La transizione difficile

Vizi e virtù della Bosnia di Dayton, ruolo del fondamentalismo islamico e processo di integrazione europea. Conversazione con l’Ambasciatore italiano in Bosnia Erzegovina, Alessandro Fallavollita

13/10/2008, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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L'Ambasciatore Fallavollita all'inaugurazione degli incontri internazionali di poesia di Sarajevo (Foto Nicola Tiezzi)

Alla fine di settembre qui a Sarajevo è avvenuto un episodio per certi versi inquietante: l’attacco da parte di un gruppo di estremisti islamici nei confronti del Festival della cultura Queer, sotto gli occhi di una polizia distratta e in un contesto di indifferenza da parte delle principali forze politiche. E’ il segnale di qualcosa che sta cambiando in questo Paese?

E’ un episodio da stigmatizzare e da condannare, ma è difficile dire che si tratti di un segnale sul futuro di questo Paese e sul ruolo del fondamentalismo islamico in Bosnia Erzegovina. In realtà gli aggressori erano una minoranza. Certo è preoccupante il fatto che da parte delle principali forze politiche del Paese, e direi che questo non vale solo per le forze più rappresentative degli ambienti musulmani, ma anche per quanto riguarda gli altri, non vi siano state reazioni di forte condanna – a parte alcune rare eccezioni provenienti da piccoli partiti e da forze tradizionalmente più aperte. Questo è secondo me l’aspetto più preoccupante dell’episodio. Vorrei tuttavia ricordare che gli Ambasciatori dell’Unione Europea, la sera stessa, hanno emesso un durissimo comunicato di condanna di quanto era accaduto.

La campagna che ha portato alle recenti elezioni amministrative è stata segnata ancora una volta da forti divisioni tra le diverse forze politiche e nazionali. L’Alto Rappresentante Lajcak ha dichiarato recentemente che in Bosnia Erzegovina, oggi, si respira un’atmosfera simile a quella che regnava in Cecoslovacchia nel ’93…

Penso che Lajcak abbia voluto richiamare l’esperienza della Cecoslovacchia per attirare l’attenzione della comunità internazionale sull’esigenza di rimettere la Bosnia al primo posto nell’agenda politica internazionale. Questo è un Paese che negli ultimi 12, 13 anni ha fatto progressi enormi in termini di stabilità e di sicurezza, basti pensare che le forze del contingente militare internazionale sono passate da 60.000 a 2.200, 2.300 soldati. Resta tuttavia un Paese con un assetto istituzionale complesso, che se da un lato ha consentito di porre fine al conflitto, a Dayton, dall’altro si sta sempre più dimostrando inadeguato a rispondere alle sfide che lo attendono soprattutto in chiave di integrazione europea. E’ vero, ogni volta che si entra in campagna elettorale riaffiorano i temi e la retorica nazionalista, insieme a tendenze etnocentriche che fanno sì che ciascun partito e gruppo pensi solo al proprio interesse, e che ci siano pochi a pensare in termini di interesse generale del Paese. Detto questo, però, direi che una nota di cauto ottimismo viene dal fatto che il Paese finalmente ha iniziato il proprio percorso verso l’integrazione europea. Certo ci vorrà tempo, degli anni, bisognerà passare attraverso varie fasi e varie tappe, noi ci auguriamo anche attraverso la concessione dello status di Paese candidato, ma mi sembra una scelta irreversibile che tra l’altro viene condivisa – se stiamo ai sondaggi effettuati dallo stesso Ufficio dell’Alto Rappresentante – da quasi il 70-80% della popolazione.

Molti concordano sul fatto che la Bosnia Erzegovina non potrà entrare nell’Unione con l’assetto istituzionale attuale. La comunità internazionale tuttavia sembra avere un certo timore nel toccare il vaso di Pandora dei cambiamenti costituzionali…

Certo è un aspetto molto delicato, perché sappiamo bene che per porre mano a delle riforme istituzionali occorre un alto grado di consenso. Per far passare delle modifiche in Parlamento occorrono i due terzi della maggioranza, e sappiamo quanto le posizioni di partenza siano divergenti, se non veramente contrapposte. C’è una Republika Srpska che tende a guardare con riserva a qualsiasi modifica degli assetti esistenti, perché teme un’erosione di quello status che Milošević riuscì ad ottenere a Dayton. Dall’altra parte si vorrebbe un Paese senza entità, senza cantoni, ma questo vorrebbe dire fare una rivoluzione istituzionale che in questo momento non è realistica. C’è inoltre un problema croato, perché i croati si sentono sotto rappresentati o comunque non sufficientemente tutelati nell’ambito della Federazione e vorrebbero una terza entità. E’ chiaro che con queste posizioni di partenza il lavoro per arrivare a dei compromessi istituzionali è un lavoro delicato e difficile. Però non c’è alternativa, bisogna farlo. E io credo che sarà lo stesso percorso di integrazione europea a facilitare anche questo processo di cambiamenti istituzionali quando il Paese, non intendo solo le forze politiche ma anche la società civile, si renderà conto che per godere dei vantaggi, dei benefici, del miglioramento della vita di tutti i giorni che l’integrazione europea comporta bisogna mettere mano a delle riforme. Forse allora matureranno le condizioni per queste riforme, ce lo auguriamo.

Una cosa che preoccupa tuttavia è la distanza dei cittadini dalle istituzioni. Nelle ultime tornate elettorali la percentuale dei votanti si attesta ormai sempre intorno al 50%, è un dato irreversibile?

Spero di no, è un dato certamente preoccupante che credo nasca anche dalla considerazione che le forze politiche e gli uomini politici in questo Paese sono sempre gli stessi, uomini che spesso erano alla guida del Paese o dei loro partiti durante la guerra e che magari portano con sé un’ottica ormai superata. C’è bisogno credo di forze nuove nella classe politica bosniaca. Anche in questo caso spero che il processo di integrazione europea possa creare una maggiore consapevolezza nella società civile, consapevolezza delle riforme di cui il Paese ha bisogno, e in questo modo alla fine favorire anche un ricambio nella classe politica.

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