Cartoline da Sarajevo

Impressioni dalla capitale a pochi giorni dal voto. Tra kermesse politiche, tassisti saggi e giovani pazzi. I politici del passato e quelli di oggi, i nuovi centri commerciali, i vecchi posti cult

30/09/2010, Azra Nuhefendić - Sarajevo

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Sarajevo (Foto M. Fontasch)

Le foglie dei tigli stanno ingiallendo. E’ ora di lasciare Sarajevo. Tra breve comincerà la stagione del brutto tempo. Il vento, una cosa rara da queste parti, solleva dalla terra una nuvola di foglie, spingendole verso un viale stretto. Da là arriva un rumore poco chiaro, che si trasforma in una voce debole, e avvicinandosi diventa sempre più articolata. E’ una macchina con l’altoparlante sul tetto, gira, e la voce registrata “invita tutti” a partecipare all’incontro pre-elettorale del Partito di Azione Democratica (SDA).

Mi riconosco tra i “tutti invitati” e, con la borsa della spesa in mano, mi mescolo alla gente che sta aspettando l’inizio dell’incontro. Guardo e ascolto. I nuovi politici assomigliano così tanto a quelli di una volta. Indossano tailleur eleganti, domina il nero e il blu scuro, ma basta guardare le loro scarpe per capire che l’accuratezza non l’hanno ancora conquistata. Sotto le giacche spuntano i pancioni. Una volta, quelli come questi, li chiamavano “janječe brigade”, cioè le brigate degli agnelli, perché ovunque andassero gli si preparava da mangiare un agnello allo spiedo.

Una donna vestita di pantaloni stretti, giacca pure (dà l’impressione di avere tutto in abbondanza) parla con un “attivista”. Dice che “bisogna lavorare con la base”, “incoraggiare le donne”, “farsi amabile per i giovani”. Tutto è uguale, manca solo lui, cantava un paio d’anni fa la cantante montenegrina Tijana Dapčević, riferendosi a Tito.

Una persona di mezza età, con l’aspetto urbano come si direbbe oggi, saluta in continuazione: “Buongiorno, generale”, “Come va generale?”, “Tutto bene generale?”, “La saluto, generale”.

“Lei li conosce tutti, sono tutti generali?”, gli chiedo. “Ma quali generali… A loro piace ricordare il passato, poveracci”, risponde, senza guardarmi. “Perché poveracci?”, chiedo. “Adesso scioperano per le pensioni miserabili”, risponde quello, e all’improvviso si insospettisce per una che non riconosce le facce di quelli che, una volta, erano considerati eroi.

Il candidato dell’SDA alla presidenza della Bosnia Erzegovina (BiH) è Bakir Izetbegović (il figlio dell’ex presidente bosniaco, Alija). Bakir è in ritardo. ”Giustamente, è un presidente”, lo difende un’altra attivista. Alla fine il giovane Izetbegović arriva, circondato dai collaboratori più stretti. A chi lo saluta, Bakir non risponde stringendo la mano, ma appoggiando la mano al cuore. Una giornalista TV gli fa una domanda a telecamera accesa. Bakir si ferma solo per dirle “che non può rispondere, perché non era preparato”, ed entra nella sala già piena di gente.

Il raduno inizia con gli inni. Prima, quello bosniaco. La musica monotona non ispira, ed è senza parole perché le diverse parti non sono mai riuscite a mettersi d’accordo. Dopo, si intona l’inno del partito SDA. I versi sono tutti sula Bosnia martire, l’eroismo e le promesse di combattere per salvarla. Cantano tutti, sui visi la commozione.

Un conoscente, che mi spiegava lo status degli ex eroi, si mette vicino a me. Parla ad alta voce e scherzando, o forse sul serio, dice a uno indicando me che “ci sono degli intrusi”. Continua scherzando, e capisco che vuole sapere il mio nome. Gli sparo un nome tipico serbo. “Non fa niente”, mi dice quello, e spiega che “nel nostro partito ci siamo diversi”. Invitano sul palcoscenico i candidati, a presentarsi. Gli applausi più forti li ricevono un serbo e un croato. “Non capisco niente”, dico al conoscente. “E’ perché sono i nostri”, mi spiega, intendendo che quelli sono i vicini, la gente da quella parte di Sarajevo.

Lo slogan del partito è “narod zna” (“il popola sa”). “Meno male che sappiamo”, mi dice un tassista. Di solito i tassisti sono i meglio informati su cosa, come, quando e dove succede qualcosa. “Meglio il diavolo nero piuttosto di quelli, che ci hanno derubati fino alle ossa”, mi dice. Finito il viaggio pago, sei marchi convertibili (circa 3 euro). “Posso offrire alle bambine un gelato?”, mi chiede il tassista, lodando le due nipotine che sono con me. Accettano, e il tassista gli dà la stessa somma che gli ho pagato io. “Potrei lavorare anche gratis, i soldi non mi servono, ma la gente direbbe che sono matto”, mi dice. In breve mi spiega che di recente è rimasto vedovo, che i figli sono in America e Australia, gli mandano i soldi, e che lavora solo per non essere solo.

Conoscevo un altro tassista matto, a Belgrado, un certo Cvjetko, che dopo la mezzanotte portava gli studenti gratis dal centro della città alla casa dello studente a Novi Beograd. Era conosciuto come “il tassista pazzo”.

A Sarajevo, a parte questi pazzi buoni, ce ne sono tanti che soffrono per davvero. Sul tram sale un giovane, e subito si mette ad attaccare, verbalmente, il conducente. Lo provoca e lo invita ad uscire per picchiarsi. Il conducente, uno robusto, non si fa irritare, e tranquillo cerca di calmarlo. Intervengo, verbalmente, per difendere il conducente. A quel punto gli altri passeggeri si girano ancora di più verso i finestrini, fissando una cosa imprecisa. La sera, guardando la TV, capisco meglio il loro atteggiamento: i medici avvertono che una persona ogni due, per le strade della città, soffre di Post Traumatic Stress Disorder (PTSD). Dicono anche che i malati di mente che sono stati curati rappresentano una minaccia, perché con loro è stato fatto un lavoro improvvisato. Non ci sono né mezzi, né soldi, né strutture per curarli come si deve. Quella notte, come al solito, mi sveglia il giovane vicino dell’appartamento di sopra: urla dalla terrazza, in bosniaco e in inglese, che lui, in persona, è Allah.

La vita pubblica di Sarajevo si anima: è finito il mese di digiuno, Ramadan. Accetto l’invito per il pranzo di Bajram, la festa con cui si celebra la fine del mese sacro. Mi presento a casa degli amici a mezzogiorno. Mi ricordo che, prima della guerra, non celebravano la festa religiosa. Va bene, ognuno ha diritto a cambiare, penso. Ci si scambiano i regali e gli auguri, si chiacchiera del più e del meno, noto che la figlia, sulla catenina intorno al collo, porta una croce. Dopo un po’ chiedo quand’è il pranzo. Non si sa, neanche all’incirca. Allora decido di fare una passeggiata, prima di pranzo. Si offendono. “Non devi vergognarti delle tue radici”, mi dicono con un tono di rimprovero. “Ma le mie radici sono quelle di un’atea”, dico, ed esco. Dopo due ore telefono, il pranzo non è ancora pronto. Mancando la tradizione, si inventa.

Ogni volta, a casa dei genitori, c’è qualcosa da aggiustare. Adesso bisogna cambiare lo scaldabagno. Mi suggeriscono uno che è competente. E’ di mezza età, gentile, fa un preventivo, e dopo due giorni viene a fare il lavoro. E molto preciso in quello che fa, ordinato, tranquillo. Mentre monta/fissa/incava, parla: prima della guerra faceva parte di un’unità militare di specialisti, addestrato nella famosa caserma di Niš in Serbia.

Mi ricordo che nel 1990, a Belgrado l’appartamento me lo pitturava un ispettore di polizia. Veniva nella mattina dall’ufficio, posava la Motorola sul tavolo, e dall’apparecchio arrivavano le voci, talvolta incomprensibili, talvolta chiare richieste di aiuto. A quel punto l’ispettore interrompeva il lavoro, se ne andava in fretta e dopo un po’ tornava a finire. Lo aiutava il padre, un colonnello in pensione.

Lo specialista dello scaldabagno mi dice che durante la guerra, nella sua città natale, Banja Luka, era con quelli che resistevano all’occupazione serba. Alla fine fu costretto, come la maggior parte dei bosniaci e dei croati, a lasciare la città, firmando che tutti i suoi beni, volontariamente, li lasciava ai serbi, e pagando per l’autobus che li portava verso il territorio libero. Lui a quel viaggio è sopravvissuto, ma circa duecento altri bosniaci furono derubati, torturati e infine uccisi, e i loro corpi buttati in un abisso chiamato Korićanske Stijene. I resti degli uccisi sono stati fatti saltare in aria con le bombe. Proprio in questi giorni, presso il Tribunale per i crimini di guerra, a Sarajevo, si sta celebrando il processo per quei fatti.

Ogni volta che torno a Sarajevo qualcosa è cambiato. Crescono i grattacieli, nella zona centrale della città. Adesso stano costruendo qualcosa di davvero grande, ho contato cinque piani sotterranei. Il posto è centralissimo, e per anni si diceva che là sarebbe stata costruita la nuova Opera e una galleria per i quadri che gli artisti da tutto il mondo avevano regalato a Sarajevo e alla Bosnia Erzegovina durante la guerra. “Niente affatto, sarà un altro trash centre, mi informa un’amica. Trash centre (centro spazzatura), così i sarajevesi chiamano i nuovi centri commerciali che vengono costruiti ovunque. Pare che in Bosnia non si produca niente, ma tutti commerciano qualcosa.

C’è pure una persona che in tram mi offre il posto. E’ magro, di statura bassa, consumato dalla vita, gli mancano i denti, ma sicuramente è più giovane di me. Ringrazio, no, e quello sorride, si sente in obbligo di spiegarmi cosa ha nel borsone posato vicino ai piedi. Ha comprato dai cinesi (a Sarajevo i loro negozi sono nei sobborghi della città), un sacco di calzini, e adesso li venderà ai vicini, a prezzo doppio. ”Chi l’avrebbe mai detto che i cinesi ci sarebbero stati cosi utili”, mi dice sorridendo contento.

Ci sono sempre più bar, e ristoranti. Molti portano i nomi delle città della Bosnia orientale: Višegrad, Foča, Goražde, Zvornik. Così quelli costretti a scappare da là conservano la memoria di quello che c’era una volta. I sopravvissuti ai campi di concentramento, ai massacri, agli stupri, alla pulizia etnica, non tornano più alle proprie case. Ma dopo venti anni, a Sarajevo, sono tornati amici scappati durante la guerra in Canada (un ingegnere elettronico), Inghilterra (un professore) e dalla Repubblica Ceca (una giornalista). Dopo la paura, l’adattamento, e il nuovo inizio, hanno fato i conti e concluso che a Sarajevo si può tornare e vivere.

Ci troviamo, per caso, a un concerto nel Seminario Francescano. Gli ospiti sono un coro dalla piccola città serba Mol, a metà strada tra Belgrado e Subotica. La grande chiesa è piena. Prima gli ospiti presentano un programma di canti religiosi, serbo-ortodossi, dopo, con il coro “Seljo”, di Sarajevo, cantano insieme le canzone di tutti i popoli della ex Jugoslavia. E’ emozionante. Infine il padre francescano ci saluta, regala agli ospiti un quadro con i motivi di Sarajevo, spera che la cosa si ripeta, parla – noto – come da sempre si parlava in città, senza le nuove parole del linguaggio politico, e ci invita tutti a un rinfresco. Entro per la prima volta in una parte del Seminario mai vista. La chiesa, un posto cult, la conoscevo bene. Al liceo ci si veniva per sbirciare i giovani seminaristi che passeggiavano su una terrazza sopra l’entrata principale e sparivano in fretta, in quello spazio, la sala, dove adesso ci offrono birra, misno vino, cioè il vino migliore portato alla chiesa, e altro. Ci si sente a casa, tra amici, si beve, ride, canticchia, si chiacchiera, si raccontano le barzellette. Mi tornano in mente i versi della canzone e li pronuncio, canticchiando, ad alta voce: ”Tutto è uguale, ci manca solo lui”. Stranamente, nessuno ride.

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