (per un quadro completo si rimanda alla scheda analitica della IEA ). Non stupisce quindi che le varie forze politiche che si sono alternate negli ultimi 20 anni al governo abbiano cercato investitori per accrescere il proprio potenziale energetico. In questo quadro ha preso forma il progetto Namakhvani.
Era il 2009 quando l’allora governo Saakashvili annunciava di aver firmato un memorandum con un consorzio di investitori per la costruzione di un complesso di tre centrali idroelettriche a Namakhvani, sul fiume Rioni nel distretto di Tsageri. Il fiume Rioni nasce nella Georgia centrale e sfocia nel mar Nero, passando vicino alla seconda città della Georgia, Kutaisi, ed è completamente in territorio georgiano. Per questo la gestione delle sue acque non può creare contenziosi con altri stati, come spesso accade per i corsi d’acqua e per i progetti che li riguardano. Secondo Saakashvili la costruzione sarebbe iniziata nel 2011 e avrebbe creato 20.000 posti di lavoro, divenendo il più grande progetto di sviluppo della storia della Georgia repubblicana, maggiore anche dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyan.
Il progetto originale è stato poi rivisto . Le centrali sono diventate due, e la loro costruzione slittata in un arco temporale che va dal marzo 2020 al giugno 2024. I posti di lavori creati sono scesi a 1.600 e ad opera finita le centrali dovrebbero essere in grado di coprire il 12% del fabbisogno energetico nazionale. Come azienda leader nella realizzazione del progetto è stata scelta la turca ENKA.
I lavori preparatori sono iniziati nel maggio 2020, e con i lavori le proteste.
I dubbi
Nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia e dalle misure di contenimento, le comunità locali si sono mobilitate contro il progetto. Il Movimento Salviamo la Gola Rioni ha catalizzato sia attori organizzati – come associazioni di cui fanno parte GYLA (Giovani Avvocati Georgiani), Alternativa Verde e Il Centro di Formazione e Monitoraggio dei Diritti Umani – sia gli abitanti della valle del fiume assieme a molti cittadini georgiani preoccupati per l’impatto del progetto .
Le ragioni della protesta sono motivate da una serie di considerazioni, sia di sicurezza che ambientali. Innanzitutto desta preoccupazione la costruzione di centrali idroelettriche e dighe in un’area sismica. La stima è che se dovesse succedere qualcosa alla diga più prossima a Kutaisi un’onda di 34 metri raggiungerebbe la città in 19 minuti. Inoltre la regolamentazione delle acque imposta dal progetto comprometterebbe il microclima locale e la produzione del vino tipica della zona (il vino bianco Tvishi). Chi si oppone al progetto ha lanciato una petizione perché esso venga annullato ed a favore in alternativa, dell’istituzione di un Parco Nazionale. Inoltre è stata richiesta -per trasparenza – la pubblicazione dei contratti sottoscritti per la realizzazione dell’opera, delle valutazioni di rischio ambientale e degli accordi di cessione dei diritti di proprietà e di sfruttamento dei terreni e delle risorse naturali.
Il nocciolo della questione pare essere, a distanza di mesi dall’inizio della mobilitazione, fondamentalmente quest’ultimo: la scarsa fiducia che il progetto sia stato pianificato scrupolosamente, un senso di alienazione da parte delle comunità locali verso processi decisionali che le riguardano direttamente, e una forte reazione verso la cessione di territori a investitori stranieri.
Questo punto in particolare ha creato forte malessere, anche per le non sempre chiare condizioni contrattuali che hanno inciso anche sulla logistica delle proteste. A volte gli organizzatori non sapevano se si trovavano su una strada ancora pubblica o già ceduta, su un terreno ancora appartenente a un privato o già venduto. L’ambientalista Elene Asatiani ha dedicato un breve documentario , sottotitolato in inglese, che descrive bene le varie anime della protesta: il legame affettivo con una realtà locale che sente la precarietà della propria esistenza, l’alienazione rispetto al progetto, la poca chiarezza dei termini contrattuali, i dibattiti e le personalità anche carismatiche – fra cui il ventottenne Varlam Goletiani – che stanno emergendo e che hanno portato la protesta a durare per più di 200 giorni con presidi permanenti, fino a raggiungere la capitale.
La gestione della protesta
La mobilitazione si è tenuta all’inizio a ridosso del cantiere, con un presidio permanente. A novembre 2020 lo sgombero, piuttosto violento, che ha creato frizione fra gli organizzatori, le associazioni che li appoggiano, le forze dell’ordine e il governo. Sono seguiti nuovi scontri a dicembre. A febbraio la protesta ha raccolto migliaia di persone a Kutaisi . Ad aprile ci sono state nuove tensioni e internet non ha funzionato nel weekend caldo del 4 aprile nella zona della protesta.
In prossimità del giorno dell’Indipendenza georgiana, il 26 maggio, la protesta dei “Guardiani della Valle Rioni” si è spostata a Tbilisi . I Guardiani hanno chiesto l’allontanamento immediato della turca ENKA dalla valle, le dimissioni della ministra dell’Economia Natia Turnava e una indagine su tutti coloro che hanno preso parte al progetto. ENKA da parte sua lamenta intimidazioni al proprio personale e posizioni xenofobe da parte di quanti si oppongono al progetto. Il ministero dell’Economia difende il progetto e sostiene che i dubbi non sono fondati, che gli studi di fattibilità durati 12 anni, dal 2007 al 2019, forniscono tutte le garanzie di sicurezza necessarie.