Il treno
La riapertura della linea ferroviaria tra Belgrado e Sarajevo, interrotta all’inizio della guerra. Dopo 18 anni, una locomotiva ha trainato tre vagoni: uno delle ferrovie della Republika Srpska, uno della Federazione di Bosnia Erzegovina e il terzo della Serbia. Sul convoglio c’erano 15 passeggeri
Mi ritenevo una persona adulta, una donna emancipata. Eppure, come l’ultima deficiente, portavo i miei vestiti sporchi una volta al mese a Sarajevo, perché la mia mammina me li lavasse. Da maggio all’inizio d’ottobre viaggiavo con l’aereo, poi con il treno perché la nebbia o la neve in Bosnia rendevano incerto il viaggio aereo.
All’epoca tra Sarajevo e Belgrado circolavano tre treni al giorno, più uno notturno. Mi ero imbarcata, come al solito, su quello notturno, che partiva da Belgrado intorno a mezzanotte. Quella volta, a parte il solito bagaglio sporco, portavo una grande valigia piena di libri in russo che mia sorella mandava da Mosca a Sarajevo per metterli al sicuro.
Ben chiusa a chiave nello scompartimento mi addormentavo cullata dal vagone letto. Il viaggio durava circa sette ore e la mattina presto si arrivava a Sarajevo. Quella volta, però, mi ero svegliata con la sensazione che fosse troppo presto per essere arrivati alla meta. Dall’esterno s’udivano voci diverse da quelle pronunciate dai conducenti e dai conduttori dei treni notturni che, solitamente, parlano a voce bassa per rispetto dei passeggeri. Ho sbirciato da dietro la tendina del finestrino: eravamo fermi in mezzo alla campagna. Dopo ho saputo che eravamo vicino a Vinkovci, un nodo ferroviario a circa due ore da Belgrado, sul territorio dell’allora repubblica jugoslava della Croazia. Fuori c’erano tanti uomini armati. Malgrado indossassero delle uniformi, non sembravano militari regolari. Disordinati, con le camice sbottonate, camminavano ciondolando come ubriachi trascinandosi dietro le loro cinture, alcuni stavano seduti per terra. Attorno al binario c’erano tantissime bottiglie di birra vuote. Gridavano e imprecavano. Mi assicurai che la porta del mio scompartimento fosse ben chiusa e aspettai. Gli uomini erano gli ZENG, ovvero paramilitari croati, unità formate dalle autorità croate.
Bussando alla porta, qualcuno con voce rabbiosa mi chiese di aprire. Puuuf, una ventata di alcool mi assalì. Quello mi chiese di fargli vedere la carta di identità. "Hmmm", bisbiglia e domanda dove sia mio marito. "Non ho marito", rispondo. "Ha ha ha", ride e commenta: "Non mi dire che alla tua età non sei ancora sposata!" Poi domanda cosa trasporto nella valigia grande. "Libri", rispondo. "Apri, vediamo", ordina. Quello prende un libro, lo gira, lo apre e lo guarda capovolto. Non sa leggere il cirillico. "Pfui, leggi serbo!", mi dice con una smorfia sul viso che dovrebbe mostrare la sua ripugnanza. "È russo", rispondo con disprezzo. "È la stessa m…", dice quello, butta il libro sul letto e se ne va.
Dopo un po’ il treno riparte, passa il ponte sul fiume Sava ed entra in Bosnia. A Doboj, ci svegliano di nuovo. Questa volta le voci sono dei ferrovieri, i quali, gentili e preoccupati, ci chiedono di prendere i nostri bagagli e di lasciare il treno. La ferrovia è interrotta.
Nella notte buia, sotto le luci fioche di una piccola stazione nella provincia più profonda, la gente trascinava valige e borsoni lungo i binari, le madri portavano i bambini semi addormentati, qualcuno aiutava un vecchio o una donna. Tutto accadeva senza parole, neanche i bambini piangevano, si udiva solo il rumore dei passi e dei bagagli trascinati. Nessuno protestava per quello che ci stavano facendo. Il silenzio era la parola chiave. Zitti accettavamo quello che ci ordinavano, ci spostavamo senza opporci, aprivamo loro le nostre porte senza ribellarci, ascoltavamo quando loro mentivano. Noi, la gente comune, eravamo più numerosi, eppure ubbidivamo a quelli che ci toglievano, uno dopo l’altro, tutti i nostri diritti. Quello che ci facevano non aveva niente a che fare né con l’etnia né con la religione. Semplicemente stracciavano i nostri diritti umani e civili.
Un breve tratto di strada lo percorremmo con gli autobus, poi ci fecero salire su di un treno, un convoglio che era giunto con altri passeggeri da Sarajevo, e che si era fermato dall’altra parte della ferrovia interrotta.
Per il resto del viaggio non si chiuse occhio. Zitti e preoccupati fissammo i nostri sguardi fuori dai finestrini. Nel buio di una notte umida e nebbiosa, una notte bosniaca, cercavamo una spiegazione ragionevole per quello che ci stava accadendo.
La linea ferroviaria era stata interrotta, e per diciotto lunghi anni i treni non circolarono più tra Belgrado e Sarajevo. Dopo s’interruppero altre ferrovie, altre strade, cessarono collegamenti, i rapporti si estinsero. Ci costringevano a stare in territori sempre più piccoli, dentro confini sempre più stretti, a non muoverci, a interrompere i contatti non solo fisici ma anche mentali, finché la rottura non fu completa, fino a che l’isolamento non si trasformò in assedio.
La ferrovia aveva rappresentato l’immagine dello sviluppo nella Jugoslavia socialista più di qualsiasi altra cosa. Le tappe più importanti della vita di questo Paese si possono ripercorrere tramite la costruzione delle sue tratte ferroviarie. La prima vittoria dell’uomo nuovo socialista (così ufficialmente si definivano le nuove conquiste della società) fu la costruzione di ferrovia Brčko-Banovići. Quella leggendaria ferrovia fu costruita nel 1947 in soli sei mesi di lavoro e contava 220 chilometri, una tempistica che, ancora oggi, è un record mondiale. Ci lavorarono le brigate dei giovani volontari da tutta la Jugoslavia e molti anche dall’estero. Si decise di fare quel tratto perché nell’immediato dopoguerra c’era bisogno di trasportare il carbone dalle miniere di Banovići verso le grande città e i centri industriali.
A quell’epoca il treno rappresentava l’unico mezzo per i grandi trasferimenti della popolazione. Dalle regioni povere come la Lika, in Croazia, e l’Erzegovina, le autorità jugoslave traslocarono interi villaggi in Vojvodina, in quella pianura vasta e fertile. I coloni, così chiamavano quelli che arrivavano in Vojvodina, entravano nelle case vuote dei cosiddetti folksdojčer, la minoranza tedesca che ci viveva prima. Dopo la Seconda guerra mondiale, i folksdojčer furono accusati di collaborazionismo con i nazisti, e circa trecentomila di loro dovettero lasciare la Jugoslavia. Su quell’evento fu fatto un film, "Vlak bez voznog reda" (Il treno senza orario), un’opera epica che ci istruiva sulla storia eroica del popolo jugoslavo.
Successivamente ci spostavamo con i treni per ragioni ben diverse, non per andare "trbuhom za kruhom", cioè alla ricerca di lavoro e pane, ma per imparare. La Jugoslavia era una nazione giovane e l’educazione era un vincolo categorico. Ogni giorno i treni portavano migliaia di giovani verso i centri universitari. Anche quello venne immortalato. Il poeta serbo Vlado Divjak scrisse una bellissima poesia su una piccola stazione ferroviaria nella Bosnia centrale, Podlugovi. Narra di una ragazza con i capelli biondi, che portava il berretto sulla testa e che ogni tanto lo toglieva per ripulirlo dalla neve. Tutto succedeva tra i treni che ci portavano o ci strappavano l’amore. Quei versi vennero musicati e la canzone "Podlugovi", che canta Zdravko Čolić, ancora oggi ci fa nostalgia e, se nel mezzo c’è pure un bicchiere di vino, capitano anche le lacrime.
Un’altra canzone è "Selma" del mitico gruppo rock "Bijelo Dugme" ("Bottone bianco"). Nei suoi versi ci sono le parole "treno", "valigia", "finestrino", e neanche una volta si menziona la parola "amore". Eppure la considero tra le canzoni più sentimentali in assoluto. Selma se ne va e lui, nel momento dell’addio, invece di dirle tutte quello che desiderava sull’amore, riesce a pronunciare un’unica frase banale: "Selma, non sporgerti dal finestrino". È veramente da tagliarsi le vene, come definivamo le canzoni struggenti.
Arsen Dedić, il popolare cantautore zagrebese, cantava "Brzim preko Bosne" ("Con il rapido attraverso la Bosnia"). Erano gli anni settanta e ottanta quando, felici e spensierati, ci attaccavamo ai treni che a tutta forza ci portavano verso Sud, al mare. In quei convogli, a prescindere da quanto fossero lunghi, non ci stavamo mai tutti. Nei mesi di luglio e agosto assomigliavano ai treni indiani, pieni di gente dentro e fuori. Le nostre vacanze cominciavano già con l’incarrozzamento. Come nei film, pieni di luoghi comuni, c’era sempre la chitarra, la bottiglia di vino, e si cantava seduti per terra nei corridoi.
La ferrovia tra Sarajevo e Belgrado era una delle tre linee principali: da Belgrado verso Zagabria, Lubiana e poi l’Europa. L’altra da Belgrado a Sud, verso Skopje e la Grecia, oppure via Sofia verso Istanbul e il Medio Oriente.
Una volta usavamo il treno anche per esportare il nostro "avere", e per scambiarlo per l’"apparire". Tre o quattro treni arrivavano ogni giorno a Trieste dalla Jugoslavia, insieme con centinaia di autobus pieni di gente che non vedeva l’ora di spendere i propri risparmi per comperare vestiti.
Con l’amico Toni ho viaggiato in treno una notte d’aprile per comprare a Trieste solo un paio di stivali. Con gli altri passeggeri abbiamo chiacchierato e condiviso i nostri panini e le bibite. Glieli offrivamo con tanto di "prego… un assaggino… si… grazie… è buono… chi l’ha fatto… la prego, ancora un boccone". Ma dopo un paio di ore quelli avevano tirato fuori le loro cibarie. Mangiavano senza offrirci nulla. Toni e io facevamo finta di niente, fissavamo nel buio fuori dal finestrino vergognandoci per la scorrettezza di quegli sconosciuti.
Negli altri Paesi il defunto si sposta su una limousine oppure su carri cerimoniali trainati da cavalli. Invece da noi, quando morì il presidente Tito, l’ultimo viaggio l’ha fatto con il suo treno blu, così si chiamava ufficialmente il convoglio con il quale si spostava per il Paese. Le sue spoglie furono trasportate da Lubiana a Belgrado in treno, un viaggio lungo circa settecento chilometri. Quello che ricordo dalle immagini trasmesse in televisione non è tanto la gente che si radunava lungo i binari per salutare, per l’ultima volta, l’amato presidente, ma l’imponente locomotiva che trascinava il treno senza fermarsi. Rallentava un po’ dove c’era gente e rilasciava un fischio forte e risoluto, come a voler sottolineare che la morte è una cosa certa e inevitabile e che il destino non si può né mutare, né fermare.
Dopo diciotto anni, l’altro giorno è partito un treno da Belgrado a Sarajevo. C’era poca gente, il convoglio era corto, tre vagoni trascurati, sembrava un treno locale che si trascina più per inerzia che per effettivo bisogno. Dentro rari passeggeri, principalmente anziani, senza quella tipica febbre dei viaggiatori. Nei loro sguardi non c’era eccitazione ma preoccupazione. Sui loro volti ho riconosciuto l’espressione che mi ricordava quella notte nella quale la ferrovia fu interrotta. Noi non sappiamo ancora dove siamo diretti, né quali saranno le fermate.