Bosnia Erzegovina: a scuola di separazione
Gli studenti bosniaci seguono tre diversi curriculum scolastici. Le differenze maggiori sono nell’area delle cosiddette materie nazionali, che rappresentano il 30% dei programmi di studio. I dilemmi di un insegnante di storia, autore di manuali di testo per la scuola dell’obbligo
4 milioni (stimati) di abitanti, 500mila bambini che frequentano le scuole primarie e secondarie, 13 ministri dell’Istruzione, e, potenzialmente, 12 diversi curricula. Ecco i numeri della scuola post-Dayton in Bosnia Erzegovina. Il sistema educativo riflette la divisione dei tre popoli costituenti (bosgnacco, serbo e croato) e ogni popolo ha ottenuto l’autonomia per quanto riguarda l’educazione dei “propri” bambini. Ogni cantone della Federazione di Bosnia Erzegovina ha il suo ministro, nonché il diritto di scegliere un curriculum per i propri studenti. Lo stesso accade per la Republika Srpska e per il distretto di Brčko.
Un nucleo centrale del curriculum, che deve essere seguito da tutte le scuole del paese, è stabilito a livello centrale e rappresenta il 70% del programma didattico. Il restante 30% può essere scelto dall’autorità competente. Questa parte comprende le cosiddette “materie nazionali”, ovvero storia, lingua, geografia e letteratura. Per queste materie ogni entità, cantone e, a volte, scuola, sceglie una propria versione: croata, serba o bosgnacca. Per conservare la propria identità culturale o, forse, per mantenere la società divisa.
Nonostante la legge quadro sulla scuola del 2003 abbia un’impostazione tesa alla promozione di valori universali – democrazia, pace, diritto allo studio di tutti i bambini, abbattimento delle discriminazioni – sul campo le cose non stanno così. La maggioranza delle scuole sono infatti monoetniche, o regolate sulla base di una convivenza da “separati in casa” ancora più dannosa. Come succede ad esempio nelle 50 scuole miste, ma di fatto segregate, dei cantoni bosgnacco-croati, risultato del famigerato programma “Due scuole sotto un tetto” condannato dal Consiglio d’Europa, dall’Osce e dalle Nazioni Unite.
Una situazione non troppo diversa è quella del distretto di Brčko, portato spesso ad esempio come modello di convivenza multiculturale: al momento delle lezioni di materie “nazionali”, gli alunni vengono separati tra croati, serbi e bosgnacchi.
Leonard Valenta, una prospettiva multipla
Leonard Valenta, insegnante del Centro Cattolico Sveti Josip di Sarajevo e autore di manuali scolastici di storia per le scuole medie, ha spiegato ad Osservatorio come funziona nella pratica il modello bosniaco, e come vengono scelti i manuali scolastici.
“In Bosnia Erzegovina abbiamo sostanzialmente due sistemi educativi: quello della Republika Srpska e quello della Federazione, a sua volta diviso tra i dieci cantoni. Questi ultimi hanno un programma didattico simile, ma con alcune differenze. Nella Federazione ci sono infatti i programmi didattici croati, che si trovano nei cantoni con una maggioranza croata, come il cantone 10 (Livno) o quello di Orašje, e così via. I programmi didattici sono l’alfa e l’omega per la scrittura dei manuali in questo paese. Quindi in Republika Srpska c’è un editore unico, il ministero, mentre in Federazione ce ne sono sette. Inoltre un manuale che segue il programma federale, per essere adottato dalle scuole deve ricevere l’approvazione di tutti e dieci i cantoni. Questo rende da noi tutto molto più complicato”.
Quali sono i punti più sensibili che deve affrontare un manuale di storia in Bosnia Erzegovina?
L’argomento più sensibile è la storia dell’ultima guerra. Gli avvenimenti degli anni novanta, secondo il programma federale, non vengono studiati a scuola. In Republika Srspka, invece, quegli avvenimenti son presenti nei programmi, ho avuto modo di vederlo, ma vengono affrontati quasi solo da un’unica prospettiva.
Personalmente mi sento vicino a chi ritiene che si tratti di un evento troppo recente, e che sia presto per studiarlo: le ferite sono ancora aperte, ancora si tirano fuori i corpi dalla terra, ancora c’è, penso si possa liberamente dire, ostilità. Per tutti questi motivi ritengo che siano argomenti ancora troppo freschi per essere affrontati serenamente nei programmi scolastici. Anche se credo che la maggioranza della popolazione in Bosnia Erzegovina non sia d’accordo con me. Alcuni dicono che si dovrebbe scrivere “quelli sono i colpevoli”, altri dicono che si dovrebbe scrivere “quegli altri sono i colpevoli”, ma così non si arriva a niente. Forse si fa un servizio migliore a non scrivere ancora di quel periodo.
Anche evitando di scriverne direttamente è difficile evitarlo del tutto: quando si parla della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, si parla anche di quest’ultima guerra…
Vero, e lo stesso avviene per la Prima Guerra Mondiale, e anche per i secoli precedenti. Ci sono le differenti visioni della storia del regno jugoslavo, che per alcuni era una prigione e per altri uno Stato di diritto. L’attentato di Sarajevo: a Sarajevo si studia che l’attentatore Gavrilo Princip era un t[]ista, al di là della collina [a Lukavica, o Sarajevo est, in Republika Srpska, ndr] viene ricordato come un eroe. A quindici minuti da Sarajevo c’è tutta un’altra impostazione di pensiero. Io penso che questo non sia accettabile. Di fatto insegniamo alla nuova generazione ad essere ancora divisa.
Qual è la soluzione?
L’unico elisir per la scrittura di manuali e per lo studio della storia, qui in Bosnia Erzegovina, è la multiprospettiva. Nel mio manuale, in concreto, quando parlo dell’attentato di Sarajevo ne parlo come di un avvenimento controverso, nel libro viene presentato con data, nome della persona e avvenimento. Questo, in quel momento, in quel luogo ha fatto questa cosa. Non scrivo né che era un eroe né un t[]ista né altro. E poi aggiungo le fonti storiche, così si può leggere quello che dicono sia quelli che ne parlano come di un eroe che quelli che ne parlano come di un t[]ista.
Alla fine si viene a scoprire che era un giovane di diciannove anni coinvolto in qualcosa che non era tipico per la sua età. Incantato, o ossessionato, da un’idea. Non è tutto bianco, non è tutto nero, bisogna utilizzare il grigio.
Ogni anno, quando arrivo all’attentato di Sarajevo, chiedo sempre ai ragazzi: “Voi cosa ne pensate?” E sono sempre contento quando iniziano a litigare… Magari qualcuno dice: “Ma che dici? Ha ucciso una donna incinta!”, e un altro: “E’ stato coraggioso, vedi cosa ha fatto per la libertà del suo popolo!”, ma non è una rissa, vedo che si mettono a pensare e tutti insieme magari arrivano ad una conclusione vicina. E crescono.
L’importante è capire che se un altro la pensa diversamente non è colpevole, non è nemico. La pensa solo in un’altra maniera.
Se andiamo nel Medioevo ci sono gli stessi problemi. Ad esempio si discute se quel tal re era serbo, croato, o qualcos’altro. Allora possiamo chiederci: ma che cos’era la nazionalità nel Medioevo? Non esisteva. Non possiamo guardare al Medioevo con gli occhi del XXI secolo. La nazione è un concetto che risale solo al XVIII secolo. Oppure parliamo di sangue serbo o sangue croato, ma anche in questo caso è tutto da vedere se ha un senso parlare di un concetto simile. Possiamo dire che, prima di tutto, c’era una terra, c’era un regno, una ricchezza, una corona. Invece noi, alla luce di una diversa consapevolezza attuale, tendiamo a colorare gli eventi del passato con il concetto di nazionalità e nazionalismo politico.
Quali sono le attuali tendenze più presenti tra i professori di storia in Bosnia Erzegovina?
Dalla fine della guerra non è stato organizzato neanche un simposio scientifico serio, che abbia riunito gli storici più importanti del paese a Banja Luka, Mostar, Sarajevo o da qualunque altra parte. Le iniziative sull’educazione sono state prese in mano dalle organizzazioni internazionali, ma non c’è mai stato un discorso portato avanti da noi. Spesso i professori che lavorano nella didattica hanno delle complicazioni, nel senso che in genere gli insegnanti sono molto legati alla scuola, al loro luogo di professione e non sono molto portati al cambiamento. Magari si incontrano, discutono, ma raramente nascono collaborazioni, associazioni. C’è sempre quel timore di sottofondo: “Cosa dirà il mio direttore?”