Sotto il tallone di Hollywood
Operatore dei più grandi registi bulgari ed oggi a sua volta regista, Radoslav Spasov, convinto sostenitore di un cinema come espressione artistica e non solo commerciale, ci parla di speranze e difficoltà di una cinematografia insidiata dallo strapotere di Hollywood
Radoslav Spasov, classe 1943, ha iniziato a lavorare nel mondo del cinema come addetto di macchina non qualificato, nel 1966. Diplomato per corrispondenza al VGIK di Mosca è diventato presto l’operatore preferito di tutti o quasi i più importanti registi bulgari, girando gran parte dei loro film più significativi. Nel 1993 ha esordito alla regia col film "Sirna Nedelya", e da allora si è dedicato principalmente alla regia, realizzando nel 2005 il film "Otkradnati ochi" (Occhi rubati).
Come è cominciata, e come si è sviluppata la sua carriera?
Io volevo diventare attore, e ho fatto le selezioni per entrare nell’accademia VITIZ. Le cose però non sono andate come speravo, dissero che avevo un difetto nella pronuncia, allora provai strade alternative. Nel mondo del cinema sono poi entrato nel 1966, come lavorante non qualificato alla macchina da presa nel "Kinocentar Boyana", che fino ad un anno fa è stata una specie di seconda casa per me. Col tempo sono diventato assistente operatore, e ho avuto la possibilità di imparare dai migliori professionisti bulgari del tempo. Nel frattempo studiavo da operatore per corrispondenza al VGIK di Mosca. Al terzo anno ho potuto finalmente iniziare a filmare e ho fatto il mio primo film, "Izpit" (L’esame) di Georgi Dyulgerov, che è stato la mia "tesi di diploma". Ho lavorato poi con uno dei più famosi registi bulgari, Metodi Andonov, l’autore di "Kozyat Rog" (Il corno di capra). Nel corso di otto mesi abbiamo lavorato al progetto "Mazhki Vermena" (Tempi da uomini), che allora lui doveva girare. Io avevo fatto soltanto un film, mentre Andonov era già un regista affermato, quello è stato probabilmente il periodo più bello della mia carriera, il più romantico. Sognavamo molte cose, in questi otto mesi abbiamo condiviso molto, e il progetto era molto interessante e assolutamente originale. Poi, per motivi diversi, innanzitutto perché non gli avevano lasciato passare alcune cose che lui voleva, Metodi abbandonò il progetto e iniziò a lavorare ad una serie televisiva. Io invece conobbi un altro regista importante, Eduard Zahariev, col quale ho girato "Vilna zona" (Località di villeggiatura), su un soggetto di Georgi Mishev, e poi lo stesso "Mazhki Vrememna", che lui portò a termine. In seguito ho lavorato anche con Georgi Stoyanov, con Kiran Kolarov con cui ho girato "Sluzhebno polozhenie ordinaretz", che ricevette molti premi e poi "Delo 205/1913 P.K. Yavorov". (Processo 205/1913 P.K. Yavorov). Ho continuato con il film "Vreme Razdelno" (Tempi divisi) di Donchev, con "Lachenite obuvki na neznanya voin" (Le scarpe lucide del milite ignoto) di Rangel Valchanov, quindi sempre con Valchanov ho girato "A sega na kade" (E adesso, in che direzione?), e ultimamente "A dnes na kade" (E oggi, in che direzione?).
Cosa è successo negli anni a cavallo del cambio di regime politico?
Con l’avvicinarsi degli anni novanta iniziò a sentirsi la crisi nel cinema bulgaro. Io l’ho sentita in modo particolare perché ho sempre lavorato a film impegnati, e sono dell’idea che, lavorando grazie ai soldi dei contribuenti, il nostro ruolo fosse quello di creare non film commerciali, ma opere che avessero spessore artistico. Allora, col cambio di regime, si partì lancia in resta verso la cosiddetta economia di mercato, e molti tra i miei colleghi dissero: "Ecco, finalmente è arrivato il nostro momento, adesso potremo fare i film che vogliamo", e non si fermarono a riflettere sul fatto che quel momento ha praticamente significato la liquidazione dell’industria cinematografica bulgara, e l’arrivo in grande stile dei distributori americani, che nel giro di pochi anni hanno monopolizzato il nostro mercato. Noi avevamo un’industria cinematografica molto forte. Il sistema era organizzato intorno al monopolio statale di un complesso economico-produttivo-artistico, e all’inclusione di tutte le fasi produttive in una specie di catena. I soldi guadagnati dalle sale cinematografiche, ad esempio, venivano reinvestiti nelle nuove produzioni, e così il ciclo veniva tenuto in moto. All’epoca, grazie a questo tipo di organizzazione, in Bulgaria si producevano circa 25 lungometraggi l’anno, oltre ad una trentina di film per la televisione e a 60 tra documentari e film d’animazione.
Nei Balcani, poi, il "Kinocentar Boyana" era senza dubbio il centro di produzione cinematografica più grande, un centro in cui si concentrava in un solo luogo l’intero ciclo di creazione di film. Nel periodo di liquidazione di questo sistema c’è stato un grande inganno nei confronti di chi lavorava nell’industria cinematografica, perché ci fu detto che ci sarebbe stata la possibilità di aprirsi con i propri progetti verso il mondo esterno. Le cose però sono andate diversamente, e di fatto l’industria cinematografica è stata frazionata in diverse aziende che lavoravano solo sulla carta, mentre i distributori americani nel giro di pochi anni hanno preso più del 90% del mercato interno bulgaro.
Il "Kinocentar Boyana" è stato trasformato in una ditta che fornisce servizi, senza più produzione né sostegno da parte dello stato. Le sale cinematografiche furono poi divise in alcune catene ma, dopo la privatizzazione, delle 3500 sale allora esistenti nel paese è rimasto ben poco. Ci sono oggi grandi città, come ad esempio Ruse, in cui oggi non esiste un solo cinema funzionante. Ci sono voci insistenti sul fatto che la Bulgaria avrebbe firmato un accordo segreto con gli Stati Uniti perché non ci sia alcun ostacolo per la diffusione e la distribuzione dei loro film sul nostro mercato. Qualcosa del genere è successo nel 1946 in Francia, ma dopo che l’accordo fu reso noto la protesta dell’industria cinematografica fu così forte che l’accordo dovette essere rivisto.
E cosa è successo invece in Bulgaria?
Io credo che, almeno in Europa, non esiste un altro paese che sia così fortemente dominato dall’industria cinematografica statunitense. L’Europa, per difendere le proprie posizioni nel settore ha discusso un accordo con gli Stati Uniti, secondo il quale non ci sono quote privilegiate o impedimenti rispetto all’ingresso di film americani sul mercato europeo. Il principio delle quote viene però introdotto nella televisione. Esiste una direttiva europea, la "Televisione senza confini", in cui si dice che una larga fetta delle produzioni trasmesse in televisione deve essere europea, e questo soprattutto nelle fasce orarie più seguite. Mi pare che in Francia questa quota sia del 60%, mentre in molti altri paesi europei del 40%.
Si capisce che, almeno formalmente, questa direttiva è diventata norma anche in Bulgaria, dopo il suo ingresso nell’Unione Europea, ma in realtà qui, con la nuova legge sulla radiotelevisione, attraverso esperti pagati e furberie sono riusciti ad aggirarla, visto che le televisioni a copertura nazionale sono sì obbligate a trasmettere almeno il 51% di film di produzione europea, ma con l’aggiunta di un cavillo che non ha alcun senso legale, e cioè che devono farlo "solo quando questo è praticamente possibile". Questo comma è ancora in vigore, e anche se tutti fanno finta di niente questo dimostra che la nostra industria cinematografica soggiace di fatto a interessi stranieri, ed è tenuta in vita solo attraverso qualche finanziamento statale.
Lei personalmente come ha vissuto gli anni della transizione?
Mentre il sistema crollava, proprio all’inizio degli anni ’90 io ho deciso di orientarmi verso la regia. Allora i miei colleghi iniziarono molto presto in qualche modo a lottare per la pura sopravvivenza, attraverso i loro film, che gradualmente hanno iniziato ad essere girati più per sopravvivere, appunto, piuttosto che interessarsi ai temi scottanti che riguardavano ciò che accadeva intorno al nostro mondo. Io avevo la fortuna di lavorare molto e di essere richiesto, avevo la possibilità e la voglia di lavorare in una direzione diversa. E quando tutti si sono orientati verso un cinema più "normalizzato", comune, verso l’intrattenimento e la ricerca del commerciale, io mi feci da parte ed iniziai a scrivere lo scenario del mio primo film da regista, che si chiama "Sirna Nedelya".
C’è stato quindi un periodo di quattro anni in cui mi sono concentrato sulla distribuzione del mio film. Poi ci fu la creazione dello cosiddetto "Druzhestvo Film Avtor", in cui io mi sono impegnato molto attivamente. Uno degli scopi dell’organizzazione era quello di rispondere ad un grave problema: fino al ’93 gli autori del cinema bulgaro non possedevano i diritti sulle loro opere. Potevano vantare diritti solo su alcuni spezzoni, ad esempio un operatore su alcune inquadrature, o un regista su alcuni episodi, ma non sul film nella sua interezza, che invece appartenevano agli studi di produzione. Grazie al nostro impegno, da allora è entrata in vigore una nuova legge, e i diritti ora appartengono agli autori come persone fisiche, secondo il modello europeo, e non più agli studi, come avviene invece negli Stati Uniti. In seguito ho girato "Otkradnati Ochi" (Occhi rubati), uscito nel 2005, e al momento sono impegnato a lavorare ad un altro soggetto che riguarda la transizione dell’89.
Il passato regime investiva molte risorse, finanziarie ed umane, nella produzione cinematografica. Qual era il compito che il regime aveva in mente per il cinema all’interno della società?
Non si deve nascondere che il cinema in quegli anni era uno strumento di propaganda. Bisogna però dire che c’erano molti autori onesti che riuscivano ad aggirare le volontà del regime, riuscendo a fare bei film, che non soggiacevano alle direttive dall’alto. Possiamo portare ad esempio nomi come Eduard Zahariev e Georgi Dyulgerov,
Come riuscivate a sfuggire al controllo dall’alto? E quali forme di censura esistevano?
Il cinema, e questo non è un segreto, veniva controllato direttamente dal Politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista Bulgaro. Nel cinema, forse ancora oggi, c’è una fitta rete di ex agenti delle strutture dei servizi segreti, che sono riusciti a conservare le proprie posizioni. Noi ne conosciamo ormai una buona parte, e per altri ci sono sospetti più che fondati. Proprio attraverso l’attività di queste persone il regime tentava di controllare tutto quanto succedeva nel nostro settore. Ci sono state persone coraggiose che hanno sofferto per le loro scelte. Persone come Dinka Zhelyaskova, l’autrice di "Privarzheniat balon" (Il pallone frenato), come Irina e Hristo Piskovi, con il loro "Ponedelnik sutrin" (Lunedì mattina) o come Hristo Hristov con "Edna zhena na 33" (Una donna di 33 anni). Ci sono film che sono stati messi sotto chiave, che sono stati bloccati prima di essere mostrati e dopo essere stati girati restavano in un cassetto. Il "trucco" per sfuggire al controllo consisteva nel presentare una certa sceneggiatura, per poi cambiare le cose durante la lavorazione, per arrivare alla posizione che sentivi più tua.
Lei personalmente ha avuto esperienza con la censura?
Posso raccontare quello che è successo al film "Mazhki Vermena", che è ambientato all’interno della comunità dei pomacchi, bulgari di fede islamica. Allora si vietò di utilizzare i nomi originali dei personaggi, come comparivano nella novella di Nikolay Haytov, sulla quale era basata la sceneggiatura. Era appena passata la prima "onda" della politica di cambiamento forzato dei nomi, che aveva riguardato proprio i pomacchi. Si ricevettero allora istruzioni che anche i nomi dei personaggi del film dovevano essere cambiati. Tutto questo avvenne all’improvviso, senza darci il tempo di reagire, alcuni giorni prima che iniziassero le riprese. C’era però anche il fenomeno opposto. Prendiamo il film "Vreme razdelno" che fa parte dei cosiddetti "film su ordinazione" voluti dal partito. Si tratta di una serie di 4-5 film a soggetto storico che dovevano glorificare i 1300 anni dalla nascita del primo stato bulgaro. Si trattava di produzioni davvero grandi, i cui fondi provenivano direttamente dal budget dello stato, e non da quello dell’industria cinematografica. Per "Vreme razdelno", quello che è interessante è che il film fu concepito con una certa logica (antiturca N.d.A), ma anche qui durante la lavorazione riuscimmo a cambiare le cose e a focalizzare l’attenzione sul concetto di violenza, violenza tanto dalla parte cristiana che da quella musulmana, come tratto della natura umana.
E oggi esiste un qualche modello per il cinema bulgaro?
Forse non possiamo parlare di modello, ma oggi si è imposto in modo molto serio e autorevole il gruppo degli studenti di Georgi Dyulgerov, una generazione che è arrivata alla sua maturità. Parlo di Lyumil Todorov, Iglika Trifonova, Ivan Cherkelov, di Milena Andonova, un gruppo che al momento stabilisce la direzione del cinema contemporaneo bulgaro. In qualche modo questi autori sono entrati in concorrenza con il proprio maestro, una concorrenza fruttuosa. Non posso dire che l’abbiano superato, ma al momento ricevono molte attenzioni e reazioni positive. Il bello è che ognuno di questi registi, producendo film principalmente d’autore, ha un suo sguardo particolare e personale sulle cose. Di certo questo è un grande merito dello stesso Dyulgerov, che è riuscito a salvaguardare l’individualità di ognuno di loro, senza tentare di forzarli nei propri criteri creativi. Come gruppo sono riusciti a conservare il proprio potenziale in un momento molto difficile, a non fare compromessi, e io li apprezzo molto e li considero un fenomeno all’interno della cinematografia bulgara.
Lei conosce l’attuale sistema di formazione cinematografica? E’ possibile fare un confronto con quanto succedeva in questo campo prima dell’89?
Personalmente sono convinto che l’attuale sistema di insegnamento sia molto debole, perché innanzitutto nelle strutture di formazione si sono inserite molte persone che, con qualche eccezione, non hanno mai dimostrato il proprio valore come autori cinematografici. Il fatto che in questi ultimi 17 anni non ci siano stati molti debutti, dimostra che il sistema non è di qualità molto alta. Ci sono alcuni giovani che riescono a farsi strada, come Dimitar Paunov oppure come Zornitza Sofia, la quale cerca in modo molto deciso e libero, all’americana, diciamo, di realizzare i propri progetti cinematografici, ma sono pochi. Credo che il sistema educativo in Bulgaria sia chiuso, e non aperto come succede in Europa ed in America. In generale è stato introdotto il sistema europeo che non prevede la figura di un insegnante "forte" che faccia da guida, ma non con lo scopo di migliorare l’insegnamento, quanto, piuttosto, di fare in modo che non si notino i limiti di alcuni tra gli stessi insegnanti. Faccio un esempio che può aiutare a capire quale sia la situazione oggi: in Romania, negli ultimi quattro anni ci sono stati 16 debutti di nuovi registi. In Bulgaria, negli ultimi 17 non sono stati più di 4-5.
Qual è il ruolo delle coproduzioni oggi?
Secondo me il ruolo delle co-produzioni al momento è assolutamente centrale per il cinema bulgaro, che avrebbe vita molto più difficile senza questa opportunità. Queste permettono la nascita e il mantenimento di un buon livello professionale attraverso un dialogo continuo con i produttori esteri e soprattutto europei. Di fatto solo le co-produzioni permettono oggi di creare dei film che siano anche prodotti culturali e artistici, e non solo commerciali. Non dimentichiamo, poi, che il cinema gioca un ruolo di primo piano nel processo di scambio culturale all’interno dell’Unione Europea. Quindi sia l’aspetto finanziario che quello culturale delle co-produzioni è sicuramente positivo. C’è da dire che, nei primi anni in cui soggetti bulgari partecipavano a co-produzioni, le cose erano più complicate.
Allora era soprattutto l’aspetto economico quello che più veniva perseguito. Poi succedeva che ognuna delle nazioni impegnate nella co-produzione tentava di inserire qualcosa di suo, ad esempio un attore, o altri "pezzi" della produzione. La collaborazione rimaneva però, per forza di cose, in superficie, e il prodotto finale era spesso quello che io chiamo un "bastardo" culturale. Per fortuna, però, questo stadio è stato velocemente superato.
Lei è ottimista per il futuro del cinema bulgaro?
Al momento penso che si siano dei piccoli, ma importanti passi avanti nell’ultima legge fatta sulla cinematografia, che mi danno motivo di essere ottimista. Questo ottimismo è poi rafforzato soprattutto dai giovani con cui ho contatti, che hanno un atteggiamento mentale aperto e non più legato con il passato. Mi sembra che stia crescendo la consapevolezza che è arrivato il momento di fare qualcosa. Anche il ministero della Cultura ed il governo nel suo complesso devono però prendere posizione, perché ci siano degli sviluppi positivi. Io ho potuto contare sulle mie capacità creative perché c’era intorno a me un sistema complessivo che mi ha permesso di svilupparle. Credo che bisognerebbe creare un nuovo sistema che dia anche ai giovani la possibilità di poter fare lo stesso.
Sarebbe della massima importanza introdurre un fondo speciale che sia a disposizione delle opere prime, per trovare e far emergere nuovi talenti, e forse recuperare anche i tanti che si sono persi nello show-business, nella pubblicità, nella televisione, visto che non hanno trovato sbocchi nel cinema. Bisogna fare in modo che il cinema non sia più tenuto solo a "livello di sussistenza", ma che torni ad essere lo strumento per poter inviare messaggi alla società, un mezzo di espressione pieno. Il mio ottimismo viene dalla sensazione che "nella stanza dei bottoni", inizia ad esserci la consapevolezza che c’è il bisogno di agire. In passato abbiamo fatto molti errori, dobbiamo ammetterlo, ma oggi c’è una generale convergenza verso il cambiamento.