Bulgaria, se la guerra è vicina
La guerra di Putin in Ucraina ha forti ripercussioni sulla Bulgaria: il governo ha condannato fermamente l’aggressione, ma nel paese tradizionalmente legato alla Russia, emergono faglie di divisione sia dal punto di vista politico che simbolico. Nel frattempo i rifugiati in arrivo sono già 30mila
“Al momento non abbiamo alternative realistiche, siamo in una situazione di forte dipendenza”. Con queste dichiarazioni all’agenzia Reuters, lunedì scorso il premier bulgaro Kiril Petkov ha spiegato perché, con tutta probabilità, la Bulgaria chiederà di congelare la propria partecipazione alle sanzioni nei confronti della Russia, almeno nel settore energetico.
Nonostante i tentativi degli ultimi anni di diversificare le forniture, la Bulgaria dipende quasi totalmente dal gas russo, mentre più di metà del carburante utilizzato nel paese proviene dalla sua unica raffineria – situata a Burgas sulle rive del mar Nero – proprietà della compagnia russa Lukoil. “Sosteniamo in pieno il popolo ucraino”, ha continuato Petkov, “e abbiamo aderito con convinzione alla prima ondata di sanzioni […], ma quelle su gas e petrolio per noi sono difficilmente accettabili, sia come sistema economico che come paese”.
La questione energetica è uno dei motivi principali di preoccupazione e dubbi che tormentano la Bulgaria di fronte all’invasione dell’Ucraina voluta dal presidente russo Vladimir Putin, ma di certo non è il solo. Sia nelle file della politica che tra l’opinione pubblica, la Bulgaria conserva settori consistenti che guardano con simpatia a Mosca. E se le posizioni istituzionali si sono presto allineate a quelle di Unione europea e Nato, faglie di divisione sono apparse fin dall’annuncio di Putin di voler dare inizio alla sua “operazione speciale” contro l’Ucraina.
Proprio l’utilizzo della formula “operazione speciale” al posto di “guerra” ha provocato la settimana scorsa un primo scossone all’interno dell’esecutivo di Sofia. Stefan Yanev, già premier ad interim e ministro della Difesa, ha infatti insistito nell’utilizzare la definizione fornita da Putin, scatenando un vespaio di polemiche. In un suo post su Facebook, Yanev ha poi sostenuto che la Bulgaria “non deve necessariamente assumere una posizione filo-russa, filo-americana o filo-europea”, ma concentrarsi invece sulla “difesa dei propri interessi nazionali”.
Dopo alcuni giorni di fermento politico, Petkov ha chiesto ed ottenuto le dimissioni di Yanev. “Nessuno ministro ha diritto di portare avanti una sua personale politica estera su Facebook”, ha commentato il premier, ribadendo che per i fatti in Ucraina non può esserci altra definizione che “guerra”. Dopo la sua uscita dall’esecutivo Yanev, che nei mesi scorsi si era già espresso contro la prospettiva del dispiegamento di nuove truppe Nato in Bulgaria, ha annunciato l’intenzione di dar vita ad un nuovo progetto politico, con tutta probabilità di carattere nazionalista.
Tensioni sono emerse anche all’interno della maggioranza di governo di cui fa parte tra gli altri anche il Partito socialista, che ha sempre vantato forti legami con Mosca. Se da una parte i socialisti hanno condannato ufficialmente “l’escalation militare e l’offensiva russa in Ucraina”, dall’altra si sono detti contrari ad imporre sanzioni alla Russia in quanto “inefficaci” e costose per i cittadini e l’economia bulgara.
Dopo la reazione ufficiale di Sofia all’invasione dell’Ucraina, il governo russo ha inserito anche la Bulgaria nella sua lunga lista di stati “nemici”. La tensione è salita ulteriormente dopo l’arresto a Sofia lo scorso 2 marzo del generale bulgaro Valentin Tsankov, accusato di spionaggio a favore della Russia ai danni di Bulgaria e Nato. Due diplomatici russi, che avrebbero collaborato con Tsankov, sono stati espulsi: l’ambasciatrice russa a Sofia, Eleonora Mitrofanova, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco ignorando l’invito a presentarsi al ministero degli Esteri per ricevere la nota diplomatica che accompagnava l’espulsione.
La Mitrofanova ha poi scatenato ulteriori polemiche dopo aver paragonato – in occasione della festa nazionale bulgara del 3 marzo – l’invasione dell’Ucraina all’intervento russo contro l’Impero ottomano nel 1877-78, guerra che pose le basi all’indipendenza dello stato bulgaro moderno.
Proprio la ricorrenza del 3 marzo, giorno della firma del trattato di Santo Stefano, che pose fine al vittorioso conflitto russo-turco, e che quest’anno è caduta a pochi giorni dall’inizio della guerra di Putin all’Ucraina, ha riaperto il dibattito mai sopito sul significato della celebrazione e sui legami storici tra Bulgaria e Russia.
Durante la tradizionale commemorazione al passo di Shipka, dove venne combattuta una delle battaglie decisive della guerra nel 1877, il premier Kiril Petkov è stato fischiato e preso a palle di neve dagli attivisti del partito filo-russo Vazrazhdane (Risorgimento), che sventolavano bandiere russe e bulgare. Nel frattempo alcune voci della politica e della società civile hanno riproposto l’invito a scegliere un’altra data come festa nazionale, datoil forte legame del 3 marzo con la Russia, vista più come “matrigna” che come “madre liberatrice”.
Lo scontro sui simboli ha raggiunto come prevedibile anche uno dei monumenti più divisivi della capitale Sofia, quello all’armata rossa che svetta in pieno centro città, nel parco di fronte al rettorato dell’Università “Sveti Kliment Ohridski”. Il 27 febbraio, durante una manifestazione contro l’invasione russa dell’Ucraina, sulla base del monumento sono apparsi graffiti coi colori della bandiera ucraina e slogan come “Assassini”, “Onore all’Ucraina” e “Via Putin”.
Subito dopo l’inizio della guerra la municipalità sofiese di “Sredets”, quella in cui si trova il monumento, ha annunciato che intende rimuoverlo e ricollocarlo altrove, dando seguito ad una delibera – mai attuata – del 1993. Una decisione che però potrebbe rivelarsi di difficile attuazione, visto che un accordo bilaterale prevede consultazioni tra Sofia e Mosca prima di poter spostare il monumento.
Mentre la politica si accapiglia sui numeri, la Bulgaria è di fronte a quella che forse è già la più grande ondata di profughi della sua storia moderna. Secondo dati ancora incompleti, 30mila rifugiati ucraini, soprattutto donne e bambini, sono già arrivati in Bulgaria dall’inizio dell’invasione russa, ospitati soprattutto in strutture alberghiere sulle rive del mar Nero.
Numeri molto inferiori a quelli diretti a paesi come Polonia, Ungheria e Slovacchia, ma sufficienti per mettere in difficoltà lo sforzo di accoglienza della Bulgaria. E che potrebbero aumentare se il conflitto dovesse coinvolgere più da vicino la regione di Odessa, dove è concentrata la forte minoranza bulgara in Ucraina, stimata intorno alle 140mila persone.
L’atmosfera che si respira è quella di forte solidarietà, molto diversa da quella che ha accompagnato l’arrivo dei profughi siriani nel 2015. E nel governo c’è già chi spera che molti ucraini decidano di restare, e addirittura creare nuove opportunità per l’anemico settore produttivo bulgaro: secondo il premier Petkov, molti datori di lavoro hanno iniziato a contattare i profughi, e ci sarebbe spazio per almeno 200mila lavoratori.
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