Addio Bosnia, vado a Sarajevo
I rischi per la frammentazione della Bosnia Erzegovina. Il dibattito pubblico degli ultimi mesi, l’incerta posizione della comunità internazionale e i messaggi inviati dalle forze politiche locali. La profezia di Husein Kapetan Gradaščević
La Bosnia, come un uomo ammalato, non può dormire e non lascia gli altri in pace (Ivo Andrić)
Due anni fa lo scrittore Abdulah Sidran fu sottoposto a dura critica per il suo disfattismo. Diceva che "i bosniaci e la Bosnia stanno scomparendo".
All’inizio del 2009 Zdravko Grebo, docente universitario di Sarajevo, fu rimproverato perché sosteneva che "la Bosnia Erzegovina sta contando i suoi ultimi giorni".
Nel giugno di quest’anno la poetessa bosniaca Ferida Duraković, rassegnata, mi confessava che "nel passato sparivano gli imperi e oggi, invece, dobbiamo accettare il fatto della sparizione della Bosnia".
Negli ultimi mesi numerose riviste e giornali, politici ed esperti internazionali, hanno affermato che, quattordici anni dopo il Trattato di pace firmato a Dayton, la Bosnia Erzegovina è sull’orlo del collasso.
"Ancora una volta i bosniaci parlano di una possibile guerra", scrive l’autorevole rivista americana di geopolitica "Foreign Affairs", sotto il titolo La morte di Dayton (v. Foreign Affairs, settembre/ottobre 2009: The Death of Dayton, How to Stop Bosnia From Falling Apart, di Patrice C. McMahon e Jon Western).
Gli autori dell’inchiesta avvertono che "la Bosnia, forse, non rimarrà pacifica ancora a lungo, e la presente tendenza verso la sua frammentazione provocherà certamente nuova violenza".
"La situazione è allarmante, ma pare che nessuno ne prenda nota", scrive per il "New York Times" Nicholas Kulish nel suo articolo Mentre l’Europa dorme, la Bosnia sta ribollendo (New York Times, 5 settembre 2009).
Qualche mese prima, sempre sulle pagine del New York Times, l’ex ambasciatore americano in Croazia e Serbia, William Montgomery, proponeva la divisione della Bosnia Erzegovina su basi etniche.
I Paesi Bassi considerano seriamente l’eventualità di una disgregazione della Bosnia Erzegovina, sosteneva qualche mese prima su B92 Peter de Hojera, esperto del governo olandese (B92, 2 febbraio 2009).
Nel novembre 1995, nella città americana di Dayton, fu firmato l’accordo che poneva fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. Il Paese fu diviso in due entità semi-indipendenti: la Federazione e la Republika Srpska. Il modello politico adottato esprimeva un governo centrale debole e una vasta autonomia alle entità.
L’accordo fu la base della "caotica situazione odierna", come la definisce il quotidiano inglese "The Independent" (v. Marcus Tanner, The Independent, 13 agosto 2009)
Ogni entità ha un proprio governo, la propria polizia, un proprio sistema d’istruzione e sociale, il diritto di riscuotere le tasse. In totale ci sono 160 ministri. Un apparato burocratico che divora metà del bilancio annuale.
Dal 1995, e fino a tutto il 2007, sempre secondo la rivista "Foreign affairs", in Bosnia sono finiti 14 miliardi di dollari, investiti dalla comunità internazionale con la speranza che la prosperità potesse aiutare lo sviluppo di una società democratica.
Ma la frammentazione istituzionale, il grottesco apparato amministrativo e la corruzione endemica, hanno fatto sì che più di 1 miliardo di dollari sparisse.
La polizia, i governi della Republika Srpska e della Federazione, il sistema sanitario, l’industria, l’istruzione sono i luoghi della corruzione più radicata.
La retorica nazionalista dei politici, in particolar modo quella degli "sciovinisti, Milorad Dodik e Haris Silajdžić", come evidenzia sempre "Foreign Affairs", ha paralizzato le istituzioni federali, costituendo un forte ostacolo al progresso.
La popolazione è etnicamente divisa, le persone si spostano solo per avvicinarsi al punto in cui la propria etnia rappresenta la maggioranza, la sfiducia reciproca è maggiore che nel periodo della guerra.
Oggi, quattordici anni dopo la pace di Dayton, i serbi bosniaci vogliono la separazione, i croati si sentono insicuri e aspirano alla propria parte, mentre i bosniaci temono di finire in una sorte di Striscia della Bosnia, una piccola parte centrale del Paese circondata dalle vicine Serbia e Croazia.
I musulmani bosniaci temono che stia per avverarsi quello che una volta dicevamo per ridere, e che sembrava una frase priva di senso: "Zbogom Bosno, odoh u Sarajevo", "Addio Bosnia, vado a Sarajevo".
Il primo ministro della Repubblica Serba (RS), Milorad Dodik, lavora apertamente a favore della secessione della RS dalla Bosnia. A suo parere la "RS è un’entità stabile e durevole, mentre il futuro della Bosnia Erzegovina è incerto" (Foreign Affairs).
Nebojša Radmanović, membro della Presidenza collettiva della Bosnia Erzegovina, serbo, è andato un passo in avanti dichiarando al quotidiano di Belgrado "Večernje Novosti" che "la Bosnia Erzegovina è più vicina alla dissoluzione che all’unità" (v. Radio Free Europe, 17.09.2009).
Le due entità esistenti hanno il diritto di porre il veto nelle questioni dibattute a livello delle istituzioni statali. Il risultato è il pressoché totale blocco di ogni attività.
Negli ultimi anni i rappresentanti della RS nelle istituzioni statali hanno bloccato circa 100 leggi, iniziative o nomine politiche, e tra le altre anche quelle necessarie per il processo di integrazione europea.
"Per noi la Republika Srpska e più importante dell’integrazione europea. Il mio obbiettivo è che la RS funzioni da sola", ha sostenuto all’inizio di quest’anno il Primo ministro Milorad Dodik in un’intervista al belgradese "Večernje Novosti" (Nadležnosti važnije od EU, 08.01.2009).
Gli accordi di Dayton hanno creato la figura dell’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina (OHR), la più alta carica civile del Paese, cui spettano compiti di controllo, di monitoraggio e di supervisione, nonché il potere d’imposizione di provvedimenti legislativi e di rimozione di pubblici funzionari che ostacolino l’attuazione degli accordi stessi.
La scorsa settimana l’Alto Rappresentante, Valentin Inzko, ha imposto alcune decisioni, dato che i politici locali non riuscivano a mettersi d’accordo.
Mentre Inzko spiegava a Bruxelles che la situazione in Bosnia Erzegovina era peggiorata, i politici della Republika Srpska respingevano le sue decisioni, attaccandolo e minacciando di far causa a tutti i rappresentanti precedenti, perché hanno "violato l’accordo di Dayton e la Costituzione".
Due anni fa si era creata una situazione simile, quando l’Alto Rappresentante di allora, lo slovacco Miroslav Lajčak, aveva esercitato la propria autorità per imporre alcune decisioni. Dopo un lungo braccio di ferro Bruxelles, invece di sostenere il proprio Rappresentante, aveva rinunciato.
"La resa alla Republika Srpska ha severamente danneggiato la legittimità dell’Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina", sostiene sempre "Foreign Affairs".
L’episodio ha rivelato il lato peggiore della comunità internazionale, che impone decisioni e poi rinuncia, ha sostenuto l’International Crisis Group nel suo rapporto Bosnia’s Incomplete Transition: Between Dayton and Europe del 9 marzo scorso.
Secondo un articolo di qualche tempo fa del "Financial Times" (Bosnia divides the EU-again), i ventisette Paesi dell’Unione Europea sarebbero divisi sulla sorte della Bosnia Erzegovina. Alcuni, come la Francia, l’Italia, e la Germania, sarebbero dell’avviso che sia giunto il momento di chiudere l’OHR. In questo sarebbero sulla stessa linea della Russia. Gli americani, invece, sosterrebbero che la situazione in Bosnia peggiorerebbe senza il sostegno della comunità internazionale.
Jacques Klein, ex rappresentante delle Nazioni Unite per la Bosnia Erzegovina, ritiene "che gli Stati Uniti devono impegnarsi di più in Bosnia, perché hanno una politica più efficace. Invece l’Europa per ogni decisione ha bisogno di un consenso che richiede molto tempo" (Voice of America, 17 settembre 2009).
La nuova amministrazione americana ha già mostrato interesse per i Balcani e per la Bosnia. Il vice presidente USA, Joseph Biden, ha dedicato una delle sue prime visite ufficiali all’estero ai Balcani, nel giugno scorso, invitando i politici locali a evitare "vecchi modelli e antichi odi".
Le forze militari internazionali presenti in Bosnia (EUFOR) contano circa duemila soldati, sparsi in tutto il Paese. Il numero dei militari presto sarà ridotto a sole duecento unità, con un mandato ancor più limitato. "Ciò danneggerà la capacità della comunità internazionale di prevenire e di reagire alle eventuali violenze interetniche", conclude sempre "Foreign Affairs".
Il presidente del Partito di Azione Democratica (SDA), Sulejman Tihić, teme che "la rovente retorica possa portare alla violenza" (Craig Whitlock, The Washington Post, 23 agosto 2009)
L’ex rappresentante dell’International Crisis Group, James Lyon, avverte poi che in Bosnia "tutti sono armati" (Slobodna Bosna, 26 marzo 2009).
I media locali citano i patrioti che promettono: "Questa volta non ci coglieranno disarmati" (v. Erduan Katana, Radio Free Europe, 14.09.2009 citando il comunicato dell’SDA pubblicato pochi giorni prima sul quotidiano sarajevese Oslobodjenje).
Ci sono tempi bui all’orizzonte per la Bosnia? Presto giungerà la sua fine? Oppure si avvererà la previsione fatta duecento anni fa dal nobile condottiere bosniaco Husein Kapetan Gradaščević, detto Il Drago della Bosnia, che conduceva la ribellione contro i turchi?
Nel celebre dialogo con il governatore turco in Bosnia, che gli diceva "non ci sono più né la Bosnia né i bosniaci", Husein ribatteva: "C’è la Bosnia, e ci sono i bosniaci. C’erano prima di voi e, se Dio vorrà aiutarci, ci saranno anche dopo".