UE e Balcani a confronto
Allargamento, democrazia, migrazioni. L’Europa orientale e balcanica presenta un quadro complesso e in continua evoluzione. In occasione della presidenza croata dell’UE, il nostro Francesco Martino ha fatto il punto in un’intervista per Futuro Europa
(Questa intervista è stata originariamente pubblicata sul "Futuro Europa", quotidiano online di politica e cultura)
L’allargamento dell’UE a est ha spostato il baricentro dell’Unione Europea, molti analisti ed esperti del settore con cui ho parlato ritengono che l’inclusione di questi paesi sia stata troppo frettolosa. Quale è la sua opinione? Un rallentamento dell’entrata nella UE avrebbe potuto portare gli stati dell’est in orbite diverse?
L’allargamento dell’Unione ad est è stato sempre un tema controverso, con visioni discordanti. Per alcuni è stato semplicemente un atto dovuto, una ricostruzione della “casa europea” separata per mezzo secolo dalla ferita del muro di Berlino. Altri invece hanno parlato di un affrettato “matrimonio d’interessi”, che ha inglobato paesi ancora troppo segnati da decenni di totalitarismo. Quello che in tanti hanno faticato a capire, però, è proprio l’aspetto di nuova condivisione delle istituzioni europee da parte di paesi con storie diverse: allargare l’UE non ha significato semplicemente allargare l’Europa occidentale verso est, ma creare un nuovo spazio politico, dove convivono sensibilità, storie e tradizioni politiche e sociali diverse. Difficile dire oggi se i paesi dell’Europa orientale avrebbero potuto prendere una traiettoria diversa: in termini storici e politici l’allargamento è stata la scelta giusta, con effetti positivi sulla vita di milioni di cittadini europei. E’ inevitabile, però, che una volta sperimentata la convivenza reale si sia scoperta anche la fatica del condividere lo spazio politico.
L’entrata dei paesi dell’est nell’UE aveva portato molte aspettative, provenendo dall’universo sovietico si riteneva che ci sarebbe stata una ventata fresca di democrazia e partecipazione comune. Alla prova dei fatti, sia con la creazione del blocco di Visegrad che con altri atteggiamenti controversi, dalla politica sulla giustizia in Polonia ai muri eretti da Orban, la percezione è cambiata molto. Il background ‘sovietico’ da cui provengono è stato male interpretato dagli occidentali e invece di generare democratici ha rivelato una componente ancora legata a vecchi modi di gestire lo stato?
I decenni trascorsi all’interno del blocco sovietico hanno lasciato un’impronta profonda nelle istituzioni e nella cultura politica dei paesi dell’Europa orientale. Non solo, hanno provocato una forte spinta a riscoprire e rafforzare le varie identità nazionali, schiacciate nei decenni precedenti dalla sovranità limitata dal controllo dell’Unione sovietica. Una spinta che ha dovuto convivere, in modo spesso conflittuale, con le esigenze di dover condividere la sovranità all’interno della nuova cornice dell’UE. Queste contraddizioni, soprattutto col sopraggiungere della crisi economica globale nel 2008, che ha colpito in modo severo le economie dell’Europa centrale da poco uscite dalla dolorosa transizione economica dall’economia di piano a quella di mercato, hanno rafforzato in paesi come Polonia – e soprattutto Ungheria – lo svilupparsi dell’idea di una “via nazionale” all’Unione europea, che se da una parte ha teso a godere pienamente dei vantaggi della membership UE, come ad esempio il trasferimento di risorse a est attraverso i fondi di coesione, dall’altra ha posto chiari ostacoli all’assunzione di responsabilità su problemi comuni, come la gestione della crisi migratoria. C’è stato un passo indietro su alcuni dei punti cardine del sistema democratico, come l’indipendenza della magistratura e dei media, e la tentazione di tornare ad un’idea di un “governo forte”, che è sfociata in nuove forme di autoritarismo. Un’evoluzione che ha messo l’UE di fronte ad un paradosso: quello di essere più attrezzata per promuovere lo sviluppo di democrazia e diritti umani in paesi che ambiscono alla sua membership rispetto a quelli già entrati nell’Unione.
Sempre rimanendo su questo tema, riguardo il tema immigrazione, proprio presumendo che avere vissuto sotto un’egida autocratica portasse i paesi dell’est ad essere maggiormente disponibili verso chi arriva in cerca di aiuto, si è invece visto che l’immigrazione ha trovato i maggiori ostacoli proprio sulla rotta dei Balcani. Quali sono in generale i sentimenti dei paesi balcanici rispetto immigrazione e inclusione?
I paesi dell’area sono stati direttamente investiti dall’ondata migratoria lungo la cosiddetta “rotta balcanica” che ha toccato il suo picco nel 2015, e che rischia di ripetersi oggi con la recente decisione della Turchia di riaprire le proprie frontiere a migranti e richiedenti asilo. In generale, l’atteggiamento verso l’immigrazione e l’inclusione di rifugiati in numeri importanti è negativo: molti dei paesi balcanici non vedono chi arriva come una risorsa potenziale, ma come un peso insopportabile sui propri fragili sistemi economico e sociale. Una percezione tra l’altro condivisa dalla maggioranza dei migranti, che considera i Balcani una “terra di transito” sulla strada verso i paesi più ricchi e sviluppati dell’Europa centrale e settentrionale. Con la progressiva politica di chiusura e controllo dei confini dell’UE, alcuni paesi, come la Serbia e la Bosnia Erzegovina, si sono trasformati in una sorta di “purgatorio” per quei migranti lì bloccati dai muri costruiti sulle frontiere europee. La gestione di questa situazione è stata ondivaga, ma segnata dal malcelato desiderio di liberarsi “del problema” semplicemente abbandonando i richiedenti asilo a sé stessi.
La zona dei Balcani appare ancora molto lontana da una totale pacificazione, pur non essendoci, fortunatamente, più guerre militari, i contenziosi si sprecano, dai litigi sul nome della Macedonia, alle diatribe sulle enclavi, il meccanismo europeo di entrata nell’area Schengen ed Eurozona, prevedono una serie di passaggi fondamentali che non possono prescindere dall’accordo di tutti i paesi, come e quando potranno essere risolti i problemi che ancora affliggono i Balcani e impediscono ulteriori passi verso l’Unione Europea?
L’area balcanica continua ad essere segnata da una lunga serie di problemi. Le questioni più intricate e difficili restano eredità delle guerre di dissoluzione delle Jugoslavia, con in cima la definizione dello status del Kosovo e la continua disfunzionalità dell’architettura istituzionale in Bosnia Erzegovina. Negli ultimi due decenni, si è ripetuto incessantemente che si potessero sanare le ferite della regione attraverso un graduale processo di avvicinamento ed inclusione nell’Unione europea. Nel 2003, a Salonicco, l’UE ha tracciato una strategia che, nelle aspettative di allora, avrebbe riportato i paesi balcanici “nella casa europea” entro il 2014, superando e neutralizzando le spinte nazionaliste che avevano alimentato i conflitti. Da allora, però, quell’entusiasmo si è gradualmente affievolito da entrambi i lati. La “fatica da allargamento” da una parte, e le difficoltà e reticenze delle élite politiche dell’area nell’affrontare questioni vitali come stato di diritto, corruzione e libertà dei media dall’altra, hanno portato al progressivo impantanarsi dall’iniziale spinta ideale e politica. E’ evidente che per i prossimi anni i Balcani continueranno a vivere in una condizione di sospensione: se nel lungo periodo si può sperare nel compimento del processo di allargamento, nel breve bisogna continuare a lavorare in modo pragmatico per affrontare questioni concrete, continuando a coinvolgere non solo le élite, ma anche le società civili dell’area, ed evitare che i Balcani diventino “zona di conquista” di attori sempre più attivi nella regione, come Cina, Russia e Turchia.
La Croazia che ora guiderà per il 1° semestre la Presidenza Europea ha questo onore per la prima volta, i dossier sul tavolo sono parecchi. Oltre la gestione della Brexit ci sono contenziosi aperti con la Serbia e la Slovenia, l’annosa disputa sui confini marittimi come la baia del Pirano. Tutto questo influirà sulla Presidenza o l’ampia disponibilità mostrata dalle prime dichiarazioni del governo croato potrebbe trasformarsi nell’occasione per appianare le vertenze in atto?
Da molti anni la presidenza di turno dell’UE ha perso la centralità nella definizione delle politiche comuni europee, e dossier come quello della Brexit non verranno certamente gestiti dalla presidenza croata. Zagabria ha messo sviluppo e interconnettività in cima alla lista delle proprie priorità, ma proverà a giocare un ruolo significativo nel rilancio dell’allargamento ai Balcani, al quale si dice particolarmente interessata: nel vertice UE-Balcani occidentali, previsto nella capitale croata il prossimo maggio, la questione principale sarà l’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord, bloccata nel novembre 2019 dalla Francia di Macron. Nelle ultime settimane, dopo che la Commissione europea ha presentato una nuova metodologia per valutare il processo di allargamento, Macron ha ammorbidito la propria posizione, una svolta sembra possibile. La disputa sul golfo di Pirano non sembra vicina ad una soluzione positiva, e difficilmente si arriverà a evoluzioni significative durante il semestre di presidenza. Anche i rapporti con la Serbia restano tesi a livello politico, anche se, su altri piani, come quello dei rapporti economici e commerciali, i due paesi collaborano senza problemi.
Dati i desiderata di Zagabria riguardo Schengen ed euro, e i tempi biblici della diplomazia europea, cosa possiamo realisticamente aspettarci dal semestre di Presidenza?
Il processo di allargamento, nelle sue linee fondamentali, dipende dal complicato processo decisionale europeo, condizionato al momento dal potere di veto di qualsiasi paese membro e da interessi e visioni contrastanti. Il semestre croato, così come quello bulgaro nel 2018, metterà un accento comunque importante sui rapporti tra UE e Balcani occidentali. Forse ci sarà l’apertura dei negoziati con Skopje e Tirana: se questo avverrà, vista la complicata cornice, potremo parlare di un successo.