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Nataša Kandić: si è rinunciato alla riconciliazione
"Si è ormai consolidata la tendenza a rinunciare alla riconciliazione, alla cooperazione regionale e direi anche allo stato di diritto, perché non può esserci stato di diritto senza il perseguimento dei crimini commessi in passato". Così Nataša Kandić, coordinatrice di REKOM e fondatrice del Centro per il diritto umanitario, intervistata da Novosti
(Originariamente pubblicato sul settimanale Novosti , il 14 dicembre 2022)
Dal 12 al 14 dicembre 2022 si è svolta a Zagabria la 15° edizione del Forum per la giustizia di transizione nei paesi post-jugoslavi dal titolo “La riconciliazione non ha alternative”. L’evento, come ogni anno, è stato organizzato da REKOM, acronimo di Commissione regionale per l’accertamento dei fatti relativi ai crimini commessi durante le guerre jugoslave. Il settimanale Novosti ha incontrato Nataša Kandić, coordinatrice di REKOM e fondatrice del Centro per il diritto umanitario, per parlare dello stallo nel perseguimento dei crimini di guerra e dei fragili processi di riconciliazione nella regione post-jugoslava, che continuano ad essere ostacolati dalle élite politiche.
Sono trascorsi ormai più di trent’anni dallo scoppio delle guerre jugoslave, eppure le relazioni tra i paesi sorti dalle ceneri dell’ex Jugoslavia continuano ad essere pessime. Cosa ci dice questo sul processo di riconciliazione?
È un bene che questa edizione del Forum per la giustizia di transizione si sia svolta a Zagabria, permettendoci così di richiamare l’attenzione sul fatto che la Croazia, in quanto membro dell’Unione europea, è tenuta a intraprendere un percorso di confronto con il passato e ad assumere un atteggiamento etico non solo nei confronti delle vittime croate, ma di tutte le vittime delle guerre degli anni Novanta.
Prima di aderire all’UE la Croazia si era contraddistinta per il suo sviluppo democratico, tanto da poter fungere da modello per quanto riguarda l’istituzione dello stato di diritto e il perseguimento dei crimini di guerra. Oggi invece Zagabria è più lontana che mai dalla cooperazione regionale. Questo ci porta a concludere che quel comportamento democratico che la Croazia aveva mantenuto in passato era finalizzato esclusivamente all’adempimento degli obblighi legati al processo di adesione all’UE.
Attualmente, tra i paesi della regione la Croazia primeggia per numero di procedimenti penali in contumacia [per crimini di guerra] e ha totalmente abbandonato il processo di riconciliazione, eppure continua a dare lezioni agli altri paesi, lezioni che arrivano sia dai vertici dello stato croato sia dalle associazioni delle famiglie delle vittime e dei veterani di guerra. La necessità e l’obbligo della Croazia di fungere da modello per le altre ex repubbliche jugoslave è un tema completamente assente dal dibattito pubblico e dalla vita sociale e politica croata.
Quindi, la sua è una critica rivolta alla Croazia?
Sì, perché le lezioni che arrivano dalla Croazia, paese membro dell’UE, non aiutano nessuno. Fino al 2015 la Croazia era un paese capace di portare l’intera regione sulla buona strada. Abbandonando la prassi di avviare i processi penali in contumacia, si era scelto di perseguire gravi crimini di guerra e di non proteggere più gli ufficiali croati. L’allora presidente croato, Ivo Josipović, aveva a più riprese sottolineato la necessità che la Croazia assumesse il ruolo di guida nel processo di riconciliazione e che tutti i paesi della regione, partendo dalle prove raccolte dal Tribunale dell’Aja, adottassero una posizione comune sui fatti accaduti in passato, a maggior ragione perché un tempo facevano parte di uno stesso stato. Con il cambio di potere in Croazia questo percorso è stato interrotto. Nonostante il Tribunale dell’Aja si sia occupato dei crimini commessi dalle forze armate croate in misura minore [rispetto ai crimini commessi dalle altre parti coinvolte nel conflitto], nella sentenza di assoluzione dei generali croati [Ante Gotovina e Mladen Markač] si citano diverse prove che potrebbero essere utilizzate per sollevare l’accusa contro alcuni ufficiali croati. In Croazia invece questa sentenza è stata interpretata come un atto che assolve il paese da ogni responsabilità di quanto accaduto durante l’operazione Oluja.
A distanza di cinque anni dalla chiusura del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aja, in Croazia non è stato avviato alcun processo penale per crimini di guerra commessi [durante le guerre degli anni Novanta] contro la popolazione non croata. Si continua a incolpare gli altri, rifiutando però di assumersi le proprie responsabilità…
Il Tribunale dell’Aja è stato chiuso con l’idea di trasferire la responsabilità in materia di perseguimento dei crimini di guerra agli organi giudiziari dei singoli paesi, senza però istituire un meccanismo di controllo a livello europeo. Il Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali, [che ha sostituito il Tribunale dell’Aja] è ancora operativo, ma il suo raggio di azione è limitato e dipende dalla buona volontà degli stati. Tutti i meccanismi di controllo si riducono alla stesura di un rapporto annuale che viene consegnato alle Nazioni Unite.
Allo stesso tempo, la cooperazione tra Belgrado e Zagabria è inesistente. I fatti giuridici hanno perso ogni valenza, il sapere e le ricerche accademiche vengono continuamente screditate, e tutto il potere è concentrato nelle mani delle élite politiche e delle oligarchie che costruiscono le narrazioni ufficiali, le nuove verità dove non vi è spazio alcuno per un cambiamento. La cultura della memoria è stata sostituita dalle politiche della memoria, ed è una dinamica che accomuna Zagabria, Banja Luka, Sarajevo, Mostar, Belgrado, Pristina.
Perché il processo di riconciliazione fa fatica ad avanzare?
Nel 2020 è stato compiuto un passo positivo che lasciava sperare nella rinascita di una visione politica basata su un atteggiamento più umano nei confronti delle vittime di guerra appartenenti ai popoli diversi dal proprio. Quell’anno, durante la commemorazione dell’anniversario dell’operazione Oluja, è stato inviato un messaggio incoraggiante, lasciando intravedere la prontezza ad accettare l’idea, promossa dalla società civile, secondo cui la Croazia, oltre a celebrare la vittoria, dovrebbe anche riconoscere e commemorare le vittime di nazionalità serba. È stato il segnale di un nuovo approccio che però è durato tanto quanto la commemorazione dell’operazione Oluja e delle vittime serbe di Grubori e Varivode, per poi scomparire definitivamente. Le iniziative volte a commemorare le vittime serbe sono state interpretate dalle associazioni dei veterani croati quasi come un incidente. Ancora oggi continuiamo ad assistere a narrazioni molto radicali ed esclusiviste che sorgono su quelle fondamenta create dai politici che sembrano ormai irremovibili.
Secondo lei, i toni concilianti che hanno contrassegnato la commemorazione del 25° anniversario dell’operazione Oluja sono stati pensati esclusivamente in funzione di quell’evento?
Non credo, a me sono parsi sinceri.
Eppure, col tempo è diventato chiaro che si è trattato solo di una tendenza fugace…
Ben presto è emerso che le iniziative messe in atto a Knin non possono essere ripetute a Vukovar, nello specifico a Ovčara. Non capisco perché solo pochi serbi si rechino a Ovčara [dove ogni anno si tiene la commemorazione dell’uccisione dei prigionieri di guerra croati da parte delle forze serbe]. Trovo deplorevole questo atteggiamento. Così come è deplorevole il fatto che sulle pietre della fortezza di Knin siano incisi i nomi dei soldati croati che hanno perso la vita durante l’operazione Oluja, ma non anche i nomi dei serbi uccisi in quella operazione. Questa non è la strada verso un futuro migliore e la riconciliazione. Si è ormai consolidata la tendenza a rinunciare alla riconciliazione, alla cooperazione regionale e direi anche allo stato di diritto, perché non può esserci stato di diritto senza il perseguimento dei crimini commessi in passato. Ci si limita ad avviare i procedimenti penali in contumacia non solo in Croazia, ma anche in Serbia e in Kosovo. E nessuno dispone dei meccanismi capaci di porre fine a questa prassi, né la società civile né l’Europa. Credo che, se la Croazia dovesse abbandonare la prassi di avviare i processi in contumacia, lo farebbero anche la Serbia e il Kosovo. Da noi lo stato di diritto funziona solo quando ci si ritrova sottoposti a pressioni provenienti dall’estero o quando esiste la volontà politica di raggiungere altri scopi.
A suscitare particolare interesse dell’opinione pubblica sono due procedimenti penali in contumacia, quello per il bombardamento dei Banski Dvori [sede del governo croato nel centro di Zagabria, bombardata nell’ottobre del 1991 dalla JNA], attualmente in corso presso il Tribunale di Zagabria, e quello per crimini di guerra commessi contro i civili serbi in via Petrovačka e nel villaggio di Svodna [l’avvio del processo, che dovrebbe svolgersi presso l’Alta corte di Belgrado, è stato rinviato]. Quali sono le sue aspettative rispetto a questi processi?
Siamo sull’orlo di una situazione molto complessa che, anziché portare al rafforzamento dello stato di diritto, fornirà solo un’illusione della giustizia, permettendo comunque ai familiari delle vittime di ritrovare la serenità. La società civile sarà costretta ad assumere una chiara presa di posizione rispetto ai procedimenti penali in contumacia: potrebbe definirli inaccettabili oppure cercare di approfittarne per esercitare pressione sulle istituzioni giudiziarie affinché inizino a collaborare per evitare di giungere ad una giustizia manchevole che rischierebbe di ledere gravemente i diritti degli imputati a causa della mancanza di prove sufficienti che permettano al collegio giudicante di accertare la responsabilità penale degli imputati. Se non ci sono prove da entrambe le parti, difficilmente si può raggiungere la giustizia e un progresso nel confronto con il passato. L’unica soluzione è promuovere con tenacia una cooperazione regionale tra le istituzioni giudiziarie e abbandonare l’idea politica secondo cui “i nostri” ufficiali sono eroi e non devono essere processati. I militari di rango inferiore non potevano commettere crimini di propria iniziativa. Resta però aperto un interrogativo importante: chi commetteva crimini, agiva in piena autonomia oppure c’era un tacito consenso [all’interno dell’esercito]?
Lei è favorevole all’avvio del procedimento penale per crimini di guerra commessi in via Petrovačka e nel villaggio di Svodna presso l’Alta corte di Belgrado?
Dal punto di vista dello stato di diritto, non posso essere favorevole ad un procedimento penale in contumacia. Ritengo però che sia necessario trovare un meccanismo capace di costringere gli stati a liberare la magistratura da ingerenza politica, facilitando così la collaborazione tra le istituzioni giudiziarie.
Il Centro per il diritto umanitario ha condotto un’inchiesta sui fatti avvenuti in via Petrovačka. Io non ho alcun dubbio su quanto accaduto. Trovo del tutto superflue varie interpretazioni e idee politiche [riguardanti questo evento], perché la nostra inchiesta ha dimostrato che in via Petrovačka fu bombardata una colonna di persone in fuga. È vero che nella colonna c’erano sia i veicoli civili che quelli militari, perché quella era l’unica via di fuga, ma è altrettanto vero che in quelle parti della colonna che furono bombardate non c’era alcun mezzo militare né individuo che aveva partecipato alle ostilità, come è anche vero che le persone in fuga non opposero alcuna reazione armata all’attacco. Ritengo che questo procedimento penale sia un passo positivo, perché offrirà la possibilità di risolvere alcune questioni ad oggi rimaste irrisolte, rendere giustizia alle vittime ed emettere una sentenza proporzionata ai crimini commessi.
Il premier croato Andrej Plenković si è esplicitamente schierato in difesa dei piloti croati [accusati di aver bombardato la colonna in via Petrovačka]. Ritiene che, così facendo, Plenković abbia oltrepassato i limiti del potere politico, intromettendosi nelle questioni giudiziarie?
A bombardare la colonna dei civili serbi in fuga furono gli aerei croati. Su questo punto non vi è alcun dubbio. Plenković però ha legato le mani alla procura croata, impartendo un ordine politico secondo cui, anche se dovessero emergere prove della colpevolezza di alcuni ufficiali croati, questi ultimi devono essere assolti da qualsiasi responsabilità penale di quanto accaduto.
Ritiene che anche Belgrado tenda a politicizzare l’uccisione dei civili serbi in via Petrovačka?
La Serbia non ha diritto nemmeno di parlare dell’operazione Oluja, perché proprio in quel 1995 aveva dimostrato il suo vero volto, facendo tutto il possibile affinché i serbi della Krajina non accettassero il Piano Z-4, una questione di cui ancora oggi in Serbia si evita di parlare. La Serbia aveva raggiunto un accordo con la Croazia in base al quale i serbi [della Krajina] dovevano abbandonare le loro case, per poi umiliare queste persone, violando il loro diritto di vedersi riconoscere lo status di rifugiato [in Serbia]. Le autorità serbe avevano strumentalizzato il Commissariato per i rifugiati e la Croce rossa [serba], istituzioni che avrebbero dovuto proteggere i rifugiati, anziché lasciarsi andare a comportamenti vergognosi, rivelando alla polizia le informazioni sui luoghi in cui i rifugiati avevano trovato una sistemazione temporanea. La polizia serba arrestava le persone [fuggite dalla Croazia] nei campi per rifugiati, negli appartamenti privati, sui mezzi di trasporto pubblico, rimandandole forzatamente nei territori coinvolti nel conflitto, mettendo così in pericolo la loro vita. A tutt’oggi cinquantaquattro rifugiati mobilitati in modo forzato sono considerati scomparsi. Diverse sentenze hanno stabilito le responsabilità della Serbia nel violare la Convenzione sullo status dei rifugiati, tra l’altro attraverso una mobilitazione forzata dei rifugiati che avevano chiesto protezione in Serbia. Una questione di cui le istituzioni e la leadership politica serba non parlano mai.
Quindi, secondo lei, la Serbia ha tradito i serbi fuggiti dalla Croazia?
La Serbia non ha mai accettato i serbi di Croazia, né tanto meno si è presa cura di loro. [Negli anni Novanta] ci fu un chiaro e ben elaborato piano sullo scambio di popolazioni. Prima dell’operazione Oluja il Partito radicale serbo (SRS) aveva portato avanti una campagna di intimidazione dei croati che vivevano nei villaggi della Vojvodina, costringendoli ad abbandonare le loro case. Poi dopo l’operazione Oluja le autorità serbe avevano impedito ai serbi fuggiti dalla Croazia non solo di raggiungere Belgrado, ma anche di raggiungere e di stabilirsi nei villaggi croati. In quel periodo, la Serbia aveva protetto la minoranza croata, prevedendo invece che i serbi della Krajina andassero a vivere in Kosovo e nella Slavonia orientale. Fu un piano terribile. Molti serbi di Croazia fuggiti in Serbia riuscirono a emigrare all’estero, in Serbia non si sentivano benvenuti né accettati.
La Serbia non ha mai sostenuto né incoraggiato il ritorno dei serbi in Croazia, soprattutto nelle città croate, dove i serbi hanno perso il diritto di usufruire degli immobili di loro proprietà. Si tratta di una grave violazione dei diritti umani da parte della Croazia, come ha stabilito anche il Tribunale dell’Aja nella sentenza di assoluzione dei generali Gotovina e Markač del 2012. Nessun governo serbo ha mai sollevato la questione dei diritti dei serbi di Croazia riguardanti le proprietà immobiliari. Ad occuparsi del ritorno dei serbi in Croazia è stato il Comitato Helsinki per i diritti umani in Serbia. Però nessuna organizzazione non governativa può fare quanto uno stato. Non spendo altre parole sulla Serbia e sulla leadership serba che ora chiede la verità sull’operazione Oluja e la giustizia per i serbi della Krajina.
In Serbia ci sono ancora voci critiche per quanto riguarda i crimini di guerra commessi dai serbi oppure la politica della riconciliazione si è conclusa con la visita del presidente Vučić a Srebrenica?
La questione dei crimini serbi e delle responsabilità della Serbia per i crimini di guerra non viene affatto affrontata. Nemmeno le emittenti televisive indipendenti, come N1 e Nova, danno spazio ai dibattiti sui crimini di guerra commessi a Vukovar e in Kosovo. Dall’altra parte, vi è la tendenza a collegare e mettere sullo stesso piano le ingiustizie e le sofferenze subite dal popolo serbo durante la Seconda guerra mondiale e durante le guerre degli anni Novanta.
Per quanto riguarda il Kosovo, non si parla mai dei crimini commessi dalla polizia e dall’esercito serbo. In Kosovo hanno preso la vita 13.500 persone. La parte serba è responsabile dell’uccisione di circa 7000 civili albanesi durante i bombardamenti NATO, mentre in quello stesso periodo sono stati uccisi tra i 2500 e i 2700 serbi. Secondo le autorità serbe, il numero delle vittime era proporzionale alla quota di ogni etnia sul totale della popolazione. Una spiegazione del tutto assurda.
Quindi, in Serbia non c’è alcuna autocritica? In questo contesto, lei come riesce a portare avanti il suo impegno? Considerando anche il fatto che nella sfera pubblica serba è stata definita traditrice…
Per me questo non ha alcuna rilevanza. L’unica cosa che mi preoccupa è il fatto che una vita non basta per mettere insieme i tasselli di quel terribile mosaico. Per il resto, vivo in pace assoluta con me stessa. Non mi occupo di politica. Mi occupo delle indagini sui crimini di guerra. Non presento opinioni, bensì fatti stabiliti durante le nostre indagini e accertati dai tribunali. Ogni paese dovrebbe punire i propri cittadini che hanno commesso crimini. Questa è la strada migliore verso l’istituzione dello stato di diritto. Tutto ciò che non facciamo oggi ricadrà sulle spalle delle generazioni future.