Vukovar, 19 anni dopo

Il 18 novembre del 1991 finisce l’assedio di Vukovar con una resa accordata tra assedianti e assediati. Venne promessa l’evacuazione dei civili e il trattamento dei prigionieri secondo la Convenzione di Ginevra. Nulla verrà mantenuto. Un nostro reportage nel giorno della commemorazione

24/11/2010, Nicole Corritore - Vukovar

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Vukovar, rovine (Christian Penocchio)

Oggi a Vukovar sembra di camminare su di una pista di atterraggio. Lumini mortuari a sinistra e a destra, sui bordi dei marciapiedi, sui davanzali delle finestre, ai piedi delle statue, nella piazze, tra le radici degli alberi. E poi decine e decine di bandiere bianco rosso e blu con lo stemma a scacchi che si intrecciano con quelle di Vukovar, stendardi delle municipalità e delle contee, striscioni di associazioni di ex-combattenti e vittime civili di guerra.

La città scoppia di gente. Mamme con passeggini, militari, corpi speciali della polizia, uomini compìti in giacca e cravatta a rappresentare un qualche ruolo di rilievo. Suore e preti, uomini e donne di tutte le età, studenti venuti in pullman da ogni dove, bambini ovunque. Tutti con una rosa rossa in mano. Oggi la Croazia pare essere tutta qui, 19 anni dopo. Sono venuti a ricordare le vittime dell’assedio e delle successive deportazioni e uccisioni di civili e prigionieri di guerra. Si stima siano tra 15 e 20.000 le persone che oggi hanno percorso i 6 chilometri della processione dall’ospedale al “Memoriale delle vittime della guerra patriottica”.

Vukovar, 24 agosto-18 novembre 1991. Ottantasette giorni di assedio, per mano dell’Esercito popolare di Jugoslavia (JNA) – da cui molti disertarono durante i mesi di attacco alla città – e delle truppe paramilitari cetniche, che rimasero fisse nelle loro posizioni di battaglia: le Tigri di Zeljko Raznjatović, detto Arkan e le Aquile bianche di Vojslav Seselj. Dentro la città, le forze croate formate anche da uomini dell’HOS (Hrvatske Obrambene Snage – ala militare dell’HSP partito nazionalista di Dobroslav Paraga) comandate dal colonnello Mile Dedaković detto Falco (Jastreb). Le parti accordano la fine dei combattimenti. Gli assedianti assicurano che i civili verranno lasciati liberi di andarsene. Gli uomini, cedute le armi, verranno trattati secondo la Convenzione di Ginevra.

Il 18 novembre comincia l’evacuazione di 300 persone tra malati, feriti, partorienti, dell’ospedale. Vengono caricati sugli autobus e portati fuori dalla città. La destinazione è Ovčara, nell’area dell’azienda agricola Vupik, per essere liquidati. Gli uomini consegnano le armi. Vengono deportati, anche fino a chilometri e chilometri di distanza, assieme a centinaia di abitanti della città. Subiranno torture e molti saranno uccisi. Mancano ancora all’appello i corpi di 500 persone.

“Vukovar – vincitrice perché vittima” è il nome dato alla commemorazione di quest’anno. A guardare gli occhi della gente, non si direbbe siano vincitori e vincitrici. L’orgoglio nazionale mostrato dallo stato e dalla chiesa con bandiere e vessilli, il passo duro e fiero dei soldati dell’Esercito croato stride con il denso dolore e l’attonito silenzio di cui è avvolto il groviglio della folla. Sembra che in 19 anni non sia cambiato nulla: i simboli “vincenti” di patria, onore e religione riescono ancora a tenere sotto il proprio tacco le vite dei singoli.

Sono i singoli che hanno perso. Gli assediati di Vukovar sopravvissuti. I cittadini croati riusciti a sfollare prima dell’assedio. Quelli “non croati” fuggiti, convinti dai venti estremisti di Milosević o spinti dalla paura e dalle minacce subite per mano nazionalista croata. Sono i singoli donne e uomini, bambini e anziani, finiti sottoterra.

"Vukovar è stata grande nel suo essere vittima ma anche nella capacità di perdonare". Lo dichiara mentre cammina in colonna, il presidente della Repubblica Ivo Josipović. Tenta di intrecciare il riconoscimento del dolore e delle ferite subite dai cittadini del suo paese alla necessità di seguire la strada della riconciliazione. La premier Jadranka Kosor conferma che la Croazia deve volgere verso il futuro ma senza dimenticare tutte le vittime: " Non si devono dimenticare i 1.700 morti tra i combattenti croati e i civili di Vukovar nel 1991, i 4.000 feriti e i 500 scomparsi. Il ricordo di queste vittime deve obbligarci a guardare al futuro del nostro paese ma su basi di giustizia ed equità".

Secondo fonti ufficiali, nella colonna della processione mancano i gonfaloni dei partiti o delle associazioni della comunità serba di Croazia. Poco lontano dal centro città, presso il cimitero militare serbo, si stanno posando delle corone in memoria dei morti, militari e civili, del 1991. La commemorazione è stata organizzata dalla minoranza serba del Consiglio comunale di Vukovar. Presenti i portavoce dei partiti dei serbi di Croazia e circa 60 famigliari delle vittime.

Solo pochi giorni fa il presidente della Serbia, Boris Tadić è venuto in visita a Ovčara e si è scusato. Su questo evento, i cittadini di Vukovar sono divisi. Per alcuni è un buon inizio di riavvicinamento tra Croazia e Serbia, per altri non basta affatto. Dice secco una signora rossa in viso: “Io non perdonerò mai finché non mi daranno giustizia!”.

La "trojka" di Vukovar, (gli ufficiali della JNA Mrkšić, Šljivančanin e Radić) – responsabili del massacro di più di 200 prigionieri croati dell’ospedale di Vukovar, sono stati incriminati. Il generale croato Ante Gotovina, accusato per crimini di guerra assieme ad altri due generali croati, Mladen Markač e Ivan Čermak, è stato processato e si attende il verdetto. Oggi a Vukovar qualcuno ha affisso la sua gigantografia con sotto la scritta: Anch’io sono con voi”. Però la sua foto è stata imbrattata con spruzzi di vernice e segni di pennarello.

Memoriale di Vukovar, foto di Christian Penocchio

Dopo i discorsi, la posa delle corone sotto il monumento chiamato “la croce del vento” e la messa solenne, il grosso della folla scorre via dal Memoriale. Rimangono gruppi di militari e di parenti davanti alle lapidi delle tombe degli hrvastki branitelji (combattenti croati). L’addetto al protocollo spiega a un gruppo del corpo speciale di polizia come è diviso il memoriale: un’area di lapidi nere per i combattenti caduti in battaglia e gli ex-combattenti morti in seguito per le ferite; una di lapidi bianche per i loro parenti e una di semplici croci bianche per i civili della città. La quarta è disseminata di lapidi senza nome e buche a cielo aperto. Loculi che attendono i resti dei 500 scomparsi in fosse comuni finora non trovate.

La bimba ha un cappottino chiaro, avrà circa 8 anni. Sta avvinghiata alla borsa scivolata dalla spalla di una donna accucciata. Quasi piegata su se stessa, la donna posa una rosa rossa ai piedi di una croce bianca e singhiozza senza controllo. E’ una delle 938 croci dedicate ai civili. Distribuite in file ordinate, ricoprono un prato verde scintillante diviso al centro da un vialetto. In fondo al prato ne hanno piantate due discoste dal gruppo: una è la vittima più giovane, sei mesi di età e l’altra la più anziana, 104 anni.

Recita l’addetto del protocollo: “Sono più in vista, spostate dalle altre croci, per rappresentare un secolo di storia”. Cento anni e due guerre mondiali, guerre “patriottiche” e battaglie “etniche”. Durante un’intervista nel 2006 a Bogdan Bogdanović, scultore del fiore di cemento del memoriale di Jasenovac, OBC gli aveva chiesto di descrivere il suo prossimo monumento: “No, basta. Il mio sogno è che arrivi il tempo in cui non ci sarà motivo per erigerne”.

Cala il buio. I giornalisti della Tv si aggirano nelle piazze con le telecamere e continuare la diretta. Famiglie e scolaresche passeggiano tra le bancarelle di gadget: coccarde a scacchi, santini, “colombe di Vukovar”, riproduzioni di macerie. Da cornice, ancora tante rovine di case e palazzi erosi dai proiettili, il selciato segnato dalle impronte a raggiera delle granate, i boschi intorno alla città pieni di mine. La gente si avvia verso casa o si mette a tavola nei ristoranti affacciati sul Danubio. Scorre lento, testimone silenzioso oggi, come ieri.

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