Meša Selimović, il dolore dello scrittore
Che cosa spinse il grande scrittore Meša Selimović a scrivere il suo più celebre romanzo "Il derviscio e la morte"? Lo spiega lo stesso scrittore in questo frammento inedito in Italia tratto dai suoi "Ricordi"
Durante le presentazioni delle edizioni italiane dei romanzi Ostrvo [L’isola] (1) e Krug [Il cerchio] (2) di Meša Selimović (1910-1982), tra le domande del pubblico non sono mai mancate quelle riguardanti l’opera più famosa di Selimović, il romanzo Derviš i smrt [Il derviscio e la morte]. Ho ricevuto anche alcune email interessanti dai lettori italiani di questo romanzo. Nel corso dei miei decenni “brevi” trascorsi in Friuli ho tenuto una serie di lezioni in alcuni licei e in un’università italiana dedicate alla produzione letteraria di Selimović, compresa la sua opera più celebre, lezioni che sono sempre state accompagnate da diverse domande e osservazioni del pubblico (3) riguardanti soprattutto i motivi che portarono alla nascita del romanzo Il derviscio e la morte, tradotto in una quarantina di lingue. Selimović scrisse questa opera con il proprio sangue – nel senso letterale del termine – assillato da alcuni interrogativi universali ai quali è impossibile dare una risposta definitiva. Tra questi interrogativi ne spiccano due, di cui anche lo stesso Selimović aveva parlato in alcune interviste, rievocando il Libro della Genesi: chi è mio fratello? Dov’è mio fratello?
Nel 1983, a distanza di diciassette anni dalla prima pubblicazione in Jugoslavia, uscì la prima edizione italiana de Il derviscio e la morte (pubblicata dalla casa editrice Jaca Book, nella traduzione di Lionello Costantini, per poi essere riproposta dall’editore Dalai nel 2008, e nuovamente da Baldini&Castoldi nel 2014). Quella che vi proponiamo qui di seguito è la prima traduzione italiana di un frammento tratto da un libro autobiografico di Selimović intitolato Sjećanja [Ricordi, 1974]. Approfitto dell’occasione per ringraziare le figlie di Meša, Maša e Jasenka, per averci consentito la traduzione e pubblicazione del frammento in questione, in cui troverete tutto quello che c’è da sapere sui motivi che spinsero Selimović a scrivere Il derviscio e la morte e, implicitamente, sulla sua amara constatazione: “Ogni uomo, ogni comunità, ogni stato, ogni ideologia è una fortezza”. Credo che vi troverete anche la spiegazione del perché la prima tra le fortezze citate sia quella umana.
Selimović scrisse la prima breve versione dei suoi ricordi nel 1972 “su richiesta amichevole della professoressa Razija Lagumdžija che per [la casa editrice] Svjelost stava preparando un libro intitolato Kritičari o Meši Selimoviću [La critica su Meša Selimović]”, pubblicato a puntate sul quotidiano sarajevese Oslobođenje. Successivamente, su richiesta dell’editore, Selimović realizzò una versione ampliata dei Ricordi che venne inclusa nella sua opera omnia pubblicata per celebrare i suoi trent’anni di attività letteraria.
Selimović apre i suoi Ricordi con un capitolo intitolato Perché faccio quello in cui non credo. E afferma, giungendo subito al nocciolo della questione: “Ho sempre affrontato con sospetto quasi tutti gli scritti sulla propria vita, i diari, le autobiografie, le autonarrazioni, perché quando si scrive di sé nasce, come un intento e un aggiustamento inconsapevole, il desiderio di edulcorare la propria vita, di nascondere o minimizzare un proprio difetto, di giustificare un brutto gesto, di mettere in evidenza una caratteristica passata inosservata o inesistente: l’uomo corregge anche inconsapevolmente i propri ricordi, idealizzando le persone e gli eventi a cui è affezionato, reprimendo o dimenticando completamente quelli sgraditi”.
E ora, la cosa più importante, che non necessita di commenti, né sulle persone che giustiziarono il fratello di Meša, Šefkija, né tanto meno sulla “normalità” della sentenza con cui vissero senza rimorsi. I fatti parlano da soli, rivelando la propria essenza.
Come del resto anche il dolore alla base dell’atto creativo che portò alla nascita de Il derviscio e la morte.
Un frammento tratto dai Ricordi di Meša Selimović
Verso la fine del 1944, a Tuzla era stato fucilato mio fratello maggiore, partigiano, ufficiale presso il comando del distretto militare di Tuzla, in seguito ad una sentenza emessa dal tribunale militare del 3° corpo d’armata (non cito i nomi, anche se, ovviamente, li conosco, loro non sanno o non ricordano quello che hanno fatto a mio fratello e a me, me ne sono reso conto recentemente quando uno di loro mi ha teso la mano e io non voluto stringerla, e lui, sorpreso, ha chiesto ai miei amici perché fossi arrabbiato con lui).
Sui cartelli affissi in giro per la città c’era scritto che Šefkija Selimović era stato condannato alla fucilazione perché dal magazzino della Direzione centrale per il patrimonio collettivo aveva preso un letto, un armadio, una sedia e qualche altra cianfrusaglia, e il motivo di una condanna così severa era legato, come si affermava nell’avviso, al fatto che l’imputato proveniva da una nota famiglia partigiana. Così la dedizione della nostra famiglia alla rivoluzione e le nostre velleità ci si erano ritorte contro, trasformandoci in vittime. E quell’imputato, mio fratello, al quale gli ustascia avevano portato via tutto quello che aveva in casa, stava aspettando sua moglie che, per puro caso, era sopravvissuta ad un campo di concentramento e stava per tornare a Tuzla. Quando venni a sapere che Šefkija era stato fucilato mi prese un colpo. Rimasi disteso non riuscendo a comprendere nulla e piangendo in continuazione. Qualche giorno dopo mi venne a trovare l’autista dell’UDBA che aveva accompagnato mio fratello al luogo della fucilazione, portandomi un messaggio di un uomo morto.
Šefkija era calmo prima della fucilazione, aveva detto: saluta Meša, digli che sono innocente. Io sapevo che era innocente, nemmeno i giudici sostenevano il contrario. L’autista non poté dirmi dove era stato sepolto, così ancora oggi non so dove si trovi la sua tomba. Quell’atto inconcepibile, folle, ottuso segnò una svolta nella vita di tutti i membri della mia famiglia: sentimmo tutti che erano accadute delle cose che non ci saremmo mai aspettati accadessero. Non si trattava della morte di uno di noi, ci eravamo preparati, eravamo in sette a partecipare alla rivoluzione, si trattava invece di un’ingiustizia tremenda. Senza motivo e senza senso… Qui mi devo fermare. Scrivendo le frasi precedenti, ero consapevole che stavo nascondendo qualcosa, perché mi sentivo in imbarazzo anche davanti a me stesso. Solo quando Darka mi ha fatto notare che non era andata proprio così (lei conosce la verità, gliel’ho raccontata), mi sono fermato malvolentieri e mi sono sforzato di ripercorrere con la mente la catena degli eventi… Sì, ero scioccato, non riuscivo a capire nulla, avevo trascorso quel giorno e quella notte senza dormire e senza mangiare, piangendo, non sapendo dove battere la testa, perché il mio intero mondo era stato messo in discussione. E il giorno successivo, un solo giorno dopo aver appreso la notizia della morte di mio fratello (4), cinque o sei giorni dopo la fucilazione, dovevo tenere una lezione, annunciata in precedenza sui manifesti. Non so di cosa e come parlavo, ma parlavo.
Ecco, è proprio questo che sto cercando di dimenticare, il fatto di aver voluto parlare, di aver potuto, di aver avuto la forza di parlare, di non essermi ribellato, come uomo e fratello, contro quell’obbligo forzato che mi ero autoimposto. Per questo il mio gesto risulta ancora più incomprensibile: se qualcuno mi avesse chiesto di farlo, tutto sarebbe stato semplice, come la tavola pitagorica. Questo invece è un incubo. Soffrivo come mai in vita mia, cercando però di seguire l’unica routine che ritenevo possibile, umana. Anche dopo quel gesto inumano! Suppongo di aver voluto separare le due sfere, quella privata e quella collettiva (magari fosse possibile!). Forse avevo paura di rompere con me stesso così come la rivoluzione mi ha creato, forse andavo avanti per forza d’inerzia: come facevo a scombussolare il mio intero essere? Forse pensavo di non avere il diritto, in mezzo a tutta quella morte, di considerare la mia perdita un motivo sufficiente per abbandonare la rivoluzione che era diventata il senso e l’essenza della mia esistenza. Non posso affermare nulla con certezza, ma forse cercavo di riconciliare me stesso, ferito, e lui, che avevo perso, con la rivoluzione che divora i suoi figli. E così, mi ero sforzato di proseguire sulla stessa strada, come se nulla fosse accaduto, non avevo lasciato il partito, non avevo chiuso con tutto ciò che ero, ma così non avevo risolto nulla, mi sentivo sempre più sopraffatto, quella lezione era diventata il mio incubo, il mio terrore, e a tutt’oggi non sono ancora riuscito a liberarmi dell’assillante sensazione che quella strana colpa suscitava in me. Ho pagato questa ossessione incomprensibile con le grandi sofferenze della successiva e sempre più difficile rottura col me del passato.
Se fossi stato totalmente estraneo alla letteratura, quella tragedia mi avrebbe spinto a riflettere sulla possibilità di raccontare a qualcuno la mia sofferenza attraverso una testimonianza in forma scritta. Tale motivazione, primitiva e semplificata, alla base del desiderio di scrivere, in ultima analisi, è anche la più naturale. Stranamente, nel mio caso tutto si era rivelato molto più complicato: quanto più pensavo a mio fratello ucciso (e ci pensavo in continuazione, avevo provato anche a fuggire da quei pensieri e dal luogo della tragedia, e nel novembre del 1944 mi ero trasferito a Belgrado), tanto più faticavo a trovare dentro di me la forza per esprimere quei pensieri. Pur di rimanere vivo e sano di mente, avevo persino iniziato a dedicarmi in modo artificioso ad altre cose: anziché sul vicolo cieco in cui mi trovavo, sul mio drammatico dilemma, mi ero sforzato di concentrarmi su quell’entusiasmo che provavo in passato, da partigiano. Questa era stata la mia ancora di salvezza, sedativo che mi aveva aiutato a non sprofondare, illusione di cui mi ero servito cercando di distogliere il mio sguardo interiore dall’abisso che si apriva davanti a me, o di dimostrare a me stesso che la mia svolta fatidica, la mia fedeltà incondizionata, il mio entusiasmo sconfinato non potevano essere considerati un mero errore. Galleggiavo nel mare burrascoso della mia confusione morale, aggrappandomi convulsamente ai rimasugli frantumati dei miei vecchi entusiasmi. Inizialmente la mia scrittura era focalizzata sui temi partigiani riguardanti il sacrificio di sé per gli altri. Di certo non fu un caso che io mi imbattessi in questi temi che evocavano la figura di Gesù, probabilmente cercavo di divinizzare la mia sofferenza, di conferirle un senso più elevato: per raggiungere un grande obiettivo servono grandi sacrifici. Tendevo ad osservare anche il mio sacrificio in questa ottica. La mia sofferenza però sembrava impossibile da scacciare o alleviare: gli effetti dell’illusione non erano granché, né come un toccasana per me né dal punto di vista dei risultati letterari, pertanto avevo smesso di scrivere.
Successivamente mi sono trovato costretto ad affrontare altre crisi e difficoltà, quindi ho ricominciato a scrivere, cercando timidamente di elaborare il tema dell’uccisione di mio fratello, purtroppo in modo blando e fiacco: ero troppo legato all’evento, ancora stravolto dalla sua veemenza, senza alcuna distanza psicologica né emotiva, per cui l’intera impresa si è rivelata troppo personale, troppo panflettistica, un lamento sfrenato che riguardava solo me. A quel punto mi sono reso conto anche del fatto di essere immaturo e incapace di articolare una materia così complessa. Incommensurabile e inafferrabile per le mie capacità da dilettante. Quindi, con una perseveranza che non sapevo nemmeno esistesse dentro di me, ho iniziato a prepararmi per poter un giorno, non importava quando, compiere quel lavoro che stava diventando sempre più la mia ossessione.
(1) Bordeaux, Roma 2015, la traduzione di Manuela Orazi e Dunja Badnjević. Nel settembre di quest’anno è uscita anche la seconda edizione.
(2) Bottega errante, Udine 2019, la traduzione di Elisa Copetti.
(3) In quella occasione mi sono reso conto di quanto “le catalogazioni” fossero ancora attuali, tanto da influenzare anche quelle brevi recensioni che si possono leggere sui portali dedicati alla letteratura. Così ad esempio il portale Libreria universitaria definisce il romanzo Il derviscio e la morte “un classico della letteratura balcanica” (sic!).
(4) La notizia della fucilazione mi è stata comunicata dall’allora segretario del comitato locale del Partito comunista per la Bosnia orientale, Cvijetin Mijatović [Mijatović fu un alto funzionario del partito, negli anni Ottanta ricoprendo anche l’incarico di presidente della Presidenza della SFRJ, nota di Božidar Stanišić].