Risoluzione 819
Il pubblico del Festival di Roma premia "Risoluzione 819", il film di Giacomo Battiato sul massacro di Srebrenica. Una produzione italo-francese con le musiche di Ennio Morricone. Dal nostro inviato
Il massacro di Srebrenica coinvolge ed emoziona ancora. Anche il pubblico del cinema. È una delle poche belle notizie della 3° edizione del Festival del film di Roma che si è chiuso sabato e che ha fatto registrare un sensibile calo di interesse rispetto ai due anni precedenti.
Il pubblico romano ha assegnato il Marc’Aurelio d’oro a "Risoluzione 819" di Giacomo Battiato che racconta proprio l’atto di genocidio più grave avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Un film italo-francese girato tra Repubblica Ceca e Polonia sulla base della storia vera di un poliziotto francese (interpretato dal Benoit Magimel de "La pianista" e con le musiche di Ennio Morricone) che dedicò sei anni della sua vita a raccogliere prove e testimonianze della strage quando ancora pochi ci credevano.
Una scelta inattesa (tutti gli spettatori esprimevano il proprio gradimento all’uscita dalle proiezioni) per un film toccante, forte e coraggioso. Un lavoro forse imperfetto, che ha più l’impronta del tv movie (del resto la sua destinazione principale era la tv e ora si spera arrivi a un pubblico il più largo possibile, magari anche in Bosnia e Serbia) che del film per il grande schermo, ma fondamentale nel cercare di ricostruire per la prima volta con la finzione il massacro di Srebrenica con oltre 8.000 morti bosniaci.
Tanti documentari sono stati fatti sul tema ma per la prima volta, come ha sottolineato anche il regista (in quest’occasione dichiarazioni e intenzioni sono in linea con i risultati raggiunti), un racconto filmato ha la forza emotiva per scuotere lo spettatore e coinvolgerlo in prima persona.
Il poliziotto si propone come investigatore al Tribunale penale dell’Aja e viene mandato in Bosnia nel luglio 1995, mentre i caschi blu olandesi sono impotenti (quando non succubi, dice "Risoluzione 819", che prende il nome dal documento Onu che doveva garantire l’incolumità dei cittadini di Srebrenica e dintorni) davanti alla pulizia etnica.
Quasi per caso Jacques Calvez s’imbatte nelle madri e mogli degli scomparsi e inizia un’indagine che lo porterà a rivelare al mondo l’accaduto e a contribuire affinché i morti abbiano un nome e una sepoltura.
"Nel film mostro la verità, ma solo una parte – ha dichiarato il regista – perché sarebbe ancora più dura. Non potevo raccontare in un film tutta la guerra, ma solo questo fatto emblematico. Mi sono ispirato a personaggi veri per rendere omaggio a persone che hanno lasciato la loro tranquilla vita in patria per cercare la verità e ridare dignità alle vittime: furono uccisi gli uomini e violentate le donne, il modo più atroce per ferire un popolo. Ho cercato di raccontare tutto questo in modo semplice, senza nessuna inquadratura compiaciuta, ispirandomi al cinema di un tempo. Il protagonista era un poliziotto di successo che per un senso di giustizia quasi ‘politico’ va in Bosnia e inizia un viaggio all’inferno".
"Oggi pochi ricordano quel massacro – ha aggiunto Battiato – ma la storia si ripete, basti pensare a quel che sta succedendo in Congo in questi giorni. In quest’ultimo caso il rappresentante spagnolo dell’Onu si è dimesso per manifestare la propria impotenza, a Srebrenica gli olandesi sul terreno non poterono che assistere all’eccidio perché non si volle intervenire. Sono un regista e non un politico, ma forse un intervento aereo avrebbe impedito il massacro. Da parte mia sono partito facendomi la domanda: che stavo facendo in quei giorni? Che cosa avevo capito? Sulla guerra di Bosnia eravamo informati ma tutto finiva nel calderone balcanico. Anche oggi su Srebrenica c’è materiale, ma non è esaustivo e da noi non se ne parla più. La situazione era ed è difficile da spiegare agli occidentali. Fu una guerra tra fratelli: serbi e bosniaci sono in fondo lo stesso popolo, per questo la guerra conteneva l’insensatezza di fratelli che si massacravano".
Ha un sapore balcanico pure il Marc’Aurelio assegnato dalla giuria di critici, attribuito all’afgano "Opium War" di Siddiq Barmak, che si era già segnalato per "Osama". Sapore balcanico sia perché si tratta di un altro grande conflitto coperto dai media e con gli occidentali coinvolti sia per la forma cinematografica, che si rifà palesemente a "No Man’s Land" di Danis Tanović. I protagonisti sono un ragazzino e due soldati americani (uno resta ferito) che cadono con l’elicottero in un campo di papaveri e rimangono bloccati in una terra di nessuno. Il messaggio è che una democrazia imposta difficilmente dà buoni frutti.
Tra gli attori sono stati infine premiati Donatella Finocchiaro per "Galantuomini" di Edoardo Winspeare e il polacco Bohdan Stupka per "Il cuore in mano" di Krzysztof Zanussi.