Amos Oz, l’arte del compromesso

Romanziere, saggista, attivista politico, l’israeliano Amos Oz è uno dei nomi più noti della letteratura mondiale e un fervente sostenitore della necessità di riuscire a trovare soluzioni di compromesso per superare i conflitti. Il nostro corrispondente l’ha incontrato a Sofia, in Bulgaria

07/01/2010, Francesco Martino - Sofia

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Amos Oz, ritratto - (M. Benard/flickr)

Romanziere, saggista, giornalista, attivista politico. Amos Oz è uno degli intellettuali più influenti e stimati in Israele e uno dei nomi più noti sulla scena letteraria mondiale. Più volte candidato al premio Nobel, Oz è autore di romanzi di grande successo, tra cui "Una storia di amore e di tenebra" e "Conoscere una donna" e di saggi come "Contro il fanatismo". Impegnato in prima persona nel dibattito sulla questione israelo-palestinese, Oz è da sempre un sostenitore della necessità di una soluzione di compromesso, ed è stato tra i primi a supportare l’idea della creazione di due stati separati, Israele e Palestina. A Sofia Oz ha presentato la traduzione in bulgaro del suo "La vita fa rima con la morte", ed è stato ospite d’onore della Fiera del Libro, tenuta a dicembre nella capitale bulgara.

Lei è per la prima volta in Bulgaria, ma ha dichiarato di averla già visitata più volte "nei miei sogni". Cosa intendeva dire?

Io sono cresciuto in un quartiere di Gerusalemme dove molti degli abitanti erano proprio ebrei provenienti dalla Bulgaria. La Bulgaria è per noi ebrei un posto particolare, e non dimenticheremo mai che grazie al governo, ma soprattutto al popolo bulgaro, gran parte della popolazione ebraica residente in questo paese venne salvata dall’Olocausto. Anche prima degli eventi della Seconda guerra mondiale, poi, la comunità ebraica godeva in Bulgaria di una condizione particolarmente positiva. In uno dei miei libri, "Lo stesso mare", molti dei personaggi sono appunto ebrei provenienti dalla Bulgaria.

Lei viene da una terra segnata dal conflitto, ed è stato uno dei primi e più convinti sostenitori della necessità di una soluzione di compromesso tra israeliani e palestinesi, con la creazione di due stati distinti. Crede che oggi ci siano le condizioni perché questo possa essere raggiunto?

Quando cominciammo a prospettare questa soluzione, non erano in molti a supportarla, né da una parte né dall’altra. Io credo però che oggi la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi siano pronti ad intraprendere questo passo. Non dico che siano entusiasti. Quando e se saranno creati due stati separati non ci saranno feste né danze per le strade. Ma sono convinto che ormai la consapevolezza che questa sia l’unica via d’uscita sia maggioritaria. E’ arrivata l’ora, per così dire, di dividere la casa in due appartamenti più piccoli.

Quali sono gli ostacoli che i impediscono che questa strada venga percorsa?

Userò una metafora presa dal mondo della medicina. Israeliani e palestinesi sono come un malato che si è ormai convinto che per guarire sia necessario sottoporsi ad un’operazione, per quanto dolorosa questa possa essere. Il problema è che i medici che dovrebbero operare, e cioè le loro rispettive leadership, sono troppo paurose per entrare in sala operatoria. C’è poi il problema dei fanatici, che da entrambe le parti lottano affinché non si possa arrivare ad un compromesso.

Compromesso è una parola che ricorre spesso nel suo discorso politico. Cosa significa per lei "compromesso"?

Il concetto di compromesso non è particolarmente in voga, soprattutto tra i giovani idealisti. Questo perché viene avvertito come un accordo amorale, come un venir meno a principi puri e assoluti. Per me però il compromesso è sinonimo di vita. "Compromesso" non significa arrendersi o porgere l’altra guancia, ma riuscire a incontrare gli altri a mezza via. L’opposto del compromesso non è l’idealismo, ma il fanatismo, che è uguale a morte.

Al fanatismo lei ha dedicato molte pagine, e un libro "Contro il fanatismo", 2004, edito in Italia da Feltrinelli. Dove crede che affondi le radici il fanatismo nel mondo moderno?

Il fanatismo trae oggi la sua forza soprattutto dall’estrema complessità del mondo in cui viviamo. In questo mondo complicato, i fanatici hanno delle risposte semplici, immediate, spesso fatte di una sola frase o di uno slogan, risposte che possono attrarre determinate categorie di persone. Il fanatico, per usare una metafora letteraria, è un punto esclamativo che cammina in mezzo a noi. Io credo che il XXI secolo non sarà tanto uno scontro di civiltà, quanto una lotta contro ogni forma di fanatismo, sia questo islamico, ebraico o cristiano.

Se gli attuali leader non hanno il coraggio sufficiente per risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi, lei vede all’orizzonte una possibile leadership alternativa, in grado di portare avanti questo processo?

E’ difficile da dire. I cambiamenti avvengono spesso in modo misterioso, ed è impossibile prevedere chi può cambiare il mondo. Chi in Francia avrebbe mai creduto che sarebbe stato proprio De Gaulle a portare il paese fuori dall’Algeria? E chi tra noi avrebbe creduto che Sadat sarebbe venuto a Gerusalemme per firmare la pace tra Egitto ed Israele? Al momento non ho alcun indizio su chi sarà in grado di porre fine al conflitto tra israeliani e palestinesi, ma di una cosa sono certo, chiunque riuscirà a farlo entrerà di diritto nei libri di storia.

Lei sostiene che uno dei dei ruoli fondamentali della cultura sia oggi quello di preservare la memoria. Non teme che ci siano anche memorie "cattive", che possono rendere più difficile la soluzione dei conflitti?

Credo che oggi sia in atto uno scontro di dimensioni mondiali tra la cultura e un’enorme macchina economica, che tenta letteralmente di lavarci il cervello. Dalla mattina alla sera siamo inondati di messaggi che ci vogliono convincere a buttare quello che abbiamo, perché ciò che conta veramente è soltanto quello che non abbiamo ancora comprato. Il passato quindi, non avrebbe alcun valore, e deve essere gettato via. Io credo che il ruolo della cultura, in qualche modo, sia proprio quello di farci ricordare quanto tentiamo di dimenticare. Riguardo al ruolo dei ricordi nei conflitti, credo che il problema non sia quello di dimenticare o meno i traumi e le sofferenze, anche questi hanno valore e non bisogna temerli. L’importante, però, è non divenirne schiavi.

Lei ha spesso sottolineato la speciale responsabilità dell’Europa nella soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da cosa nasce questa convinzione?

Il conflitto tra israeliani e palestinesi ha le sue radici in Europa, di cui entrambi i popoli sono stati vittime. Gli uni hanno subito una storia di discriminazioni culminata nella tragedia dell’Olocausto. Gli altri portano memoria dell’oppressione e del colonialismo europeo. Spesso succede che due fratelli cresciuti in una famiglia violenta non si amino affatto, perché tendono a vedere nell’altro un riflesso del loro antico oppressore, ed è proprio quello che succede oggi tra i nostri popoli. Per questo l’Europa ha una grande responsabilità, che non significa dover prendere le parti dell’uno o dell’altro contendente, ma di aiutare entrambi a trovare la via della pace.

I conflitti si nutrono anche di simboli, e i simboli possono diventare causa di conflitti. In queste settimane in Europa si è discusso animatamente del referendum che in Svizzera ha proibito la costruzione dei minareti. Cosa ne pensa?

Credo che il risultato del referendum in Svizzera sia terribile. Il motivo è semplice: sono convinto che chiunque abbia il diritto di costruire quante moschee, chiese o sinagoghe voglia.

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