Un piccolo passo avanti

Sollievo, ma anche delusione. Commutazione della pena capitale in ergastolo per le cinque infermiere e il medico bulgari accusati in Libia di aver infettato col virus dell’HIV 438 bambini. In Bulgaria sentimenti contrastanti

18/07/2007, Francesco Martino - Sofia

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Due giorni di attesa spasmodica, poi il verdetto è arrivato. Le cinque infermiere bulgare e il medico di origine palestinese (che da alcune settimane ha ricevuto il passaporto di Sofia), accusati di aver volontariamente iniettato, nel 1998, il virus dell’HIV in 438 bambini allora ricoverati all’ospedale pediatrico di Bengasi, non saranno giustiziati.

Ieri sera il Consiglio superiore delle istanze giudiziarie di Tripoli, organismo semi-politico, ha commutato le sentenze di morte, confermate in ultima istanza l’11 luglio scorso, per trasformarle in ergastolo. A questo risultato si era arrivati dopo che, alla vigilia della riunione del consiglio, gli imputati avevano presentato domanda di grazia, ma soprattutto dopo il raggiungimento di un accordo
con le famiglie dei bambini infettati, che secondo le regole della tradizione legale islamica, hanno rinunciato a pretendere l’esecuzione degli accusati in cambio di un risarcimento di un milione di dollari ognuna, oltre all’assicurazione di cure mediche gratuite e alla possibilità di studio all’estero per i bambini le cui condizioni di salute lo consentano.

Il risarcimento monetario complessivo, nell’ordine dei 400 milioni di dollari, è stato versato alle famiglie prima che venisse pronunciata la sentenza definitiva sul caso.

Ora si apre la possibilità che gli accusati, dopo otto anni trascorsi nelle prigioni libiche, possano scontare le loro condanne in Bulgaria, grazie ad un accordo bilaterale di estradizione sottoscritto nel 1984. "Con questa sentenza, abbiamo evitato il peggio", ha dichiarato il ministro degli esteri bulgaro Ivaylo Kalfin, durante una conferenza stampa indetta ieri sera. "E’ un passo importante nella giusta direzione, e apre la possibilità di rimpatriare i nostri connazionali. Per noi", ha concluso Kalfin, "il caso sarà chiuso soltanto quando saremo riusciti a riportarli a casa".

E’ difficile fare previsioni sulla tempistica del rientro in patria delle infermiere e del medico. Il procuratore capo di Sofia, Boris Velchev, ha annunciato che entro la giornata verrà inviata alle istituzioni responsabili in Libia la richiesta di estradizione. Contemporaneamente è stato aggirato l’ultimo ostacolo formale al rimpatrio, visto che nel primo pomeriggio di oggi le infermiere sono state assolte dalle accuse di diffamazione formualte nei loro confronti dal commissario libico Selim Djuma.

Alla base di questo procedimento parallelo, che continuava ad essere seguito indipendentemente dalla decisione presa dal Consiglio superiore delle istanze giudiziarie, c’erano le accuse fatte dalle infermiere, che avevano parlato di torture per estorcere la propria confessione, proprio nei confronti di Djuma, ora condannato al pagamento delle spese processuali.

In Bulgaria, dove la sentenza, rimandata più volte nel corso delle ore, è stata attesa in un’atmosfera densa di tensione e speranze, il verdetto è stato accolto con un misto di sollievo e delusione. Al linguaggio pacato e moderatamente soddisfatto della diplomazia ha fatto da contraltare la delusione dei parenti degli imputati che speravano, se non in un’assoluzione, almeno nella concessione della grazia.

"Sono delusa. Speravo fossero finalmente liberati. A che cosa sono serviti tutti gli sforzi fatti e tutto il denaro speso?", ha commentato a caldo Tzvetanka Siropulu, cognata di Valentina, una delle infermiere accusate. Anche la figlia di un’altra imputata, Valya Chervenyashka, ha accusato il governo di aver giocato male le proprie carte, acconsentendo al pagamento dei risarcimenti prima del pronunciamento della sentenza. "I leader bulgari non sono riusciti a proteggere realmente i propri cittadini", è stato il commento della ragazza.

Commenti velatamente delusi sono venuti anche da varie fonti dell’Unione Europea, vero grande attore del "dietro le quinte" della vicenda libica. "Non è questa la decisione che stavamo aspettando" ha dichiarato ai microfoni della radio nazionale bulgara Geoffrey Van Orden, fino all’anno scorso capo dei supervisori del processo di integrazione all’Ue della Bulgaria. "La mancata grazia è una notizia triste, ma continueremo a lavorare per fare in modo che gli accusati possano tornare presto in Bulgaria". "Aspettavano la liberazione del medico e delle infermiere", gli ha fatto eco Hanes Svoboda, vice presidente del partito dei socialisti europei, "ma comunque la commutazione della pena di morte è un primo passo in avanti".

A giocare un ruolo molto attivo in questi giorni è stata la Francia. Nei giorni precedenti il verdetto, Cecilia Sarkozy, mogli del presidente transalpino Nicolas, si è recata in visita non ufficiale in Libia, visitando sia gli imputati che alcuni dei bambini ammalati di AIDS. E’ di oggi inoltre la notizia di una probabile visita, questa volta in forma ufficiale, che il presidente Sarkozy sarebbe intenzionato a rendere a Tripoli nei prossimi giorni.

A sottolineare l’importanza dell’azione portata avanti dall’Unione Europea, è stato lo stesso premier bulgaro Sergey Stanishev. "In questi giorni sono in contatto continuo con la Commissione, con la presidenza portoghese e con gli altri stati membri, a cui vorrei esprimere il mio ringraziamento per il supporto ricevuto negli ultimi sei mesi", ha dichiarato stamattina Stanishev, aggiungendo che "se non fossimo stati membri dell’Ue, il risultato odierno sarebbe stato molto più difficile da raggiungere".

La pressione dell’Ue è stata sicuramente forte, e ha fatto leva principalmente sul desiderio di Muammar Gheddafi, l’uomo forte di Tripoli, di essere riammesso a tutti gli effetti all’interno della comunità internazionale, dopo i lunghi anni di isolamento dovuti alle accuse di collusione col t[]ismo, ma non solo. Alcuni rappresentanti dell’associazione delle famiglie dei bambini infettati, avrebbero denunciato il tentativo di essere convinti a sottoscrivere l’accordo, con cui hanno rinunciato all’esecuzione della pena capitale, con la minaccia di non ricevere più i visti necessari per recarsi con i loro figli nei paesi europei in cui, in questi anni, hanno ricevuto assistenza medica.

Un ultimo mistero riguarda la provenienza dei fondi utilizzati per pagare proprio il risarcimento di 400 milioni di dollari. In un’intervista a "Figaro", Seif-al-Islam Gehddafi, figlio di Muammar e presidente della "fondazione Gheddafi", che ha portato avanti le trattative con le famiglie, sostiene che il denaro, passato attraverso un fondo speciale creato nel 2004 da Sofia e Tripoli, sarebbe stato messo a disposizione dai governi di "Bulgaria, Croazia, Slovacchia e Repubblica Ceca sotto forma di riduzione del debito della Libia". Tutti i paesi interessati hanno però smentito, e su questo aspetto della vicenda continua a non esserci chiarezza.

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