Ue e cambiamento climatico: tanti fondi, pochi risultati
Tra il 2014 e il 2020 l’Unione europea, nell’ambito della Politica Agricola Comune, ha speso 100 miliardi di euro per combattere il cambiamento climatico. Ma questi fondi, che rappresentano la metà dell’intero budget UE destinato alla lotta al cambiamento climatico, non hanno portato a una riduzione delle emissioni di gas serra
La Politica Agricola Comune dell’Unione Europea impiega quasi il 40% del budget EU . Tra il 2014 e il 2020, sul totale degli 1,1 triliardi di euro spesi dall’UE, più di 400 miliardi sono infatti andati a supporto degli agricoltori e dell’agricoltura europea. I principali obiettivi della PAC possono essere riassunti in pochi e semplici punti: sostenere gli agricoltori e un settore cruciale come quello dell’agricoltura (che per sua natura è precario e fluttuante nei prezzi e nel processo produttivo), migliorare la produttività agricola, e garantire una fornitura stabile di alimenti a prezzi accessibili permettendo agli agricoltori europei di condurre uno stile di vita dignitoso. Il tutto, salvaguardando l’ambiente.
L’UE impone alcune condizioni all’erogazione dei sussidi, come quella della condizionalità e dell’uso sostenibile del suolo (anche detto “inverdimento”, dall’inglese greening), che tentano di incentivare buone pratiche a livello ambientale, di benessere degli animali e qualità dei prodotti. Alcune di esse consistono, ad esempio, nella tutela dei terreni più sensibili a livello ambientale, nella riduzione dell’uso di fertilizzanti, nei rimboschimenti, e nella promozione dell’agricoltura biologica.
Vista la mole di denaro destinata alla PAC, questa è spesso oggetto di controversie, come quella relativa al fatto che l’80% dei finanziamenti finisca nelle tasche del solo 20% degli agricoltori. Questa volta, però, la controversia non riguarda né la mole, né la distribuzione dei fondi, quanto l’efficacia nell’ottenere risultati concreti da parte delle misure finanziate dalla PAC.
Tanti soldi, scarsi risultati
Tra il 2014 e il 2020, la PAC ha destinato oltre 100 miliardi di euro alle misure di contrasto al cambiamento climatico, ovvero più di un quarto del suo budget totale e addirittura il 50% della spesa totale dell’UE in materia di politiche ambientali. Ma un report pubblicato a giugno dalla Corte dei conti europea svela come questi fondi non abbiano prodotto risultati rilevanti in termini di riduzione delle emissioni prodotte dall’agricoltura, rimaste pressoché stabili nel corso degli ultimi 10 anni. In parole povere: la metà del budget UE stanziato per contrastare il cambiamento climatico non ha prodotto risultati concreti.
Tra il 1990 e il 2010 le emissioni di gas serra provenienti dall’agricoltura erano diminuite del 25%, in linea con gli obiettivi prefissati dal protocollo di Kyoto del 1997. Nel 2015 l’UE ha firmato l’accordo di Parigi, con il quale si è impegnata a diminuire le emissioni di gas serra del 40% entro il 2030. La Commissione ha deciso poi di alzare questa percentuale al 55% e di spingersi oltre, ponendo l’obiettivo “emissioni-zero” da raggiungere entro il 2050. La PAC 2014-2020 era stata progettata con l’intenzione di diminuire le emissioni, senza però specificare un target ben preciso.
Cosa non ha funzionato?
Nell’Unione Europea la produzione di alimenti è responsabile per il 13% delle emissioni di gas serra, ma secondo alcune previsioni potrebbe sforare quota 50% nel 2050. All’interno di questo 13%, la metà delle emissioni di CO2 o gas equivalenti è prodotta dagli allevamenti, mentre l’altra metà da sostanze nutrienti utilizzate nei terreni agricoli (36%) e dall’utilizzo del suolo (14%).
Per quanto riguarda gli allevamenti, secondo la Corte dei conti l’unica strategia efficace per ridurre le emissioni di gas serra è ridurre il consumo di prodotti derivati da animali e quindi la loro produzione. Dal 2014 ad oggi, questo non è avvenuto – anzi, il consumo di prodotti come uova e pollame è aumentato tra il 10 e il 15% – anche perché la PAC non ha messo in campo alcuna misura volta a disincentivare il consumo e la produzione ma, al contrario, ha stanziato fondi per la promozione sul mercato dei prodotti in questione.
Nel corso dei decenni passati, il progresso tecnologico ha contribuito a una riduzione delle emissioni, ma in molti casi ha portato anche all’abbassamento dei costi di produzione e quindi all’espansione degli allevamenti (e un principio simile vale anche per l’agricoltura), annullando quindi gli effetti positivi. Un altro motivo per cui la produzione non diminuisce è che circa la metà del reddito degli allevatori proviene dai pagamenti diretti, effettuati in proporzione a quanto producono (mentre lo stesso non vale nella stessa misura per gli agricoltori): è evidente come tale proporzionalità li disincentivi a diminuire la produzione.
Volgendo lo sguardo agli altri settori, i risultati sono altrettanto deludenti. Le emissioni che derivano dall’utilizzo di sostanze nutritive per il suolo (principalmente fertilizzanti e letame) sono aumentate di quasi il 5% tra il 2010 e il 2019. Anche in questo caso l’unica soluzione sarebbe quella di ridurre l’utilizzo di tali sostanze attraverso l’applicazione di pratiche innovative, incentivate tuttavia in misura minore dalla PAC rispetto ad altre meno efficaci (come ad esempio l’agricoltura biologica, che secondo il report della Corte dei conti ha un impatto limitato sulla riduzione delle emissioni).
Discorso simile vale per le emissioni nell’atmosfera provenienti dall’utilizzo del suolo, rimaste pressoché stabili dal 2010 a oggi. Quando un terreno viene coltivato, le materie organiche contenute al suo interno possono emettere più o meno gas serra a seconda di diversi fattori: il tipo e l’intensità di coltivazione, il tipo di suolo, il contenuto di umidità, eccetera. I terreni più ricchi di materia organica, come ad esempio quelli torbosi, sono particolarmente problematici, in quanto la loro coltivazione produce circa il 20% delle emissioni provenienti dall’agricoltura nell’Unione Europea, pur rappresentando solo il 2% del suolo coltivato o adibito a pascolo. Alcuni stati membri hanno promosso iniziative per la tutela o il risanamento dei terreni di questo tipo (anche attingendo ai fondi della PAC), ma a livello europeo non era previsto alcun tipo di misura ad hoc.
Il problema generale, dunque, risiede nel fatto che fino ad oggi l’UE avrebbe finanziato iniziative poco efficaci o non ne avrebbe messe in campo affatto. Eppure, secondo la stessa Corte dei conti, alcune soluzioni sono a portata di mano. Basterebbe, ad esempio, vincolare la metà dei pagamenti diretti della PAC a una riduzione delle emissioni di gas serra da parte degli agricoltori per ottenere un taglio delle emissioni del 17%.
La nuova PAC
Questa volta, la controversia è piuttosto palese. Essendo la PAC una delle poche politiche comuni europee e un pilastro dell’azione politica di Bruxelles, ci si aspetterebbe che l’Unione Europea agisca di pari passo con la linea dura portata avanti negli ultimi anni rispetto alle politiche ambientali.
Soprattutto dopo l’introduzione del Green Deal, effettivamente, i governi e le istituzioni europee si erano messi a discutere sempre più ferocemente su come ridurre le emissioni prodotte dall’agricoltura. Il protrarsi del dibattito ha addirittura costretto lo spostamento dell’entrata in vigore della nuova PAC, che è slittata dal 2021 al 2023. Nel maggio scorso, le parti in causa non erano per l’ennesima volta riuscite a trovare terreno comune, scontrandosi proprio sul nodo relativo alla quantità di fondi da destinare alle politiche ambientali.
Ma qualche giorno fa, Parlamento europeo e governi hanno finalmente raggiunto un accordo su come spendere i 270 miliardi destinati alla nuova PAC fino al 2027. L’accordo è stato definito dalle istituzioni europee come "più semplice, più equo e più verde", ma allo stesso tempo, dalle associazioni ambientaliste, come “un enorme tentativo di greenwashing” . Queste ultime ritengono infatti ancora una volta insufficienti le nuove misure, in quanto troppo flessibili, non obbligatorie, vaghe, rimaste immutate, ancora inesistenti, o indebolite rispetto al passato.
La nuova PAC dovrà essere approvata dai ministri dell’agricoltura europei e dal Parlamento, ma se entrerà in vigore saranno i singoli paesi a decidere come spendere i sussidi , con maggiore flessibilità (e quindi meno controllo a livello europeo) e la condizione di destinare almeno il 25% dei pagamenti diretti (la fetta di finanziamenti più consistente) a cosiddetti “eco-schemi”, e almeno il 35% dei fondi per lo sviluppo rurale a progetti che proteggano l’ambiente e favoriscano il benessere animale.
Ma secondo un documento pubblicato a maggio e firmato da BirdLife, ClientEarth, European Environmental Bureau e Greenpeace, diverse misure rischiano, per l’appunto, di risultare inefficaci. Gli allevamenti intensivi, ad esempio, continuerebbero a ricevere un sacco di soldi e gli “eco-schemi” volti a favorire il benessere animale rischiano di trasformarsi in sussidi senza produrre alcun risultato tangibile dal punto di vista della riduzione delle emissioni. Alcune importanti misure non saranno obbligatorie, come quelle che favoriscono la riduzione dell’utilizzo di sostanze nutrienti per il suolo e la transizione verso un’agricoltura meno dipendente da pesticidi e fertilizzanti, mentre altre sono obbligatorie ma ritenute troppo deboli. Ad esempio, le ultime negoziazioni avrebbero indebolito le regole sulla tutela dei terreni organici e torbosi, come anche quelle sul ripristino delle aree naturali e quelle sull’utilizzo di alcuni tipi di pesticidi. Non ci sarà, inoltre, un budget fisso destinato ai programmi che favoriscono la biodiversità, oltre alle molte altre criticità evidenziate nel rapporto stilato dal gruppo di ONG.
Insomma, la nuova PAC si prospetta essere ancora più controversa di quella precedente, visto che l’Unione Europea si trova ora alla prova dell’implementazione del Green Deal. È presto per giudicare, ma intanto una cosa l’abbiamo capita: i soldi destinati alla lotta al cambiamento climatico possono anche essere tantissimi, ma se le misure non sono efficaci, non serviranno a nulla.