“Gli anziani vennero decimati”: l’atrocità mai punita in un villaggio bosniaco
BIRN ha dedicato una serie di approfondimenti alle vittime dimenticate del conflitto in Bosnia Erzegovina, tra queste le vittime civili nel villaggio di Šušanj, vicino a Zenica, uccise nel 1993
(Pubblicato originariamente da Balkan Insight )
Quando cominciarono le sparatorie l’8 giungo del 1993, solo una manciata di abitanti rimase nel villaggio a maggioranza croata di Šušanj, vicino a Zenica, in Bosnia centrale.
"Eravamo troppo pochi, non potevamo nemmeno difenderci", ricorda uno di loro, Stjepan Hrgić, che all’epoca aveva 50 anni.
"Ci attaccavano in troppi, erano centinaia. Donne e bambini avevano abbandonato il villaggio, ed erano rimasti solo gli anziani che non potevano o non volevano andarsene. Ne hanno uccisi otto vicino a quella casa laggiù", dice Hrgić, indicando il punto esatto.
Almeno nove civili di età compresa fra i 60 e gli 85 anni furono uccisi quel giorno a Šušanj, quando il villaggio della Bosnia centrale si ritrovò coinvolto nello scontro fra l’Armija e l’Hvo croato.
Secondo una testimonianza presentata a processo al Tribunale dell’Aia, non ci fu nessuno scontro armato a Šušanj, l’8 giugno 1993. Gli ex ufficiali dell’esercito bosniaco negano persino di aver combattuto a Šušanj. Ma i tribunali locali hanno confermato che ci furono almeno nove morti civili quel giorno e i parenti delle vittime, dopo 30 anni, aspettano ancora che i responsabili siano consegnati alla giustizia.
Era giunta voce che Šušanj ed i villaggi vicini a maggioranza croata, nelle aree di Vitez e Travnik, sarebbero stati attaccati dall’esercito bosniaco i primi di giugno del 1993. Ma molti abitanti, soprattutto i vecchi, non avevano preso seriamente quell’avvertimento.
L’impatto della violenza perpetrato in guerra si vede ancora oggi. Pochi sono quelli che hanno fatto ritorno a Šušanj dopo essere fuggiti durante il conflitto e ad oggi il villaggio, che prima della guerra contava 430 abitanti, conta solo una ventina di persone fra i 60 ed i 90 anni di età.
Anto Vidošević è stato il primo a tornare a Šušanj dopo la guerra. Nel 1999 fece ritorno alla casa da cui il suo anziano padre di 83 anni era stato portato via l’8 giugno 1993 e poi ucciso nel vicino villaggio di Ovnak. Quel giorno perse anche suo figlio Željko. "Aveva 23 anni. Non è morto combattendo al fronte, ma mentre cercava di scappare dal villaggio", racconta Anto.
Anche Ivo Marković, un frate professore alla Scuola Francescana di Teologia a Sarajevo, premiato per il suo lavoro per la pace prima e dopo la guerra dal "Centro Tanenbaum per la Comprensione Interreligiosa " di New York, ha perso un familiare quel giorno a Šušanj: suo padre, ucciso a 74 anni. "Quattro di loro vennero portati al fronte e fucilati. Uno aveva 85 anni. È stata una decimazione di soli anziani", dice Marković.
"Uccidevano tutti gli uomini che incontravano. Ammazzarono un giovane sotto gli occhi di sua madre, che cercava di nasconderlo. Questa è stata la cosa che mi ha ferito di più perché io sono al servizio della pace, lavoro per la riconciliazione", aggiunge. Il frate ha sottolineato poi che "la condizione fondamentale per una riconciliazione soddisfacente è la giustizia".
Ciò nonostante, nessuno è mai stato processato per i crimini di guerra commessi a Šušanj. L’unica persona condannata è stato un membro della Settima Brigata Musulmana dell’Armija BiH, Ragib Rizvić detto Raif , per aver ucciso un abitante del villaggio, Kazimir Marković.
La sentenza però è di omicidio, non di crimini di guerra. Nel 2003 il tribunale Cantonale di Zenica ha condannato Rizvić a nove anni di carcere.
"Non potevo lasciare che uccidessero i miei vicini"
I sopravvissuti di Šušanj raccontano che oltre ai civili massacrati quel giorno del 1993, furono uccisi anche due prigionieri di guerra dell’Hvo.
Uno di loro, Jordan Vidošević, aveva appena 20 anni. Secondo le testimonianze si era consegnato senza opporre resistenza quando i soldati l’avevano trovato, disarmato, nel sottoscala di una delle abitazioni del villaggio. Un testimone identificato solo con le iniziali A.M ha riferito agli investigatori che per primi hanno affrontato il caso di aver sentito uno sparo provenire dalla casa dove crede sia stato ucciso Vidošević.
"Sua madre era nella stanza con noi, gridava e diceva che quello era suo figlio. Cinque minuti dopo siamo stati costretti ad abbandonare la casa. Abbiamo visto del sangue sull’entrata, ma il corpo era già stato rimosso", ha riportato A.M.
Secondo le testimonianze, un altro combattente del HVO, Iljia Marković, che era stato ferito, venne trasportato da un seminterrato in un campo vicino e fucilato.
Alcuni degli abitanti di Šušanj credono che il numero delle vittime sarebbe stato maggiore se non fosse stato per il coraggioso intervento di un abitante del villaggio, Šaćir Muslić che – come le truppe coinvolte nell’attacco – era bosgnacco: i croati sopravvissuti vennero radunati in una casa e Muslić rimase fuori ed impedì all’esercito bosniaco di entrare.
La gente del posto racconta che Muslić avrebbe detto ai soldati che prima avrebbero dovuto uccidere lui, un loro confratello bosniaco.
Muslić ricorda però l’episodio con modestia: "Non sono un eroe, è solo che non potevo permettere che uccidessero i miei vicini senza motivo, che li torturassero".
"Erano senza cibo perciò, con il loro permesso, sono andato nelle loro case e ho portato loro il cibo che avevano, per prima cosa la farina. In quel momento era facile essere uccisi ed i nostri ragazzi [bosgnacchi] non mi vedevano di buon occhio, ma non avrei potuto fare altrimenti".
Le truppe dell’esercito bosniaco “non erano presenti”
Alcuni dei fatti accaduti a Šušanj vennero compresi negli atti per il rinvio a giudizio del Tribunale dell’Aja di Enver Hadžihasanović , ex comandante del terzo Corpo dell’Armija BiH e di Amir Kubura, comandante del settimo Corpo dell’Armija BiH durante l’attacco a Šušanj.
L’accusa però citava solo presunti reati di distruzione efferata non dettati da necessità belliche e di saccheggio delle abitazioni di Šušanj, non di omicidio di civili e prigionieri di guerra. La Corte dichiarò Kubura colpevole di non aver punito i responsabili del saccheggio di Šušanj, e Hadžihasanović di non aver punito i propri soldati per i saccheggi commessi in altri luoghi.
La sentenza di primo grado emessa dal Tribunale dell’Aja ha decretato che non vi era stato nessuno scontro a Šušanj e che i membri della Settima e della 306esima Brigata dell’Armija BiH non entrarono nel villaggio, come sostenuto dall’accusa.
Nonostante ciò, secondo il verdetto, uomini della polizia legati alla Settima Brigata si recarono nel villaggio dopo il combattimento e commisero dei furti.
Anche l’ex comandante di uno dei battaglioni della Settima Brigata, Šerif Patković, nega che le sue truppe siano state a Šušanj.
"Io mi sono trovato ad Ovnak. Šušanj ed Ovnak erano territori separati in termini di comunicazione militare. Erano posti diversi. I membri della Settima Brigata non erano a Šušanj. La Settima Brigata si muoveva attraverso Vučice e Crni Vrh. Quello era il nostro percorso. Šušanj non era sulla nostra strada e noi non ci trovavamo lì", ha dichiarato Patković a BIRN.
Pubblico ministero allontanato dalla scena del crimine
Sulejman Kapetanović, pubblico ministero di Zenica attivo durante la guerra, ha testimoniato al processo all’Aja a carico di Hadžihasanović e Kabura. "Verso la metà di giugno del 1993 sono venuto a sapere che 17 cadaveri, presumibilmente di civili, erano stati portati dai villaggi di Šušanj e Ovnak all’ospedale di Zenica, nel reparto di anatomia patologica. La gente ne parlava", ha dichiarato Kapetanović, che nel frattempo è deceduto, ai giudici della Corte dell’Aja. Ha detto che in seguito era stato organizzato un incontro con il capo della sicurezza del terzo Corpo dell’esercito bosniaco. "Diceva di sapere che erano stati uccisi dei civili, ma che era successo durante le operazioni militari. In seguito sono venuto a sapere che erano arrivati altri cadaveri", ha testimoniato Kapetanović.
Il giudice per le indagini preliminari del Distretto del Tribunale militare di Zenica, che ha presenziato all’identificazione degli uomini uccisi a Šušanj, era Vlado Adamović. Adamović, che ora è un avvocato, ha rivelato a BIRN di aver ricevuto in confidenza una soffiata riguardo all’uccisione di civili a Šušanj o nei pressi del villaggio, e che si era diretto verso il villaggio con un’equipe di investigatori ed una scorta armata. "Abbiamo trovato una barricata sulla strada di fronte al villaggio. Un soldato con le insegne della Settima Brigata dell’Armija BiH ci ha bloccato la strada e ci ha detto che non potevamo procedere. Io ho insistito a continuare perché sospettavo che fossero stati uccisi dei civili. Poi il soldato ha parlato con qualcuno e ci ha detto che era proibito, per la nostra sicurezza", ricorda.
Adamović ha detto di aver assicurato il soldato di non preoccuparsi per la sua sicurezza perché aveva abbastanza rinforzi armati con sé. "Ha insistito che non potevamo passare. Dato che i membri della mia scorta erano poliziotti, stavano cominciando ad agitarsi, lo volevano arrestare e passare con la forza, ma quando il soldato si è accorto della confusione ha imbracciato il fucile e si è preparato a sparare. Mi sono reso conto che qualcuno sarebbe potuto rimanere ucciso, perciò ho ordinato la ritirata", ha detto. Ha aggiunto che la Corte militare era stata nuovamente informata tramite canali non ufficiali che altri cadaveri probabilmente provenienti da Šušanj erano stati portati al reparto di anatomia patologica di Zenica. "All’ingresso del reparto c’erano due soldati di guardia", ricorda Adamović, aggiungendo che gli era stato inizialmente proibito di entrare ma che infine gli era stato permesso esaminare i cadaveri. La procura del Cantone di Zenica-Doboj dichiarò che era stata avviata un’indagine per approfondire gli omicidi, e che 55 persone erano state inizialmente sospettate per gli omicidi avvenuti a Šušanj. Il caso è stato poi trasferito alla Procura di stato nel 2006. Nonostante ciò, la Procura di stato non ha risposto alle domande poste da BIRN riguardo all’attuale stato delle cose.
Investigazioni inadeguate o insabbiamento?
Subito dopo l’accaduto, vennero interrogati dei testimoni sugli omicidi di Šušanj.
Una commissione d’indagine formata da leader della municipalità di Zenica, sacerdoti ed un avvocato raccolsero dichiarazioni di testimoni durante una visita ai villaggi del comune di Zenica, il 18 giugno 1993.
Un membro di quella commissione, Božo Marković, avvocato e fratello di Ivo Marković, ha riferito alla TV Federale che ritiene sarebbe possibile identificare gli ufficiali delle truppe responsabili degli omicidi "se solo vi fosse la volontà di andare fino in fondo". "Se [l’ufficio del comandante] era all’oscuro o non aveva ordinato quegli omicidi, perché non ha avviato un’indagine e punito i responsabili? Tutto è rimasto coperto da un velo di amarezza e tristezza, perché delle brave persone, dei vecchi innocenti che abitavano nel loro villaggio, sono stati massacrati in questo modo", dice Božo Marković.
Suo fratello, Ivo Marković, crede che i crimini di guerra di Šušanj siano stati insabbiati. Dice di aver consegnato dei documenti sul caso ad un team di investigatori che era convinto lavorassero per le Nazioni Unite e che gli avevano detto che avrebbero "condotto un’indagine approfondita".
Diversi mesi dopo, fu contattato da altri investigatori che dissero di essere delle Nazioni Unite, il che spinse Marković a credere che i primi ‘investigatori’ fossero stati inviati dall’intelligence bosniaca per ingannarlo. "Sono stati mandati qui per vedere che cosa sapevamo, per insabbiare il crimine. Io accuso lo stato della Bosnia Erzegovina e i suoi funzionari di aver condotto indagini su questo crimine sostanzialmente al solo scopo di insabbiarlo", ha dichiarato.
L’avvocato Vlado Adamović sostiene inoltre che l’accusa ha a disposizione "prove sufficienti" ma nonostante questo non ha fatto granché e quindi "è comprensibile che le famiglie credano che si stia insabbiando il caso invece di risolverlo".
Ivan Marković, che ha perso due fratelli a Šušanj, dice che sta perdendo fiducia sul fatto che i responsabili verranno mai consegnati alla giustizia – anche se nutre ancora delle speranze.
"Significherebbe molto per me. Sapremmo che dopotutto c’è una giustizia, anche se ne abbiamo totalmente perso la fiducia. Coloro che dovrebbero non stanno facendo il loro lavoro", dice Marković.
Anto Vidošević, il cui padre è stato ucciso, condivide le opinioni di Marković. "Abbiamo rilasciato delle dichiarazioni alla polizia, loro sanno tutto. Hanno prove e documenti ma non hanno mai catturato i colpevoli", dice Anto Vidošević. Suo fratello Mato Vidošević dice che non crede più che l’accusa stia lavorando per risolvere il caso. "Tempo fa ci chiedevano di tutto – dice – ora nessuno fa più domande".
Il progetto Vittime Dimenticate è sostenuto dal governo del Regno Unito ed è implementato dal Progetto delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, UNDP, come parte del suo progetto Crimini di Guerra Regionali.