Occidente e Bosnia Erzegovina: il monopolio amorale delle “persone che contano”

Decenni dopo la fine della guerra in Bosnia, i rapporti internazionali con il paese rimangono improntati ad un approccio manageriale amorale, finalizzato alla pacificazione, anche a costo di radicare ulteriormente l’oligarchia delle "persone che contano". Un commento

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© ronstik/Shuttestock

(Pubblicato originariamente da Birn col titolo "People Who Really Matter’ Still Drive West’s Bosnia Policy ")

Il 14 febbraio 1992, l’ambasciatore José Cutileiro presiedette un incontro tra delegazioni di sei partiti bosniaci di opposizione, prevalentemente non nazionalisti, tutti rappresentati nel parlamento della repubblica, ma non facenti parte della coalizione di governo.

Secondo Zlatko Lagumdzija, il capo della delegazione più numerosa, l’ex Lega dei comunisti al potere, era chiaro a tutti che il diplomatico portoghese non voleva essere lì: durante l’incontro sembrava "educatamente annoiato". L’incontro a cui era realmente interessato era stato il giorno prima, fra i leader dei tre partiti nazionalisti (e ancora nominalmente partner di coalizione) Alija Izetbegović (allora presidente bosniaco) del Partito di Azione Democratica (nazionalista bosgnacco) SDA, Radovan Karadzić del Partito Democratico Serbo, SDS, e Mate Boban dell’Unione Democratica Croata, HDZ.

Il giorno dopo, Cutileiro scrisse un lungo resoconto dei colloqui con i tre leader nazionalisti per informare i ministri degli Esteri della Comunità europea, e un’unica frase sull’incontro con i sei partiti di opposizione, affermando semplicemente che era avvenuto. Invitò anche i tre leader nazionalisti a cena con la sua squadra di negoziatori a Stari Grad la sera del 14 febbraio: prevedibilmente, nessun invito fu esteso agli altri partiti. Quando Cutileiro decise di tenere un secondo round di colloqui a Lisbona una settimana dopo, ad essere invitati furono nuovamente solo i tre grandi.

L’incontro del 14 non era particolarmente voluto né da Cutileiro né dal suo capo, Lord Peter Carrington, l’ex ministro degli Esteri britannico nominato presidente della Conferenza di pace sponsorizzata dalla CE. Carrington aveva visitato Sarajevo per incontrare Izetbegović una settimana prima, il 6 febbraio, per discutere il format dei colloqui che intendeva presiedere Cutileiro. Il presidente bosniaco voleva che i colloqui includessero tutti e nove i partiti parlamentari alla pari, ma Carrington (che sembrava conoscere poco il paese, al punto di confondere i nomi dei partiti) preferì un format più stretto, che coinvolgesse solo i tre principali partiti nazionalisti.

Non era la prima volta nel suo mandato di presidente che Carrington cercava deliberatamente di restringere i colloqui sull’ex Jugoslavia ad un piccolo numero di leader di alto profilo. Aveva iniziato la Conferenza di pace nel settembre 1991 con il mandato di risolvere la crisi in Jugoslavia nel suo insieme e aveva diretto più sessioni plenarie a cui erano stati invitati rappresentanti di tutte le repubbliche jugoslave, nonché il governo federale sempre più impotente.

Ma molto presto Carrington scelse di mettere da parte la maggior parte di loro e invece, con le sue stesse parole, “decise di incontrare le persone che contavano, i presidenti Milosevic e Tudjman, riunirle ad un tavolo e parlare dell’assetto futuro” . In seguito, portò sì i leader serbo-croati ribelli della "Repubblica di Krajina serba" ai colloqui di pace croati, ma sembrò ripetutamente disinteressato a qualsiasi ruolo per i (più numerosi) serbi in Croazia al di fuori della regione della Krajina. Geert-Hinrich Ahrens, presidente del gruppo di lavoro sulle minoranze etniche della Conferenza, sollecitò ripetutamente la loro inclusione, ma secondo lui la maggior parte dei mediatori della Conferenza, compreso Carrington, li vedeva come "una sorta di collaborazionisti, che era meglio ignorare".

Una logica simile si ritrova nei colloqui bosniaci nella primavera del 1992. A Lisbona, Cutileiro aveva presentato la sua famigerata “Dichiarazione di principi”, che proponeva di dividere la Bosnia Erzegovina in tre “unità costituenti” lungo linee etniche; in sostanza, avrebbe dato a ciascuno dei suoi interlocutori una fetta di paese da governare. Lagumdzija e i comunisti protestarono a gran voce, ma ormai era chiaro che non erano tra “le persone che contavano”: Cutileiro acconsentì ad un secondo incontro con i partiti di opposizione durante il terzo round di colloqui a Sarajevo alla fine di febbraio, ma fu riluttante a dedicare loro tutta la sua attenzione, inviando allo stesso tempo il suo vice, Henry Darwin, a continuare i colloqui con i tre partiti principali. Secondo i due maggiori partiti di opposizione, i comunisti e l’Unione liberale delle forze di riforma, Cutileiro promise di includerli nelle future tornate di colloqui. Se tale promessa fu effettivamente fatta, il diplomatico portoghese non la mantenne. Il format tripartito era stato stabilito e avrebbe resistito più o meno per l’intera guerra in Bosnia e oltre.

Gli accordi di pace di Dayton, come tutti gli accordi di pace mediati tra i combattenti, furono progettati attorno alle linee rosse dei suoi firmatari. Ci furono molti drammi e attriti sugli accordi territoriali, meno riguardo alle prerogative dei partiti dominanti nei nuovi assetti di governo. Si presumeva che questi partiti sarebbero stati dominanti. Le elezioni del 1996 in Bosnia rafforzarono questa percezione. E se ci sono state sfide e persino avvicendamenti nelle élite etniche dominanti (il partito di Milorad Dodik che ha soppiantato l’SDS nel 2006 ne è l’esempio più chiaro), il sistema operativo e i suoi incentivi non sono mai stati seriamente messi in discussione dall’interno delle strutture politiche.

I partiti in Bosnia, qualunque siano le loro ideologie e retoriche, competono a tutti gli effetti per diventare parte del sistema, con i suoi benefici materiali, piuttosto che per cambiarlo. I progressi compiuti nel decennio successivo alla guerra nel rafforzamento delle istituzioni, compreso lo stato di diritto, sono dipesi dalla pressione esercitata dalla comunità internazionale. Come è chiaro da tempo, tale volontà (e il conseguente sviluppo della nascente responsabilità democratica) è quasi svanita negli ultimi 15 anni.

Oltre alla speranza mal riposta che la porta aperta dell’UE e della NATO sarebbe di per sé bastata a stimolare le élite alle riforme (speranza tendenzialmente infondata in Bosnia), la capacità di attenzione dell’Occidente è stata consumata da altre priorità. La volontà di sperimentazione e fiducia in sé è stata sostituita da un transazionalismo reattivo e difensivo, focalizzato sulle priorità di evitare una resa dei conti con il fallimento della politica e la pacificazione della Bosnia e della regione. I primi beneficiari di questa posizione? "Le persone che contano".

Avanti veloce al 2021: l’idea fissa dell’UE e degli Stati uniti è quella di realizzare un pacchetto di “limitate riforme costituzionali ed elettorali ” quest’anno, prima delle elezioni generali del 2022. Questo sforzo è fondato sul successo proclamato a Mostar lo scorso anno, dove un accordo tra HDZ e SDA mediato congiuntamente da Stati uniti, Gran Bretagna e UE ha a tutti gli effetti rinunciato all’obiettivo di riunificare la città. I partiti di opposizione sono stati esclusi da questo processo. Come scritto altrove , l’ossessione del leader HDZ BiH Dragan Cović (che solo lui o un croato da lui designato possa occupare il seggio croato alla presidenza dello stato bosniaco, insieme all’impegno suo e di Dodik di soffocare il governo se questa richiesta non viene soddisfatta) è il motore di fondo dello sforzo internazionale, che però potrebbe essere piuttosto indirizzato all’effettiva necessità di attuare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, come Sejdić-Finci e miglioramenti elettorali sistemici.

Il motore di questo sforzo è l’insoddisfazione di una delle persone "che contano". Dopo alcune forti critiche sia dall’interno che dall’esterno della Bosnia Erzegovina, il format della discussione sulla riforma elettorale ora include nominalmente i partiti di opposizione. Tuttavia, come quasi 30 anni fa, c’è resistenza sia da parte dei partiti etnici dominanti che dall’interno della comunità internazionale a questa inclusione, vista nel migliore dei casi come un evento secondario, nel peggiore dei casi un potenziale ostacolo al raggiungimento del "prodotto" desiderato. È ovvia la fondamentale contraddizione tra le motivazioni e gli obiettivi dei ricorrenti nelle cause Cedu (Sejdić-Finci, Pilav, Zornić, Slaku) – aprire lo spazio politico di rappresentanza oltre l’auto-identificazione con i popoli costituenti in un territorio distinto – e Cović, che vede scricchiolare un sistema progettato per mantenere le persone nelle loro rispettive caselle e leader etnici come lui al potere, e quindi vuole stringere quelle viti.

Il punto è che un approccio neutrale sui valori, amorale e manageriale finalizzato alla pacificazione rimane la chiave dei rapporti internazionali per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina, anche se gli impegni ufficiali nei confronti delle 14 priorità della Commissione europea per la Bosnia nel suo parere del 2019 o nel rapporto Priebe sulla magistratura dello stesso anno potrebbero far pensare l’opposto. Il solo tenere il paese fuori dalla lista delle urgenze politiche, date le serie priorità, sembra costituire un "successo" per la maggior parte delle capitali occidentali. Date le basse aspettative e l’attenzione alla mitigazione del rischio, la politica si rivolge inevitabilmente a chi può fornire sia un successo nominale che una percezione di stabilità (compresa la cooperazione sulla migrazione), anche a costo di radicare ulteriormente l’oligarchia.

Tre decenni dopo il crollo della Jugoslavia, rimane una deprimente e cinica continuità filosofica con la mentalità riduzionista mostrata da Lord Carrington: abbracciare la politica degli eterni signori della guerra perché fornisce un’interfaccia più semplice per un Occidente distratto. Nonostante la proclamata attenzione dell’amministrazione Biden alla corruzione istituzionale e al sostegno alla democrazia, gli Stati uniti e l’UE si sono congiuntamente impegnati a prendere accordi con "le persone che contano" in Bosnia.

 

Alex Cruikshanks è ricercatore PhD presso l’Università dell’East Anglia e conduttore del podcast "The History of Yugoslavia”

Kurt Bassuener è co-fondatore del Democratization Policy Council; vive a Dundee, in Scozia.

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