Jergović, l’apolide

Incontro con Miljenko Jergović, in Italia per la presentazione del suo ultimo libro “Freelander”. Teoria e prassi di uno scrittore apolide, tra Sarajevo e Zagabria. La ricerca di risposte come strategia di sopravvivenza, il sentimento del passato

22/03/2010, Azra Nuhefendić -

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Twisted worlds, (Foto Jeff Kubina/Flickr)

L’eroe del suo nuovo libro è tormentato da un’idea: “Se avessi fatto diversamente, non sarebbe successo…”. C’è un riferimento autobiografico?

Sì. Penso che una cosa simile accada a ognuno di noi nei momenti in cui si fanno i conti con le decisioni importanti della nostra vita, ma anche nella semplice quotidianità. Per esempio se a uno capita di sfregiare la portiera dell’automobile, oppure di rompere il fanalino posteriore, pensa che tutto ciò non sarebbe accaduto se fosse rimasto a casa o andato al lavoro in tram. Gli uomini sono avvezzi a pensare in questo modo. Addirittura si potrebbe sostenere che ogni ritorno al passato, o anche solo un ricordo, non sia altro che un triste pensiero su come ogni cosa sarebbe andata diversamente, se solo avessimo fatto esattamente l’opposto di quello che abbiamo fatto.

Dopo la guerra la lingua con la quale abbiamo cominciato a parlare, con la quale siamo cresciuti, è stata divisa. A seguito della pubblicazione del suo ultimo libro, un critico di Zagabria ha sostenuto che doveva essere corredato da un vocabolario di parole turche… Lei in che lingua scrive?

Scrivo nella mia lingua, e non sono troppo attento alle questioni politiche. Serbi, croati, bosniaci, montenegrini, più qualcun altro che vive nei loro Stati, parlano la stessa lingua, con minime differenze tra uno Stato e l’altro. Sono parzialmente differenti le norme di ortografia e gli standard, un po’ differente è anche il lessico, ma sta di fatto che ogni croato capisce perfettamente la lingua di ogni serbo, bosniaco o montenegrino… Da un punto di vista politico sarebbe stato importante permettere a ogni popolo di dare alla propria lingua il suo nome, o quello che per essa aveva scelto, considerandola a pieno titolo un prodotto autentico nonché la fonte della sua cultura. Tutta la storia sulla lingua o sulle lingue, create da un qualcosa che un tempo si chiamava serbocroato o croatoserbo (srpskohrvatski o hrvatskosrpski), e che confonde molta gente, in particolar modo gli stranieri, finisce qui. È un dato di fatto che l’odierna situazione linguistica nei territori della ex Jugoslavia non si distingue molto da quella che vi era una ventina d’anni fa. Ognuno continua a capire perfettamente l’altro. Oppure non lo capisce, se proprio non lo vuole capire.

Per quanto riguarda i turchismi presenti nella mia lingua, e nelle lingue delle quali ho appena parlato, essi non devono essere automaticamente chiari a tutti, benché tutti i turchismi siano a loro volta parte integrante della nostra esperienza comune e del comune patrimonio lessicale. Chi non capisce può consultare il Rječnik turcizama u srpskohrvatskome jeziku (“Il vocabolario dei turchismi nella lingua serbocroata”) di Abdulah Škaljić, edizione Svjetlost Sarajevo, che può trovare in ogni biblioteca un po’ fornita. Io però non allegherò mai alla fine di un mio libro un vocabolario dei turchismi, perché così agevolerei la pigrizia mentale di un potenziale lettore. Inoltre, così facendo, confesserei a me stesso che quelle parole non fanno parte della mia lingua. E questo, semplicemente, non corrisponde al vero.

Lei è molto noto in Italia, e la sua scrittura molto apprezzata. La paragonano ad Andrić, Selimović, Kiš. È contento di se stesso come autore?

Non ho una risposta pronta a questa domanda. Sono sempre più contento degli scrittori che leggo. Per quanto riguarda i paragoni, la gente ti paragona spesso ad un altro che ha letto e che conosce come scrittore. In Italia sono noti Andrić, Selimović e Kiš, e io, naturalmente, sono molto contento di simili paragoni, mi lusingano.

Lei è un sarajevese che vive a Zagabria. Si sente mai come si sente l’eroe del suo ultimo libro, ovvero “l’uomo più solo del mondo”?

Vivo a Zagabria in una situazione molto interessante dal punto di vista sociale ed emotivo. Sono andato via da Sarajevo molto tempo fa, 17 anni or sono quando, per molti aspetti, Sarajevo era un’altra città. Oggi, quando vi ritorno, non mi pare più di tornare nella mia città, di essere tornato a casa. A Zagabria, invece, non mi sento affatto come se fossi a casa mia, perché qui non sono nato, qui non mi sono formato e, tra l’altro, sono molto spesso esposto a feroci attacchi di stampo sciovinistico nelle campagne della stampa o della televisione e contestato dai vertici politici (fatto molto interessante visto che non sono un uomo politico, né nutro la benché minima aspirazione di occuparmi mai di politica). In queste contestazioni viene espresso ad alta voce l’imperativo categorico che, per il bene dell’ambiente zagrebese e di quello croato, io torni là da dove sono venuto, sicché la città nella quale vivo per me è l’estero più lontano del mondo.

Dunque, non mi appartiene la città dove sono nato e non è mia la città nella quale vivo. Immagino che un sentimento del genere sia condiviso da molti, che non sia io il solo ad avvertirlo. A prescindere dal fatto che io abbia la doppia cittadinanza, croata e bosniaca, e numerosi lettori in tutti e due gli Stati, oggi sono un apolide. Forse anche perché non ho voluto fare una scelta, perché non ho voluto rinunciare a una città per conquistare i cuori dell’altra. Nei Balcani invece questo è un imperativo. Io però non sono uno che rinuncia facilmente.

Il nuovo film che ha girato (Viaggio di 3.000 km con la Yugo rossa) è, se ho capito bene, la ricerca della risposta alla domanda: “Cosa ci è successo?”. Io stessa provengo dalla Bosnia Erzegovina e so che la stessa domanda tormenta molti dei miei amici, colleghi, parenti, concittadini, bosniaci sparsi per il mondo. La rivolgo a lei. Cosa ci è successo?

È una domanda per la quale ognuno ha una risposta, salvo poi non accontentarsi mai della risposta stessa. Una risposta definitiva probabilmente non esiste nemmeno, ma lo scopo sociale delle nostre vite sarà di cercarla, questa risposta, fino alla fine. Soltanto in questo modo è possibile sopravvivere decentemente.

A chi si rivolge mentre scrive? Cerca di risolvere dilemmi che sono dentro di sé, oppure si rivolge ai lettori per informarli, istruirli, divertirli?

Penso di non rivolgermi a qualcuno in particolare. Racconto semplicemente la mia storia, perché la considero importante. Lo faccio spronato dallo stesso motivo per cui leggo le storie narrate da altri. Credo che questa sia una delle elementari caratteristiche umane: narrare una storia, ascoltarla o leggere quella narrata da un altro. Senza questo non si potrebbe andare avanti. Senza storie narrate probabilmente ci saremmo trasformati in bestie feroci e crudeli, che neppure in natura esistono. Una storia narrata fa sì che la gente non diventi selvaggia, in essa risiede il fondamento d’ogni morale, e con ciò pure il motivo per essere talvolta buono e gentile.

Lei non è soltanto scrittore ma anche giornalista. Pubblica a Zagabria, a Belgrado, a Sarajevo. Alcuni dei suoi colleghi rifiutano, dopo la guerra, di andare a Belgrado e in Serbia, considerandole “la fonte del male”. Lei è stato invece ospite alla Fiera belgradese del libro. Non ha problemi ad andare da coloro che aveva criticato, accusato?

Penso di non andare ospite da quelli che hanno fatto la guerra, che hanno tenuto Sarajevo sotto assedio o che hanno distrutto Vukovar e ucciso Srebrenica. Vado da altra gente, tra l’altro vado anche a trovare i miei amici. Si deve anche accettare il fatto che bisogna dimenticare molte cose. Per me non è un grande problema, visto che non ho mai avuto l’illusione di far parte della comunità dei giusti. Se accusassi i serbi per la guerra degli anni Novanta, e per questo motivo oggi non andassi più a Belgrado, mi scontrerei con un notevole problema interno nello spiegarmi, per esempio, il fatto che oggi vivo a Zagabria, nella città che durante la Seconda guerra mondiale ha perpetrato un genocidio sostanziale sui serbi e sugli ebrei, oppure che vivo nella città in cui all’inizio degli anni Novanta uccidevano bimbe dodicenni soltanto perché erano serbe. Penso alla ragazzina Aleksandra Zec e alla sua famiglia. I loro assassini, poliziotti e militari croati, sono stati identificati ma mai condannati. Alcuni di loro sono stati, più tardi, anche insigniti con medaglie. Com’è che si vive in una tale città? Com’è che si parte per Belgrado, città dalla quale sono stati inviati i carri armati per attaccare Vukovar e gli assassini per Srebrenica? Alcune di queste amare quanto inevitabili domande le si potrebbero fare anche in rapporto con Sarajevo. Naturalmente non tutte le città sono uguali, né le colpe e le responsabilità sono uguali, ma non appena un uomo tenta d’identificarsi con la comunità dei giusti o delle vittime, se è intelligente capirà da solo che sbaglia e che proprio una simile identificazione rappresenta la strada verso l’apologia del crimine. Vado a Belgrado perché amo quella città, ma ancor di più perché nutro l’illusione che così, passo dopo passo, sto vincendo coloro che hanno perpetrato crimini in nome di quella città e di quel popolo. Penso che sia molto importante avere simili illusioni. Senza di esse, nei Balcani si vivrebbe come in una tomba.

Lei è stato molto contestato, criticato, offeso. Rinnegato sia dalla Bosnia Erzegovina che dalla Croazia. Ora però entrambi i Paesi sempre più la rivendicano come proprio. Lei di chi è scrittore?

Mettiamola in questo modo: sono scrittore di tutti coloro che mi leggono in base all’esperienza della propria madrelingua. Oppure di tutti coloro che mi considereranno un loro scrittore. Ma in senso formale, enciclopedico, io sono uno scrittore croato e bosniaco-erzegovese. E per giunta sono ancor felice di questa duplicità.

È cominciato il processo a Radovan Karadžić. Come vorrebbe che terminasse? Cosa sarebbe giusto aspettarsi o cosa si aspetta lei da quel processo?

Per lungo tempo durante la guerra, ma anche dopo, mi coricavo con l’idea di cosa avrei fatto a Radovan Karadžić nel caso che lo avessi incontrato. Nei Paesi un po’ più felici la gente conta le pecore prima di addormentarsi o, semplicemente, prende una pasticca. Una volta che ho smesso di addormentarmi col pensiero di Radovan Karadžić, soltanto allora per me la guerra è finita. Penso che sia stato intorno ai primi anni del Duemila. Non le dirò cosa mi passava per la mente perché non pensi che io sia un orribile sadico, ma le dirò che mai, proprio mai, trovavo conforto nel fatto di consegnare Radovan Karadžić al Tribunale. A quello di Norimberga del 1945 sì, certamente, ma a quello dell’Aja proprio no. Questo Tribunale semplicemente non funziona, lì non c’è giustizia per la Bosnia e per i bosniaci, in quel luogo non sono convinti che la giustizia per Srebrenica o per Prijedor, davanti al Signore e davanti agli uomini, sia uguale alla giustizia per ogni altro uomo di questo nostro mondo, sia lui di Washington o di Londra. Loro non credono che un musulmano morto valga tanto quanto un olandese morto. Vorrebbero terminare il proprio lavoro facendo tutti contenti, e non deve essere così. Emettono sentenze in modo da evitare qualsiasi tipo di catarsi morale, qualsiasi purificazione in Bosnia, in Croazia, oppure in qualsivoglia altra parte del mondo. Tra l’altro, nel Paese e nella città in cui sale al potere un certo Geert Wilders, fascista della nuova ora le cui convinzioni non sono poi molto diverse da quelle di Radovan Karadžić, risulta di cattivo gusto giudicare i crimini di Srebrenica.

Un tempo lei e Karadžić eravate colleghi, tutti e due membri dell’Associazione degli scrittori della Bosnia Erzegovina. Ha scritto di lui nel testo “Il dottore delle anime”, in cui sostiene che gli uomini non vanno divisi in buoni e cattivi. In fin dei conti, da che cosa dipende se un uomo sarà buono o cattivo? Dobbiamo temere noi stessi?

Non è male temere un po’ noi stessi e le potenzialità del proprio male. Sta di fatto che Karadžić, oggi, sarebbe un cittadino rispettabile, un valoroso psichiatra e un appartenente al mainstream sociale – nel senso più controverso di questo termine – se solo le cose non fossero andate così come sono andate, se solo non gli fosse stato permesso di diventare un personaggio storico, una guida del popolo e uno dei criminali più schifosi e repellenti dopo la Seconda guerra mondiale. Tra l’altro, prima che a Sarajevo avessero fondato il Partito nazionale serbo, Karadžić, probabilmente ancor prima di capire che sarebbe potuta scoppiare la guerra, era stato il fondatore del partito dei Verdi della Bosnia Erzegovina. Dunque, prima di decidere di “proteggere” il suo popolo dai musulmani e dai cattolici, vale a dire dai bošnjaci (o bosgnacchi) e dai croati, lui aveva deciso di “proteggerci” dal riscaldamento globale.

Lei è di Sarajevo, in quella città ha vissuto durante la guerra, sebbene non fino alla fine. Cosa pensa delle frequenti critiche secondo cui Sarajevo non è più quella di una volta?

Sarajevo ha rinunciato in ogni senso alla propria fisionomia di città multiculturale e multietnica. È un dato triste, ma reale. Sul fatto che non sia più “quello che è stata un tempo”, bisogna dire che nulla è così come è stato un tempo, così come neppure noi siamo quelli che eravamo. Questo fa parte di quel solito rammarico noioso con il quale si rimpiangono i buoni vecchi tempi. La storia della perdita dello spirito plurinazionale e del carattere della capitale della Bosnia Erzegovina è di gran lunga più seria.

Praticamente in tutti i suoi libri si parla della Bosnia (addirittura in Buick Riviera, benché l’azione si svolga negli Stati Uniti). Oggi siamo testimoni di affermazioni secondo le quali la Bosnia sparirà. La Bosnia ha un qualche futuro?

Il politico serbo e jugoslavo, presidente del governo dell’allora Regno di Jugoslavia, Nikola Pašić, ebbe a dire in un’occasione: “Non c’è salvezza, ma non andremo in rovina!”. In questa frase paradossale, credo, sia contenuto pure il futuro della Bosnia Erzegovina. Sarà molto difficile che quel Paese sparisca più di quello che è già sparito. Ma sono convinto che esso sia indistruttibile come fatto geografico e geopolitico. E poi, si tratta di un Paese che alcuni di noi amano anche quando ci sembra che non esista più.

(Traduzione di Ljiljana Avirović)

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