Una profuga qualunque
Oggi è la giornata internazionale del rifugiato. In questi anni sono state centinaia di migliaia le persone che hanno dovuto lasciare la ex Jugoslavia diventando loro malgrado profughi. Il racconto di una di loro. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Azra Nuhefendic
I bosniaci nell’ex Jugoslavia erano considerati come scemi. Due di essi, Suljo e Mujo, erano i proverbiali idioti di quasi tutte le barzellette. Una di quelle era su Suljo e Mujo impegnati in un safari. Arrivati in Africa, per la prima volta nella loro vita, si sono divisi, mettendosi d’accordo d’incontrarsi dopo due giorni per vedere chi sarebbe stato il più bravo cacciatore. Dopo due giorni Mujo aveva preso una giraffa e un leone. Suljo, invece, solo tre "pleasovi". Cioè tre africani, che lui chiamava cosi dal verso che facevano pregando in inglese di non essere uccisi: "Please, please".
Questa barzelletta non ha niente a che fare con il Giornale Radio. Eppure, ogni volta quando lo ascolto me lo ricordo.
Ascolto la radio sempre a casa, persino in ufficio. Conosco le voci dei giornalisti, so in anticipo quale rubrica comincerà. Con tanta attenzione ascolto il GR, specialmente la cronaca quotidiana sui clandestini. Lo stesso giornalista, ogni giorno, racconta quanti clandestini sono stati presi: 30, 40 o "ben 80". Entusiasticamente, e come se fosse un servizio di partita di calcio, precisa, tanti kurdi, tanti albanesi, tanti bosniaci. Se per caso tra i clandestini capitano donne e bambini, la sua voce pare più allegra. Mi immagino che nei giorni "fruttosi" anche lui, il giornalista, si senta orgoglioso come facesse parte di una squadra vincente.
La maggioranza dei clandestini arrivano al confine d’Italia dopo avere percorso migliaia di chilometri, spesso in condizioni disumane. Le cronache sui clandestini mi fanno ricordare il mio arrivo in Italia.
Già dal maggio 1992 sapevo che, prima o poi, sarei anche io diventata profuga. Non sapevo con certezza quando sarebbe successo, però non avevo nessun dubbio su quale futuro mi stesse aspettando. Avevo sentito tante storie di profughi. Quasi tutte erano tristi, spesso tragiche. Per qualche ragione irreale, pazzesca, non mi preoccupavo tanto per me stessa. In qualche parte nella mia mente pensavo che, quando sarebbe arrivato il momento, io sicuramente non sarei stata una profuga qualunque. Non potevo immaginarmi come parte dei gruppi di profughi, donne e uomini, spaventati, stanchi, con i bambini tra le braccia, che piangono senza tregua. Pensavo che i miei conoscenti, amici, tutte le persone importanti, mi avrebbero aiutato. Me lo promettevano, dicendo: "Basta che tu dici la data, tutto il resto sarà affare mio".
Accadde effettivamente che dovetti scappare in fretta e impaurita. Le circostanze erano tali che non potevo fare nessuna telefonata per avvertire gli amici di emergenza. Un americano accettò di fare alcune telefonate dall’aeroporto ad Amsterdam ai miei amici, e di spiegare loro la situazione. Ho atteso vicino al telefono due-tre giorni, una settimana. Niente. Alla fine, arrivai in Italia con l’aiuto di persone che conoscevo poco, e che non mi aspettavo mi potessero aiutare.
Non ero arrabbiata con i miei colleghi e amici, neanche delusa. Non ce ne era stato il tempo, perché ho ottenuto un lavoro subito. Niente pulizia, accompagnatrice anziani, niente lavapiatti. Ero segretaria in ufficio! Un lavoro che le profughe comuni potevano solo sognare.
Dopo un paio di mesi arriva un’altra offerta. I colleghi di un’agenzia di Milano mi avrebbero offerto di coordinare un progetto, finanziato dalla Comunità Europea. Lo scopo del progetto era di aiutare i media e i giornalisti dell’ex Jugoslavia.
Accettai il nuovo lavoro con entusiasmo. I soldi del progetto bastavano a procurare gli stipendi, almeno per due anni, per tutti i giornalisti indipendenti dell’ex Jugoslavia. Ho rinnovato i contatti con i colleghi della Bosnia, della Serbia, della Croazia. Ho detto loro che potevano aspettare l’aiuto, entro poco tempo.
La direttrice dell’Agenzia di Milano era una giornalista in pensione, con un passato di partigiana nella Seconda guerra mondiale. Parlava bruscamente e sembrava una persona determinata. La sua teoria era che le donne-giornaliste erano tanto più in pericolo degli uomini, e che bisognava aiutarle prima. Suggeriva azioni che, a me, parevano più adatte ai tempi in cui le donne, in generale, non avevano ottenuto diritti pari agli uomini. Ascoltandola, pensavo che sarebbe stato utile avvertirla che il compagno Stalin era morto e che nel frattempo era stata inventata anche la lavatrice. Vabbè, nessuno è perfetto, pensavo. In fondo era importante aiutare i giornalisti, in qualsiasi modo.
La allegra compagnia-agenzia di Milano, per un paio di mesi lavorò ad organizzare il progetto, prevalentemente viaggiando, cenando, tirando le conclusioni, partecipando a tavole rotonde, stringendo mani, rilasciando comunicazioni "determinanti" e "senza compromesso", "richiedendo azioni immediate". Pazienza! Arriveremo anche agli aiuti concreti, speravo.
Prima che finisse un anno, al mio indirizzo arrivò una lettera dall’agenzia di Milano. Mi pareva un po’ strano, perché eravamo in collegamento giornaliero tramite telefono e fax.
Le due righe, firmate dalla compagna direttrice, mi comunicavano che tra una decina di giorni sarei stata fuori, senza lavoro. I finanziamenti del progetto erano finiti, senza che un soldo arrivasse a quelli a cui erano destinati!
Senza lavoro, senza soldi, senza l’appartamento non c’era niente altro da fare che rivolgermi a un’agenzia che aiutava i profughi.
Già presto la mattina c’era tanta gente in coda davanti all’ufficio. Sentivo la vergogna di essere là, con gli altri profughi, con quel gruppo silenzioso, pensieroso, che provava una sensazione comune: essere scomodi, fuori tempo e fuori posto. Mi preoccupavo di cosa potessero pensare di noi gli altri passanti, guardandoci. Avevo bisogno di scusarmi, di spiegare, di scappare il più lontano possibile.
Alla fine è toccato a me entrare nell’ufficio. Per un momento ho pensato di non farlo. Ma non avevo scelta.
In ufficio, una donna giovane mi faceva domande, senza guardarmi, mentre compilava il modulo. Infine mi consegnò un tesserino con il mio numero personale. Cosi diventai una profuga qualunque. L’unica cosa straordinaria era il mio permesso di soggiorno: straordinario umanitario!