Donne, resistenti

A Zagabria un convegno su donne e memoria storica. La resistenza e le violenze di massa della Seconda guerra mondiale, la repressione politica del Dopoguerra, i nuovi "regimi della memoria" degli anni ’90. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

20/05/2009, Redazione -

Donne-resistenti1

Di Chiara Bonfiglioli

L’8 e 9 maggio scorso si è svolto a Zagabria il convegno internazionale "Imaju li zene svoj pobjede? Zenska traumatska sjecanja i naracije otpora" – "Quale giorno della vittoria per le donne? Memorie traumatiche e narrazioni di resistenza", organizzato dal Centro di studi femminili ( C e n t a r z a Z e n s k e s t u d i j e – http://www.zenstud.hr) grazie al sostegno dell’Unione Europea. L’incontro è stato pensato come una discussione che andasse oltre la storiografia dominante, generalmente scritta al maschile, al fine di indagare il tema della resistenza e della sopravvivenza delle donne alla violenza di massa durante la Seconda Guerra Mondiale ed alla repressione politica nell’immediato dopoguerra. Partendo dal contesto jugoslavo, sono state affrontate sia le persecuzioni razziali e le violenze di massa perpetrate da Nazisti, fascisti ed Ustascia, sia la questione della Resistenza partigiana in un contesto di guerra civile. Si è poi parlato della violenza politica in Jugoslavia dopo il 1945, ed in particolare di coloro che sono finiti nei campi per prigionieri politici con l’accusa di "cominformismo" dopo la rottura con l’URSS nel 1948; più in generale, si è parlato di come diversi regimi politici abbiano dato spazio a diverse memorie, condizionando quel che vale la pena di essere ricordato: se la Resistenza partigiana è divenuta un mito fondante del regime socialista jugoslavo e ha oscurato altre memorie meno gloriose, nel 1991 con la dissoluzione della Federazione jugoslava tali narrazioni sono state delegittimate dando spazio al revisionismo storico ed alla deliberata cancellazione della memoria antifascista.

"Nei libri di scuola di mio nipote si parla molto di Bleiburg ma c’è molto poco su Jasenovac", ha fatto notare Pava Persic-Molnar, anziana militante anti-fascista di Zagabria, sopravvissuta al campo di concentramento Ustascia di Stara Gradiska nella sezione per prigionieri politici, che ha chiesto di essere presente all’incontro. La sua testimonianza vitale e positiva ha trasformato la discussione accademica in un momento di trasmissione. Impegnata in una rete anti-fascista nel suo liceo, staffetta tra Zagabria e Zemun, viene catturata giovanissima e portata nella prigione Ustascia di Stara Gradiska, parte del complesso concentrazionario di Jasenovac, da cui riesce a salvarsi anche per via del capillare sistema segreto di aiuto reciproco messo in piedi dai prigionieri e prigioniere della sezione politica. Pava ricorda però come le condizioni per gli anti-fascisti croati nel campo politico e di lavoro fossero molto meno terribili delle condizioni nel campo di sterminio e riconosce che è stata molto più fortunata di altre donne, ebree, serbe e Rom che venivano barbaramente torturate ed uccise, insieme a molti uomini, bambini e bambine. Erano donne anche le carceriere a guardia della sezione femminile della prigione: alcune sono state arrestate alla fine della guerra, mentre altre che non hanno mai pagato per i loro crimini, e Pava ha raccontato ironicamente di come lei ed altre sopravvissute si siano tenute informate sulla loro sorte anche molti anni dopo la guerra.

Angela Vode

Alla fine della guerra, Pava era in condizioni di salute tanto precarie da dover trascorrere sei anni in sanatorio a Sljeme, sulle colline nei dintorni di Zagabria. Quando le è stato chiesto come fosse la vita in sanatorio durante tutto quel tempo, ha risposto che si stava bene e che in sanatorio si è persino sposata! "La mia guarigione è stata dovuta a questo almeno al 50%" ha raccontato ridendo. Dopo la guerra e la guarigione Pava è stata attiva nel Comitato degli ex internati dei campi di concentramento (logorasi), una rete di assistenza che è durata fino alla dissoluzione della Federazione; oggi molte di queste persone non ci sono più ma quelli che sono ancora vivi sono in contatto tra loro e si ritrovano regolarmente, per esempio durante la commemorazione annuale a Jasenovac, anche se Pava critica il fatto che non vi sia stata collaborazione con i sopravvissuti nella recente ricostruzione del memoriale, e nota come il nuovo memoriale di Jasenovac non trasmetta un sentimento di t[]e sufficientemente forte, come invece avviene ad Auschwitz.

Per alcune donne sopravvissute ai campi, però, le violenze non si conclusero nel 1945. Alcune di loro facevano parte infatti di quelle 860 donne (su 17.000 prigionieri documentati) portate a Goli Otok, l’Isola Calva, e nella vicina isola di San Gregorio. Sull’isola erano inviati i prigionieri politici del comunismo jugoslavo accusati di stare dalla parte dell’URSS dopo la rottura tra Tito e Stalin. I prigionieri erano costretti a estenuanti lavori forzati ed a commettere ed a subire terribili torture a fini di "rieducazione". Renata Jambresic-Kirin, antropologa affiliata all’Istituto per l’Etnologia ed il Folklore di Zagabria, ha ricordato che le donne presenti a Goli Otok venivano raramente incarcerate perché avevano espresso opinioni politiche; si trattava molto spesso di donne che avevano connessioni familiari con uomini "cominformisti", ovvero di donne "del nemico". A Goli Otok furono messe in pratica delle vere e proprie "cerimonie di degradazione" biopolitiche, e delle torture che attentavano alla sessualità ed alle capacità riproduttive delle donne internate. Pava Persic-Molnar ha ammesso che queste ex-internate hanno avuto di gran lunga una sorte peggiore della sua dopo la guerra, perché "non sono state riconosciute come internate dei campi e non hanno avuto diritto alle pensioni di invalidità"; sono state invece costantemente bandite dalla società e mai "riabilitate" politicamente, come invece è successo parzialmente per le vittime dello stalinismo durante l’era Krusciov. Per donne come Pava, convinte antifasciste e comuniste durante la guerra, episodi come Goli Otok sono molto più difficili da capire e da integrare in una narrazione personale di resistenza al fascismo. "Noi sapevamo chi erano i nostri veri nemici", ha detto, dissociandosi criticamente dalla repressione del post-1948.

La storica Nanci Adler, presente al convegno, ha fatto notare come molte donne che erano convinte comuniste, e che sono state ugualmente vittime dello stalinismo nell’ex Unione Sovietica, hanno comunque continuato a difendere il sistema comunista descrivendo l’ingiustizia nei loro confronti come un []e nell’applicazione del sistema. In questo caso l’adesione all’ideale comunista si è trasformata in un meccanismo di razionalizzazione e in strategia di sopravvivenza; il t[]e dei diversi traumi subiti diventa allora visibile nella "censura dei sentimenti", come ha fatto notare la teorica femminista Biljana Kasic. Secondo la studiosa americanista Tatjana Jukic, la violenza rivoluzionaria alla base del nuovo sistema politico in Jugoslavia è stata censurata a lungo e solo l’arte e la letteratura hanno saputo esprimerla, come nel caso di Danilo Kis, che in Una tomba per Boris Davidovic ha parafrasato Joyce definendo la rivoluzione come "la vecchia scrofa che si mangia i piccoli". In che modo è possibile articolare traumi di diversa natura ed entità e le censure successive di cui sono stati oggetto? Che cosa si sceglie di ricordare e che cosa si sceglie di dimenticare in un determinato contesto politico? In che modo raccontare i traumi e le violenze ma anche la capacità di resistenza e la soggettività politica delle donne, evitando di semplificare la complessità di ogni singola esistenza?

Vi sono donne che per il loro coraggio e la loro indipendenza sono state invise sia alle varie autorità al potere che ai possibili "alleati", prima, dopo e durante la guerra. E’ il caso di Angela Vode (1892 – 1985) pedagoga slovena, femminista, umanista ed antifascista, espulsa dal partito comunista jugoslavo per avere criticato il patto germano-sovietico nel 1939, poi parte della resistenza anti-fascista in Slovenia da cui viene di nuovo espulsa nel 1942. Arrestata dai fascisti ed internata a Ravensbruck, due anni dopo il suo ritorno, a 55 anni, viene arrestata come "spia" dalle autorità comuniste e condannata a vent’ anni di carcere, di cui ne scontò sei. Dimenticata ed esclusa dalla vita pubblica una volta uscita dal carcere, Vode continuò comunque a scrivere le sue memorie ed a cercare di fare rispettare i propri diritti in maniera degna ed orgogliosa. Angela Vode è stata "riscoperta" dopo la sua morte, e dopo la dissoluzione della Federazione jugoslava. Ma è stata riscoperta – insieme al libro di memorie della prigionia dal 1947 al 1953 (Skriti Spomin) divenuto bestseller – quasi esclusivamente come "vittima del comunismo" come ha ricordato la sociologa slovena Mirjam Milharcic Hladnik. Il film per la televisione slovena tratto dal libro di memorie è dedicato principalmente a questo periodo. La complessità della vita di Angela Vode, e la perenne resistenza all’autorità, è stata quindi ridotta a fini politici e commerciali.

Nel post-1989, e dopo la dissoluzione della Federazione jugoslava, nuovi "regimi della memoria" hanno favorito nuove narrazioni. Anche a causa delle censure operate dal regime socialista, vi è stata una tendenza a "riscoprire" crimini di guerra commessi dai Partigiani comunisti (le foibe in Italia, ma anche le uccisioni di Ustasha e domobranci in Croazia e in Slovenia) così come le persecuzioni politiche seguite all’espulsione della Jugoslavia dal Cominform. Spesso si è tentato di equiparare crimini nazi-fascisti e crimini comunisti, minimizzando il contesto di t[]e Nazi-fascista e di guerra totale e delegittimando la lotta antifascista e per un nuovo ordine sociale. L’enorme contributo delle donne alla Resistenza ed all’anti-fascismo – già "domesticato" e passato sotto silenzio durante il periodo socialista – è stato ulteriormente reso invisibile con la dissoluzione della Federazione e l’avvento dei nazionalismi, che hanno promosso un "ritorno" a ruoli di genere tradizionali (come ricordato dalle storiche Marta Verginella e Barbara Wiesinger).

Si è discusso quindi di come fare ricerca sulle esperienze traumatiche delle donne nel momento in cui i "regimi della memoria" e le narrazioni dominanti si trasformano. Inoltre, la possibilità di ascoltare i testimoni e le testimoni del secondo conflitto mondiale e delle violenze del secondo dopoguerra si fa sempre più rara. Durante l’incontro sono stati presentati progetti che tentano di rispondere a questo urgente bisogno di documentazione storica e di trasmissione attraverso la storia orale ed il documentario. Igor Saponja, attivista di Pola, sta raccogliendo testimonianze video degli ultimi sopravvissuti istriani ai campi fascisti e Nazisti; parte del cortometraggio dedicato ad una di loro, Rina, si svolge in una scuola magistrale di Pola e mostra il momento in cui l’anziana signora racconta la terribile esperienza del lager alle studentesse ed agli studenti.

Un altro film proiettato durante l’incontro, Duhovi Zagreba (Gli spettri di Zagabria) di Jadran Boban si basa su video-interviste ad ex attivisti antifascisti di Zagabria: le interviste si svolgono in quegli stessi luoghi che erano stati teatro di azioni di resistenza durante la guerra. Sono stati poi presentati i lavori dell’artista femminista Sanja Ivekovic, che nel video intitolato "In cerca del numero di mia madre" (2002) racconta la storia della deportazione ad Auschwitz della madre Nera Safaric, militante antifascista. La ricchezza del convegno è consistita nella pluralità di contesti e casi presi in considerazione (qui ne sono stati menzionati solo alcuni) e nell’interazione tra ricerca storica, testimonianza diretta ed altri mezzi espressivi quali il documentario o l’opera d’arte, che offrono enormi potenzialità per mettere in discussione la storia scritta al maschile e per raccontare la violenza e l’ingiustizia subite, ma anche le capacità di resistenza e l’attivismo delle donne.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta