‘Fanculopensiero’
Da manager in Croazia a scrittore di strada, prima in Italia poi a Berlino. Artista e pensatore originale Maksim Cristan è l’autore del libro "Fanculopensiero", in cui racconta la sua esperienza di vita di strada e le sue riflessioni sul sistema di valori della società contemporanea. Nostra intervista
Maksim Cristan, nato a Pola in Croazia, nel 1966, era un importante manager arricchitosi in fretta dopo l’introduzione dell’economia di mercato nel suo paese. Nel 2001 abbandona tutto per partire con il primo treno disponibile verso l’Italia, dove diventa uno scrittore di strada. Ha pubblicato in Italia "Fanculopensiero" (Feltrinelli) in cui racconta la sua esperienza di vita di strada, e le sue riflessioni sul sistema di valori della società contemporanea, che privilegia il materialismo e l’apparenza a scapito della vita spirituale e sociale. Trasferitosi a Berlino, è attivo come artista indipendente in diversi progetti teatrali e performance artistiche politicamente impegnate. Sempre attento alla realtà italiana, collabora con il settimanale Internazionale .
Come hai maturato la scelta di fare la vita di strada, dopo essere stato un importante manager in Croazia?
Per fortuna ho perso il senso di tutto questo. Forse perché sono nato durante il regime di Tito. Io mi ricordo cose che oggi uno non si sogna neanche, uno stato sociale che ti garantiva tutto. E’ vero che uno non poteva parlare male del maresciallo Tito, ma nel frattempo avevamo tutto. Oggi invece ti devi sbrigare tutto da solo, e in più è come giocare alla lotteria. Uno su 100 milioni vince. E se vinci, va a finire che tu hai tutto, mentre gli altri non hanno nulla. Io credo che ognuno ha la sua natura interiore, che però il sistema oggi non ci permette di vivere. Siamo talmente inquadrati nel sistema che persino quando protestiamo per migliorare qualcosa, non richiediamo una vita più dignitosa ma sempre il lavoro, un lavoro stremante che ti toglie sei giorni alla settimana, per vivere un giorno solo. Noi siamo tutti dentro questo sistema. Se uno nasce e cresce in un regime del genere, è incapace di ribellarsi perché si rassegna pensando che dopo tutto è la vita che funziona così. Invece in Jugoslavia noi abbiamo visto qualcosa di diverso.
Ma nel frattempo la tua generazione in ex Jugoslavia ha assimilato molto bene il capitalismo selvaggio. Saresti piuttosto un’eccezione…
Sì, l’hanno assimilato e l’hanno assimilato male. Io sono stato fortunato. Mi sono sentito come se avessi le bretelle agganciate a un muretto, che mi tiravano indietro mentre cercavo di andare avanti, come succede a tutti quelli che fanno un lavoro che non gli piace. Man mano che vai avanti, queste bretelle si spezzano perché insisti sempre più, ti conformi ai modelli che ti hanno insegnato. Io invece mi sono tirato indietro, e per un po’ di tempo non ci ho capito più niente. Ad un certo punto ho pensato che un giorno dovrò morire, e mettiamo che l’aldilà esiste e Dio prima di assegnarmi il mio posto eterno mi chiede: ma tu cosa hai fatto nella vita? Cosa gli dico? Io vendevo cucine sei giorni a settimana. "Cioè tu hai fatto solo questo per tutta la vita, avevi una vita a disposizione e non ti sei mai chiesto chi siamo, da dove veniamo, quanto è grande l’universo, perché le cose sono così come sono?" Sono domande che ti poni quando sei adolescente, poi quando cresci, nonostante siano domande importanti le accantoni perché devi pensare a portare lo stipendio a casa, non hai tempo per queste cose che vengono considerate delle stupidaggini.
Poi sei diventato uno scrittore di strada… Cosa si prova ad esserlo?
Sono andato in Italia e mi sono detto: io sono un fallito. Ho lavorato sodo per degli anni perché pensavo mi potesse rendere felice la vita, ma si è rivelato tutto inutile. Quindi avevo fallito. E mi sono chiesto: ora cosa faccio? E mi sono ricordato che da giovane mi immaginavo passeggiare per il centro di Pola con un mucchio di libri sottobraccio, andare al bar dove avrei discusso di cose importanti nella vita con altri filosofi come me. Infatti una volta scrivevo cose che ai miei amici piacevano. Dato che tutto era andato male, non mi rimaneva che suicidarmi ma non sarebbe stata una buona soluzione. Quindi per gioco ho iniziato a reinventarmi. Andavo a Milano alla biblioteca del Parco Sempione, auto-pubblicavo dei libri che poi ho iniziato a vendere. Così ho riscoperto il valore anche dei soldi. Quando ho guadagnato le prime 120mila lire, dopo giorni e giorni di fame, ho riscoperto che si può essere ricchi anche così. Dovevo scrivere, pubblicare, e mettermi su una bancarella ed aspettare che la gente venisse a curiosare. "Che sono?" – chiedono. "Sono libri, cinque euro l’uno, trattabili". Non c’è niente di più bello. Non è come andare in fabbrica e vedersi parte della catena di montaggio come in "Tempi moderni" di Chaplin.
Com’è avvenuta la scelta dell’italiano come tua lingua di scrittura?
Io sono istriano, e per noi istriani l’Italia era una sorta di finestra sul mondo. Noi andavamo a Trieste, da "Ricordi" per esempio, e lì uno trovava tutti i dischi che voleva, mentre a Pola ce n’erano solo due o tre. Trieste per me era il mondo. Io dovevo andare nel mondo. E per me il mondo dove potevo andare era l’Italia. Mi sembrava più importante, uno scalino in più. Poi quando ero in Italia, volevo vendere i miei libri in Italia, per questo ho iniziato a scrivere in italiano. Ma sono domande che non ti poni. Agisci in un certo modo e basta. Una volta che esci da quegli schemi che ti sembravano insormontabili, tutto è possibile. Io mi sono fermato in Italia.
Poi però sei emigrato, e ora vivi a Berlino…
Sì dopo sono ripartito. Ora vivo a Berlino da un anno. Dopo otto anni in Italia il clima era cambiato, con questa politica e questo abbrutimento continuo. Mi ero un po’ stancato. Avevo molti amici che parlavano di Berlino, e sembrava che Berlino fosse il raduno di tutti gli scansafatiche del mondo. Dove la creatività è ben voluta. E quindi ho deciso anch’io di venire a Berlino.
Ma gli input del tuo lavoro rimangono comunque in Italia? Come valuti la situazione in Italia negli ultimi tempi?
In Italia sta succedendo quello che succede ovunque, c’è un gruppo di potenti straricchi e fascisti che si sono messi insieme come in passato. Si sono inventati la cultura della visibilità. Uno dev’essere visibile per contare. Quando vado in Italia e nei vari incontri qualcuno fa una domanda, spesso inizia dicendo: "premettendo che io non sono nessuno…". Questo rispecchia la cultura in cui uno si è formato, che è la cultura della visibilità, o sei visibile o non conti nulla. E sembra che non ci sia un’alternativa a questo sistema. Questo è strano in un paese come l’Italia che ha una storia di lotte e una cultura ricchissima, un paese di emigrazione, un paese mediterraneo dal temperamento molto forte. Penso che sia dovuto molto a questa mentalità, che fa sì che tutto avvenga in maniera molto rumorosa, forte e drastica. Per questo alle persone più sensibili, pesa di più perché percepiscono di più tutto questo. Ma io penso che i cambiamenti veri nasceranno proprio dall’Italia.
Cioè?
Anche in Germania c’è quello che c’è in Italia, ma in Italia è tutto più visibile. E una cosa più visibile è più facile combatterla. Io penso che si debba ritornare in Italia e iniziare a cambiare le cose.
E la xenofobia che sta prendendo piede sempre più forte negli ultimi tempi?
Anche in Germania c’è razzismo, ma non viene espresso. Per esempio quando ci sono state le elezioni sono stati affissi dei manifesti in cui c’erano le foto degli ebrei sfollati al tempo della Seconda guerra mondiale che erano stati sostituiti con i turchi, e il messaggio era chiaro: andatevene via. In Germania questa gente ha ottenuto il 2-3% di voti. In Svizzera non permettono i minareti. E così via in tutta Europa. Ma penso che in Italia qualcosa cambierà, perché con tutta questa esposizione così marcata crescerà anche una coscienza cittadina che a sua volta le si opporrà.