Così parlò la diaspora jugoslava
La rubrica “Moj život u inostranstvu” (La mia vita all’estero) del quotidiano belgradese “Politika” dà voce ai pensieri, alle riflessioni e alle testimonianze, spesso amare e cariche di stanchezza e nostalgia, della numerosa diaspora jugoslava sparsa nel mondo. Eccone alcuni estratti
Non tornerai mai più
“Sei anche tu un gastarbeiter [lavoratore all’estero] come i miei genitori? Voi tornate o quando andate in pensione o – il più delle volte – in una bara, per esaudire l’ultimo desiderio espresso, quello di essere sepolti qui… Come si dice a Belgrado: ‘Non avete le palle per farlo prima’…
Qualche rimpatriato ci ha consigliato, a noi che vogliamo tornare, di non spiegare le nostre ragioni a nessuno e di non provare a giustificarle, poiché così rovineremmo il sogno più grande che hanno le persone in Serbia: andarsene via. Quando rovini il sogno di una vita di qualcuno, diventi un suo nemico… Siamo divisi tra questi qui e quelli là. Trincee sono state scavate in profondità e qualsiasi conversazione costruttiva si è trasformata in discussioni spiacevoli. Gli emigrati non sono tra i più onesti quando fanno mostra di auto acquistate a debito, scialacquando soldi guadagnati duramente; chi è rimasto in Serbia pensa che all’estero sugli alberi crescano i frutti del paradiso…
Non vale la pena confutare uno dei nuovi detti più stupidi, e cioè che la tua patria è lì dove stai bene. No, non è così. Se tornassi a scuola e facessi un tema su cos’è la patria, risponderei che la patria è dove i tuoi figli hanno i nonni, la zia e lo zio e tu il tuo padrino e il tuo compagno di scuola. Dove c’è la casa della tua famiglia e la strada dove hai baciato qualcuno per la prima volta… Dove sei veramente qualcuno. Dove sei te stesso. O come dice Šurda, venuto in Germania per diventare ‘qualcuno’ nella serie cult ‘Vruć vetar’: ‘Io quando voglio essere qualcuno e qualcosa, torno giù. Che senso ha essere anche qualcuno qui, se tutti i nostri non ti vedono?’.
Mi sono già abituato alle risposte di tutti i miei connazionali. Se dico che lavoro qui da più di dieci anni, sette giorni su sette, la loro risposta è che almeno so perché ho lavorato. Se dico che non ho nessuno qui, mi rispondono che anche se qui ci vediamo tutti i giorni, tra fratelli non ci si parla. Se dico loro che i miei figli non provano alcun sentimento per i loro parenti, mi rispondono che lì hanno il loro futuro… Eh, noi emigranti, gastarbeiter, siamo patetici. Come mi direbbero i miei là: ‘Hai i soldi, hai tutto… e piagnucoli!’”
I nuovi arrivati che li derubano del lavoro e del parcheggio
“Qui, ci trattano come dei nuovi arrivati che vogliono prendersi il loro lavoro, il loro pezzo di terra e il parcheggio. Lì invece, siamo degli ex serbi, ora americani, che fanno il lavoro più semplice del mondo, raccogliere dollari dagli alberi. Se solo sapessero quanto si sbagliano… La sfortuna di noi che abbiamo lasciato la nostra patria per una vita migliore nell’altro mondo
risiede in un eterno dilemma. Il dilemma dell’appartenenza. Da un lato, le nostre radici, origini, antenati, e dall’altro, la terra a cui lasciamo dei discendenti, buona parte (la migliore?) della nostra vita e le tasse. Quest’ultima cosa fa più male… Qui, pensano che veniamo da un paese lontano, arretrato chiamato Siberia o Sabiria e ci chiedono se è nell’estremo oriente della Russia o nel Medio Oriente? E quando glielo mostriamo su una mappa, provano un senso di colpa nello scoprire quanto sono ignoranti… Qui, il nostro accento duro mina seriamente la nostra autorità perché ci classifica automaticamente come di minor valore ai loro occhi. Considerano le nostre capacità inferiori poiché non possiamo pronunciare quella dannata ‘R’ nel modo in cui dovremmo o mettiamo il ‘the’ dappertutto dove non dovremmo, mentre quando serve non lo usiamo… Incapaci di stare pienamente da una parte o all’altra, diventiamo vittime del conflitto tra emozioni e ragione. Così, lacerati dalla doppia cittadinanza e dai sentimenti, abbiamo la possibilità di mettere alla prova la nostra appartenenza durante dei duelli sportivi tra la nostra nazione di nascita e quella di acquisizione. E mentre il cuore non ha il dilemma da che parte stare, il cervello vive il risultato come se ci prendessimo a calci nel culo da soli. In caso di vittoria della nazione in cui siamo nati, nulla fa male, in caso di sconfitta, ci odiamo da soli”.
Ragazzo mio, ma qui è peggio che in Bosnia
“Nell’ultimo mezzo secolo questa città è stata la principale destinazione dei lavoratori turchi, poi dei profughi dai Balcani e dalla Siria. Alcuni insediamenti per lavoratori e profughi sono luoghi dove la polizia non entra, se proprio non deve. Tutti quelli che sono venuti a trovarmi in Germania nei primi tre anni della mia vita qui, dalla famiglia ai miei amici, mi facevano più o meno la stessa domanda: ‘Perdio, perché proprio qui?’ Io facevo spallucce, non sapendo proprio cosa rispondere.
Anche per noi balcanici con aspettative relativamente basse, Duisburg è una città piuttosto brutta… Ricordo il commento di mio padre quando passeggiai con lui per la prima volta in centro. Guardandosi intorno, mormorò semplicemente: ‘Ragazzo mio, ma qui è peggio che in Bosnia’. Io alzai appena le spalle, davvero non sapendo cosa rispondergli… Penso che il gastarbeiter medio viva in uno stato di shock cronico nei primi anni… forse è per questo che la storia di un prete ortodosso conosciuto a un colloquio di lavoro non mi ha sorpreso… Lui mi spiegò che da due anni lavorava in un magazzino dove guidava il muletto, ma era venuto al colloquio perché, proprio come me, aveva deciso di far carriera… Quando racconto a qualcuno la mia storia, la domanda è pressoché sempre la stessa: ‘Si sta davvero così male qui che i nostri preti vanno in Germania a guidare i muletti?’ Potrei rispondere alla loro domanda e invece faccio solo spallucce”.
Quando un bosniaco insegna l’olandese
“Sai, non è stata una decisione facile venire qui. Giù mia madre è sola, e ha solo me. La nonna è morta molto tempo fa. È difficile sopravvivere lì, lo sai anche tu. Nessuno ha bisogno di persone come me. Sai come se la passano gli insegnanti e gli altri che si prendono cura dei bambini. Non vedo un’aula da quando mi sono laureato. Bambini, sempre meno, e sempre più insegnanti con la tessera del partito.
Così è oggi, e così era allora. Ho fatto dei lavori occasionali per un paio d’anni, alla fine sono finito al mercato: prima calze e biancheria intima, poi frutta e verdura. Un giorno mia madre è venuta, si è fermata e mi ha visto infilare delle cipolle nella sporta di una vecchia. Ha detto che sarebbe stato più facile per lei vedere il suo unico figlio almeno un po’ soddisfatto su un monitor, che vederlo ogni giorno alle prese con cavoli e lattuga. Per farla breve, ecco come sono finito qui. La mia nuova vita sta iniziando.
Dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio va ancora bene, ma dalle 5 alle 9 proprio non gira, per non parlare del sabato e della domenica. Un uomo può convincersi che i muri hanno le orecchie, per ascoltarlo e capirlo, quando non c’è nessun altro. Ma non hanno la lingua, non parlano. Una sera mi è sembrato che il muro ridesse mentre gli raccontavo del mio lavoro… Sono pazzo di solitudine. Cosa dovrei fare? Non ha importanza essere colleghi, ognuno è chiuso su se stesso e non riesco a organizzare un caffè neanche con due mesi di anticipo. Trovare una donna, difficile. Hai mai visto in città una loro donna abbracciare uno sconosciuto? Ovviamente no… E così vado alla moschea. Sapevi che questa moschea qui, vicino allo stadio del PSV, è la più antica moschea in stile ottomano di questa parte d’Europa? Giù da noi, non so se sono entrato in una moschea tre volte in tutto… Ma qui, tutto è lentamente cambiato. A poco a poco, sono diventato un habitué. Incontro persone e smetto di parlare ai muri”.
Mamma io sono tedesco e la mia patria è la Germania
“Le prime parole che ho imparato quando sono arrivata in Germania sono state ‘es regnet’, che significa sta piovendo. Col tempo, mi sono resa conto che ‘es regnet’ non dà la stessa sensazione di ‘il pleut’ dove la pioggia scroscia dolcemente (secondo me), o ‘it’s raining’, dove si sentono le gocce battere sulla finestra.
‘Es regnet’ è in realtà un evento la cui presenza si fa sentire nelle ossa ancor prima che inizi e non si esaurisce con la pioggia, ma il suo freddo avvolge lentamente le caviglie, portando in modo strano e inaspettato la pace. Nel tempo, ‘es regent’ è diventata una categoria speciale nella mia vita, come un aggettivo o un concetto che aggiungevo a qualcuno o qualcosa per ritrovare quel pezzo del puzzle che mi mancava continuamente e grazie a cui potevo semplicemente spiegare a me stessa questa nuova cosa che stava lentamente, ma rumorosamente, entrando nella mia vita. E quel giorno in cui mio figlio, un undicenne serio, studente di quinta elementare di una scuola tedesca, tornando a casa, dalla porta, tutto contento ha gridato: ‘Mamma, Frau Bohm ha detto che sono tedesco e che la mia patria è la Germania’. Ecco quel giorno è stato il tipico giorno ‘es regnet’.
I miei pensieri sono di nuovo al mio villaggio
“Se upp för dörrar. Dörrarna stängs. O nella nostra lingua, attenti alle porte, le porte si chiudono. Un’altra mattina in treno da Stoccolma a Boktyrka. Un po’ stanca, per niente motivata, troppo nostalgica. I pensieri sono di nuovo al mio villaggio. Cosa staranno facendo i miei, si saranno alzati, avranno dato da mangiare ai miei animali, la Yugo sarà partita?… Penso che noi che viviamo fuori ci chiediamo sempre se abbiamo preso una buona decisione, cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso. Ne è valsa la pena?”.
Io non me ne vado
“In America, il quaranta per cento della ricchezza nazionale è goduto dall’uno per cento della popolazione. Gli altri sognano il ‘sogno americano’ e si svegliano poco prima della fine della loro vita. Poi si rendono conto che ci sono altri sogni oltre a quello ‘americano’, ma non sono così ben pubblicizzati. Allora perché la nostra gente si precipita attraverso l’oceano? Perché la situazione nel nostro paese è ancora peggiore se guardiamo al rapporto tra ricchi e poveri. Qua e là, il popolo ottiene solo briciole, ma le briciole dei Democratici americani sono molto più grandi delle nostre vigliacche briciole di transizione. Ci sono stati momenti in cui ho anche io pensato di fare le valigie a causa di quelle invitanti ‘briciole democratiche’, ma non avevo abbastanza soldi per comprare delle valigie decenti. E di andare nel ricco Occidente con quelle borse di plastica a quadri cinesi, semplicemente mi vergognavo”.
Bogoljub è tornato in Serbia
“Il mio amico Bogoljub è uno dei più pazzi, o più coraggiosi… Presto avrà settant’anni. Il mio amico Bogoljub è tornato in Serbia. Lui è tornato, mentre noi siamo rimasti nell’emigrazione. Tutti pensavano, è tornato solo per un po’, finché non gli passerà l’idea romantica di vivere di nuovo a Belgrado. Quella pietà per la giovinezza, quell’amore immortale per Belgrado, lo capiamo tutti, ma amico dai, chi torna in Serbia adesso? Lo abbiamo aspettato, aspettato, poi abbiamo smesso. Non gli è passata”.