Il filo della pace

Il blocco di Gaza e l’assedio di Sarajevo. L’attacco dei soldati israeliani all’imbarcazione turca Mavi Marmara e i ricordi di un partecipante alla "marcia dei 500" pacifisti che, nel 1992, forzarono il blocco stretto intorno alla capitale bosniaca. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

10/06/2010, Agostino Zanotti -

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Peace flag (Iguana Jo - Flickr)

Il 29 maggio 1993 un convoglio di aiuti umanitari, organizzato dal Coordinamento Iniziative di Solidarietà di Brescia, partì dall’Italia diretto alle città di Vitez e Zavidovići. Era accompagnato da 5 volontari: Sergio Lana, Guido Puletti, Fabio Moreni, Agostino Zanotti e Christian Penocchio. Il convoglio venne assalito da una banda militare sulla "strada dei Diamanti", tra Bugojno e Gornji Vakuf, in Bosnia centrale. Guido, Fabio e Sergio vennero uccisi mentre Agostino e Christian riuscirono a salvarsi scappando nei boschi. Dopo un lungo e faticoso lavoro di ricerca di giustizia, il capo del gruppo che aveva perpetrato quegli omicidi fu trovato e processato in Bosnia Erzegovina. Agostino Zanotti, che aveva partecipato anche alla "marcia dei 500", ha proseguito con il suo impegno di pacifista negli anni successivi. Ci ha scritto dopo aver visto le immagini dell’assalto alla nave turca Mavi Marmara

E’ lunedì mattina, 31 maggio, mi sveglio, non trovo nulla di familiare intorno a me: il letto, le pareti della stanza, i rumori che provengono un po’ ovunque. Non riesco a decifrare nulla. Mi guardo intorno, ho dormito su una branda da campo, vicino a me c’è Christian, siamo in un magazzino della base UNPROFOR di Gornji Vakuf, in Bosnia Erzegovina.

Mi sposto per la base in cerca di una colazione, solo soldati intorno a noi; dentro puoi trovare qualsiasi qualità di cibo, sigarette e un duty free ben fornito, fuori solo la guerra. Fuori ci sono Guido, Fabio e Sergio, i nostri amici, uccisi a sangue freddo vicino a Gornji Vakuf sabato pomeriggio, mentre stavamo portando aiuti umanitari nell’inferno della guerra bosniaca. E’ il 1993.

Ho chiuso gli occhi per un attimo, mentre ero davanti al monitor e leggevo le notizie dell’assalto dei soldati israeliani che hanno aperto il fuoco sui pacifisti a bordo dell’imbarcazione turca Mavi Marmara. Un attimo per agganciare il ricordo dell’eccidio del 29 maggio. Dieci, forse quindici le vittime civili (alla fine saranno nove gli attivisti uccisi, 45 i feriti), un bilancio di sangue tremendo per questa flotta umanitaria diretta a Gaza.

Nel dicembre del 1992 in centinaia abbiamo forzato il blocco umanitario su Sarajevo. Con la “Marcia dei 500” pacifisti, tutti noi abbiamo “sfidato” la guerra. Per dare il segno ai cittadini della capitale bosniaca sotto assedio che non erano soli, che altre persone di altri paesi erano con loro, contro l’indifferenza delle diplomazie internazionali e contro il nazionalismo serbo che li stava bombardando.

Per giudicare i crimini commessi durante quella sanguinosa guerra è stato istituito nel 1993 dalle Nazioni Unite un Tribunale internazionale ad hoc con sede all’Aja in Olanda, si occuperà poi di perseguire anche crimini perpetrati in Croazia Kosovo e in Macedonia. Per giudicare e condannare il responsabile dell’eccidio di Gornji Vakuf, abbiamo dedicato sette anni smuovendo le corti nazionali e internazionali, è il tempo della giustizia e non della vendetta. In questi anni ho capito quanto è importante per le vittime, per i loro familiari, che il criminale non rimanga impunito. Quello che un tempo mi sembrava solo uno slogan, rappresenta per me uno dei fondamenti dell’umanità: Non c’è pace senza giustizia.

I nove pacifisti uccisi durante l’attacco in acque internazionali non sono morti eccellenti, non sono diversi dalle migliaia di civili uccisi a Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Non sono diversi dalle decine di civili che si oppongono alla costruzione del muro e muoiono sotto la pioggia dei lacrimogeni delle truppe israeliane, non sono diversi da tutte le vittime di questo sanguinoso conflitto israelo-palestinese. L’impunità di cui gode Israele non fa che accrescere il dolore e la rabbia e può trasformare il desiderio di giustizia in sete di vendetta. La complicità e l’accondiscendenza che sostengono il governo di Tel Aviv in ambito internazionale rendono gli Stati responsabili di ogni crimine commesso in quella terra.

L’ultima parola che Fabio disse prima che a parlare fossero i colpi secchi e mortali dei Kalashnikov fu: "Perché?" Perché uccidere, perché la guerra, perché l’ingiustizia, perché non c’è rispetto per le vittime?

Riprendo le parole di Primo Levi : "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo… Meditate che questo è stato”. Ed è ancora, aggiungo io.

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