La fossa di Ivan Goran Kovačić
Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della morte di Ivan Goran Kovačić, poeta e prosatore croato e jugoslavo, autore del noto poema Jama (La fossa). Il commento di Božidar Stanišić e il pdf del poema in italiano, per gentile concessione del traduttore Silvio Ferrari e dell’editore Giorgio Devoto
Chiedo scusa ai lettori se subito all’inizio lancio un appello: prima leggete il poema Jama [La fossa], disponibile anche in edizione italiana [1], e solo in seguito riprendete la lettura di questo articolo.
Anzi, non dovete nemmeno leggere l’articolo, perché nel poema c’è Tutto. O meglio, tutto ciò che, in un contesto in cui l’Inimmaginabile era diventato realtà e sinonimo di crimine, era effettivamente accaduto in Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Una guerra che in quei territori aveva assunto anche una dimensione etnica e religiosa. Non volendo rimanere in silenzio di fronte a quella esperienza, il poeta trasformò in versi tutto ciò che vide di persona: le fosse, le vittime con gli occhi cavati (spingendoci anche a riflettere su quell’intreccio tra il sadismo e le più gravi patologie mentali che spesso caratterizza i boia, i quali però non nascono dal nulla).
Nella Jama ogni dettaglio parla la lingua dei fatti. Pertanto, scrivo questo testo solo per il senso del dovere nei confronti di quelli che sanno poco o nulla sull’autore di questo poema (peraltro tradotto in molte lingue europee) e soprattutto sul periodo successivo alla caduta del Muro, un periodo caratterizzato da una forte tendenza al revisionismo storico nei paesi ex comunisti.
Ivan Goran Kovačić si unì ai partigiani verso la fine del 1942, insieme al poeta Vladimir Nazor di trentasette anni più vecchio (l’ingresso dei due poeti nel territorio liberato dai partigiani è descritto in una poesia di Nazor intitolata Čamac na Kupi [La barca sulla Kupa]). In quel periodo, nello Stato indipendente di Croazia (NDH) i partigiani erano molto meno numerosi degli ustascia.
All’inizio del 1943, nei pressi di Livno, il partigiano croato Kovačić vide le fosse in cui gli ustascia gettarono i corpi sfigurati dei civili serbi. Quindi, il poema Jama non è frutto di una fantasmagoria dell’Inferno, bensì conseguenza di un inferno terrestre che il poeta toccò con le proprie mani, con il proprio sguardo e l’animo, riflettendo sul Male che trasforma l’uomo nel più crudele degli animali (in alcune lettere, pervenute ai nostri giorni, i comandanti tedeschi esprimono sconcerto di fronte ai crimini commessi dagli ustascia.) Jama non è solo un poema scritto con grande maestria in endecasillabi, ispirandosi alla tradizione poetica croata dell’età barocca. Non vi è dubbio che creando questo poema, Kovačić sperimentò una metamorfosi, immedesimandosi con la vittima, dando così voce a quelli che subirono crimini. Così si spiega quell’io poetico nella Jama.
I primi a venire a conoscenza di questo poema furono alcuni membri feriti della 1° brigata proletaria. Nel febbraio del 1943 nell’Erzegovina occidentale il poema fu recitato dal celebre attore e partigiano Vjekoslav Afrić, originario di Spalato. Fu lui a trascrivere il poema e così, per caso o per fato, lo salvò dall’oblio (la sorte del manoscritto originale di Kovačić è rimasta a tutt’oggi sconosciuta). Il poeta non visse abbastanza a lungo per vedere la prima pubblicazione di Jama nel 1944. Venne ucciso dai cetnici nel luglio del 1943 nel villaggio di Vrbnici, nei pressi di Foča. Insieme a lui fu ucciso anche il dottor Simo Milošević.
La tomba di Ivan Goran Kovačić – il quale, da vero umanista con una raffinata sensibilità poetica, mise in versi i crimini che “i suoi” commisero contro i serbi, per poi venire ucciso dalle belve serbe – non fu mai trovata. La poesia Moj grob [La mia tomba] del 1937 potrebbe essere interpretata come una visione onirica della morte del poeta – è come se Kovačić intuisse la propria sorte, ossia il luogo e, implicitamente, anche il momento della propria morte.
Il monte scuro sia il luogo della mia sepoltura,
L’ululato del lupo, il fruscio dei rami neri le facciano da copertura,
Imperituro vento d’estate, alta neve d’inverno,
Perché il silenzio della mia tomba sia preservato in eterno.
Si erga alta, come nuvola e trono,
Perché dalla torre bassa mai la raggiunga il suono,
Mai la raggiunga la voce del pentito,
La preghiera di salvezza, il timore del convertito.
Erompa dall’erba, accanto ad un cespuglio spinoso,
Il sentiero che ad essa porta sia invalicabile, precipitoso.
Nessuno vi si rechi, solo l’amico beneamato –
E anch’egli nasconda le sue tracce ritornando.
La prima edizione del poema Jama (5000 copie) fu stampata a Bari nel settembre del 1944, con un’introduzione a firma di Ivo Frol (in quel periodo i vertici dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia si trovavano nel capoluogo pugliese). Un mese più tardi uscì la seconda edizione (con due introduzioni, una di Vladimir Nazor e l’altra di Frol), e poi alla fine di novembre anche la terza, ormai diventata leggendaria, stampata in 250 copie e illustrata con 26 litografie eseguite dai pittori Edo Murtić e Zlatko Prica.
In un’intervista, Edo Murtić descrisse così quella esperienza: “Zlatko Prica e io realizzammo le illustrazioni. Cercammo di costruire un torchio litografico utilizzando pezzi di binari, travi e una ruota tolta da un pozzo. Da Zagabria, attraverso i nostri canali, riuscimmo ad ottenere anche una pietra litografica. Fummo costretti a levigarla dopo ogni pagina stampata. Io trascrissi il testo di Goran con una penna d’oca al contrario, come se fosse riflesso da uno specchio. Potete immaginare quanto impegnativa fosse quella impresa. Una volta finito il lavoro, portammo tutte le copie stampate in un’altra casa, poi Prica e io partimmo per Glina. In quel periodo la città di Topusko fu oggetto di ripetuti bombardamenti da parte dei tedeschi e già il giorno dopo la nostra partenza una bomba colpì la casa in cui eseguimmo le stampe. Il torchio litografico fu completamente distrutto, ma la nostra Jama rimase al sicuro”.
Alcune copie di questa edizione di Jama furono distribuite ai soldati stranieri, giungendo così a Roosevelt, Stalin e Churchil. Una copia giunse anche a Picasso. Il grande pittore espresse entusiasmo per il poema di Kovačić anche nel 1946 quando il poeta surrealista Marko Ristić, all’epoca ambasciatore jugoslavo a Parigi, gli regalò una copia della prima edizione francese (La fosse comune: poème, editore La Bibliotheque Française). La seconda edizione in lingua francese [2], uscita nel 1948 in 110 copie, fu illustrata dallo stesso Picasso e introdotta da una poesia di Paul Éluard intitolata Tombeau de Goran Kovatchich. L’ultima strofa recita così:
Sono vendicato e la mia parola è viva
Nella vostra voce, nelle vostre pupille pure
Ne esco vincitore il mio sogno è libero
I nostri figli raccoglieranno i frutti d’estate
Senza aver indossato gli stracci d’inverno.
La prima edizione italiana del poema Jama fu pubblicata nel 1978 nella traduzione di Mario De Micheli. È disponibile anche una versione inglese .
Su Internet è possibile trovare informazioni dettagliate, in varie lingue, sulla vita e l’opera di Ivan Goran Kovačić. Quindi, mi limito a fornirvi solo alcuni cenni biografici.
Ivan Kovačić nacque nel 1913 a Lukovdol, nella regione montana del Gorski Kotar, in Croazia. Nel 1935 al nome Ivan aggiunse un secondo nome, Goran, proprio per sottolineare il senso di appartenenza alla sua terra. Suo padre si chiamava Ivan e sua madre Ruža (era di origini ebraiche, il suo nome da nubile era Klein). Secondo i suoi biografi, Kovačić ereditò il talento letterario da suo zio Vlado, sviluppando la sensibilità artistica anche grazie al suo amore per la musica – già da ragazzo suonava diversi strumenti. Perse l’intera famiglia in giovane età, e anche questa esperienza in un certo senso influenzò il suo rapporto con la morte, un rapporto del tutto particolare. Avendo ben presto conosciuto l’ingiustizia sociale, si avvicinò alle idee del Partito contadino croato, fondato dai fratelli Stjepan e Antun Radić. Non riuscì a completare gli studi in slavistica presso l’Università di Zagabria per via della difficile situazione economica e di uno stato di salute cagionevole. Dal 1935 fino allo scoppio della guerra era completamente dedito al giornalismo, alla scrittura, alla traduzione (dall’inglese, francese, russo e sloveno) e alla critica artistica e cinematografica. Il suo esordio letterario avvenne nel 1929 quando, ancora studente delle superiori, scrisse una prosa intitolata Ševina tužaljka [Lamento dell’allodola]. Nel periodo tra le due guerre mondiali, le sue prose e poesie uscirono su molti giornali e riviste (Zora, Anđeo čuvar, Ilustrovani sarajevski tjednik, Mladost, Književnik, Jutro, Književni zvon…). In vita pubblicò soltanto una raccolta di poesie (Lirika, 1932) e una raccolta di racconti (Dani gnjeva, [I giorni dell’ira], 1936), lasciando incompiuti due romanzi, Brod na potoku [La barca sul ruscello] e Božji bubanj [Il tamburo di Dio]. La prose di Ivan ci restituiscono un’immagine intensa e convincente di un ambiente sociale in cui gli ultimi, pur essendo costretti a lottare per la sopravvivenza, continuano a credere e sperare che la vita non sia fatta solo di sofferenze, dolori e preoccupazioni per il futuro.
Dopo la guerra furono pubblicate tutte le opere di Kovačić. Dal 1964 a Lukovdol, nella casa natale del poeta, viene organizzata la manifestazione “Goranovo proljeće ” [La primavera di Goran] nell’ambito della quale viene conferito anche un premio letterario che porta il suo nome. Nella (semi)oscurità della transizione, iniziata nel 1990, c’è anche un punto luminoso, la figura di Goran. Molte strade, biblioteche e istituzioni culturali in Croazia, ma anche in Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro, sono intitolate al grande poeta.
Se doveste recarvi a Lukovdol, dedicate mezz’ora ad una visita alla casa natale di Ivan Goran Kovačić.
Ma non è tutto.
Se dovessimo chiederci se nella storia della poesia mondiale esista un’opera in cui il Bene e il Male, la Vittima e il Carnefice, la Luce e la Tenebra si intrecciano e si contrappongono in maniera così intensa e drammatica come nel poema Jama, potrebbe facilmente sembrare una domanda retorica. Ad ogni modo, lascio a voi riflettere su questo interrogativo e su possibili risposte.
Un’ultima considerazione.
Se fosse andata diversamente, all’inizio degli anni Novanta Ivan Goran Kovačić sarebbe entrato nell’ottavo decennio della sua vita: un vecchietto con gli occhiali, forse appoggiato ad un bastone. Tutti noi che abbiamo riflettuto su alcune figure importanti della storia jugoslava, su cosa avrebbero pensato e fatto se fossero vissuti abbastanza a lungo per assistere a quello spettacolo degli anni Novanta che non fu altro che una sorta di remake dell’Inimmaginabile, abbiamo pensato anche a Ivan Goran Kovačić. Cosa avrebbe detto Ivan Goran se all’inizio degli anni Novanta avesse visto i crnokošuljaši croati [sostenitori dell’ideologia ustascia] sfilare per le vie di Zagabria e i kokardaši [neo cetnici] per le vie di Belgrado? Cosa avrebbe detto se fosse venuto a conoscenza dei tentativi di riabilitare il fascismo nel contesto balcanico? Tentativi simili vengono portati avanti, utilizzando vari mezzi, in maniera palese o dissimulata, anche in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico.
Lascio a voi lettori riflettere anche su queste questioni, limitandomi ad aggiungere che, secondo me, Ivan Goran sarebbe stato tra quegli antifascisti croati che avevano protestato pacificamente chiedendo che a Piazza degli eroi croati a Zagabria venisse restituito il nome di Piazza delle vittime del fascismo che le fu tolto nel 1990. Nel 2000 fu poi ripristinata l’intitolazione originaria della piazza.
Lo so, nemmeno l’eredità di Ivan Goran Kovačić basta per innescare un cambiamento in questo lungo, troppo lungo periodo di glorificazione del collaborazionismo con le forze delle tenebre della Seconda guerra mondiale. Nelle città croate ci sono troppi edifici su cui campeggia la scritta “UbijSrbina” [Uccidi il serbo], mentre negli stadi continua a riecheggiare lo slogan ustascia “Za dom spremni” [Per la patria pronti]. Allo stesso tempo, in centro a Belgrado (dove peraltro c’è ancora un murales raffigurante Ratko Mladić) i tifosi urlano “Nož, žica, Srebrenica” [Coltello, filo spinato, Srebrenica]. È chiaro che da tempo ormai il calcio ha assunto una dimensione che non ha nulla a che vedere con lo sport. Recentemente a Sarajevo alcuni ragazzi venuti da Belgrado per partecipare ad un torneo di calcio giovanile sono stati aggrediti solo perché i simboli della loro squadra erano scritti in cirillico. Gli organizzatori hanno poi espulso dal torneo una squadra giovanile di Spalato. Meglio che non vi dica cosa questi ragazzi dodicenni hanno urlato durante una delle partite.
Nonostante tutto, la figura e la produzione letteraria di Ivan Goran Kovačić restano un punto luminoso in mezzo alla (semi)oscurità che ci circonda.
[1] Ringrazio, a nome mio e di tutta la redazione di OBCT, il traduttore Silvio Ferrari e l’editore genovese Giorgio Devoto per averci consentito di ripubblicare la traduzione italiana del poema Jama (La fossa, Edizioni SanMarco dei Giustiniani, 2007, con un’introduzione a firma del traduttore). [2] Di questa edizione del 1948 si è persa ogni traccia. Quell’anno, nello scontro tra Tito e Stalin, i comunisti francesi, compresi i poeti Paul Éluard e Loius Aragon, si schierarono con i sovietici. Secondo un’ipotesi, una copia sarebbe custodita nella Collezione memoriale di Marko Ristić a Belgrado.