Ante Marković, la terza Jugoslavia. Trent’anni dopo
Il 20 dicembre 1991 Ante Marković rassegnò le dimissioni da Primo ministro di una Jugoslavia federale ormai implosa e già teatro di guerra. In quest’analisi ricordiamo i momenti cruciali di un periodo e di una figura politica che tutt’oggi sono celebrati da alcuni e denigrati da altri
“Sono sempre stato per la pace e per la democrazia, e contro la guerra. Quindi per me è inaccettabile proporre un bilancio di guerra. Non posso fare questo”. Con queste parole, il 20 dicembre 1991 Ante Marković rassegnò le dimissioni da Primo ministro di una Jugoslavia federale ormai implosa e già teatro di guerra. Appena cinque giorni dopo, lasciò l’incarico anche il modello naturale di Marković, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov. Anche se tra le due biografie (e i due sistemi di paese) non mancano differenze particolari, è inevitabile scorgere una comunanza di fondo: entrambi furono autentici riformisti, a loro modo convinti di portare i propri paesi alla democrazia multi-partitica e a elementi di mercato, ma senza cadere né nella democrazia etnica né nella società di mercato, salvando dunque l’anima multietnica, la forma federale e il minimo di sicurezze sociali dei rispettivi sistemi.
Oggi, ex post, queste irrealizzate aspirazioni tipicamente social-democratiche di terze vie (quella economica tra comunismo e capitalismo, ma anche quella territoriale, tra auto-determinazione identitaria e centralismo assimilatore) appaiono lontane: ingenue secondo alcuni, (auto-)distruttive secondo altri. Ma è utile ricordare il momento in cui sembrarono davvero realizzabili, e persino desiderabili da ampi settori delle rispettive società. Il 1989 europeo si era aperto euforicamente come un “tempo delle possibilità” (Johanna Bockman ), “una svolta esaltante […] di genuina apertura” (Naomi Klein). Questo si chiuse, almeno per URSS e Jugoslavia, in quei giorni di fine dicembre 1991, tra dissesto socio-economico, ri-tradizionalizzazione, oppressione (nel caso jugoslavo, violenta) nazionalista autoritaria.
Sia Marković che Gorbaciov erano stati figli prediletti dei sistemi che in seguito sarebbero stati chiamati a trasformare. Ma mentre il sovietico giunse al potere relativamente giovane e con alle spalle una carriera interamente spesa nella politica, lo jugoslavo vi arrivò tardi, dopo un percorso da tecnico. Nato nel 1924, Marković si era unito ai partigiani nella guerra di liberazione: catturato dalla Gestapo, fu recluso nelle carceri sarajevesi di Beledija, dove subì torture. Fu ingegnere, e poi direttore, della Rade Končar, che portò a diventare uno dei giganti dell’elettro-tecnica jugoslava. Dopo i primi incarichi ai vertici della repubblica di Croazia negli anni ‘80, nel marzo 1989 Marković fu nominato premier federale. Ebbe il compito di stabilizzare un’economia allo sbando, con la disoccupazione in crescita costante e l’inflazione fuori controllo (nel corso dell’anno raggiunse le quattro cifre). Nel frattempo, le tensioni politiche tra autonomisti e centralisti, e le nascenti mobilitazioni nazionaliste, alzavano la temperatura sociale.
L’anno di Marković
Fu allora che Marković lanciò il celebre pacchetto di riforme, con due misure chiave: il dinaro convertibile, con cambio fisso di 7 a 1 con il marco tedesco; e un ciclo di liberalizzazioni, che prevedeva l’apertura ai capitali esteri e l’azionariato diffuso ai dipendenti. Quest’ultimo veniva presentata da Marković come un modo di salvare “il buono del socialismo”, cioè i diritti di proprietà dei lavoratori, in ideale continuità con il modello di autogestione.
I primi risultati furono incoraggianti. Entro l’aprile 1990 l’inflazione fu azzerata. Alcuni settori, in particolare nella classe media urbana, recuperarono dopo anni il loro potere d’acquisto. In un paese già in parte sovraeccitato dalla crisi politica, una strana euforia cominciò a diffondersi. Si aprirono migliaia di nuove attività, le pagine dei giornali si riempivano di pubblicità di nuove merci, stili, concorsi a premi. “Il respiro dell’era di Marković”, era lo slogan con cui una azienda di abbigliamento di Sarajevo reclamizzava i propri capi.
Molti racconti, pur parzialmente edulcorati per il contrasto con il prima della lunga recessione degli anni Ottanta, e il dopo dello sfacelo dei Novanta, restituiscono un’intensa e appassionata epopea consumistica. Gli scaffali si riempivano di merci importate, si re-intensificava il traffico verso Italia e Austria, mete dello shopping di giornata degli anni d’oro. Nell’immaginario collettivo restano aneddoti anche esilaranti. “Jebote, Antine godine hors bio džabaka” (“Cazzo, nell’anno di Markovic l’eroina costava due spicci”), esclama Brzi, il soldato tossicodipendente di Lepa sela lepo gore, il famoso film di Dragojević del 1996.
C’era però un’altra faccia della medaglia. La terapia shock di Marković implicava costi sociali alti, potenzialmente devastanti. I tagli ai salari furono draconiani e, come ebbe ad ammettere lo stesso premier, nel paese c’era un venti per cento di surplus di manodopera. I tempi della riconversione economica non sarebbero stati brevi, in particolare nell’industria pesante e manifatturiera, che conobbe un’ondata di fallimenti e licenziamenti di massa. Il premier confidava in due strumenti per assorbire gli esuberi: il sostegno degli investimenti esteri e la realizzazione di politiche sociali in ambito statale-federale.
Ma il primo non si verificò per lo scarso interesse da parte occidentale, che concentrava l’attenzione ai paesi dell’ex-oltrecortina (probabilmente uno degli []i cruciali di Marković fu l’eccessiva fiducia per l’aiuto straniero, in particolare quello degli Stati Uniti). Il secondo fu sabotato delle leadership sub-statali repubblicane, quella slovena, quella croata e, nonostante il suo auto-proclamarsi jugoslavista, anche quella serba di Milošević, per nulla disposte a concedere risorse e poteri alla sfera federale.
Anzi, furono proprio le repubbliche, Croazia e Serbia in primis, a fare saltare il modello di privatizzazione “dal basso” di Marković: dalla proprietà diffusa attraverso l’azionariato popolare, le repubbliche passarono a ri-nazionalizzare per poi ri-privatizzare le aziende, ma questa volta “dall’alto”, con gestione affidata alle nuove elites. Questo meccanismo, che Dallago e Uvalić hanno chiamato “nazionalismo distributivo”, è un fattore fondamentale per capire l’intero processo di dissoluzione della Jugoslavia.
Terza Jugoslavia
Molti sostengono che l’[]e principale di Ante Marković fu un approccio troppo tecnocratico alla crisi, basato sull’illusione che l’economia, da sola, avrebbe risolto le tensioni sociali e fatto prevalere le scelte razionali sulle emozioni identitarie. Questo è vero in parte, ma non del tutto. In verità, il premier si era accorto per tempo che servivano altri strumenti e si adoperò per attivarli.
Fu di Ante Marković l’iniziativa di creare Yutel, il primo canale pan-jugoslavo in un sistema radio-televisivo che vedeva solo emittenti di base repubblicana, spesso al soldo delle agende nazionaliste. Yutel non era un mero mezzo di contropropaganda, ma ambiva a ricostruire una sfera culturale plurale e pan-jugoslava, con alti standard professionali, esempio – e allo stesso tempo veicolo – di una Terza Jugoslavia democratizzata dentro un orizzonte europeo. Ma autorità repubblicane e soprattutto l’esercito federale, fedele a Milošević invece che al suo premier, ostacolarono e ritardarono il progetto di Yutel con ogni mezzo, requisendo più volte sedi e macchinari.
Sempre da Marković partì la proposta di una riforma costituzionale, che avrebbe permesso le elezioni per il parlamento jugoslavo entro il 1990, e conferito finalmente una legittimità democratica alla federazione. Ma anche questa venne affossata: significativamente, ciò avvenne per l’ostruzione congiunta di Slovenia e Serbia, che da posizioni del tutto opposte nella crisi, trovarono nel premier il comune avversario. In quel periodo, Marković fu oggetto di censure e campagne di discredito sistematiche. Ogni aspetto della sua identità (nato in Bosnia Erzegovina, famiglia croata, lavoro a Belgrado) poteva essere motivo di attacco. Nelle sue memorie, Borisav Jović, allora membro serbo della presidenza federale e braccio destro di Milošević, ammise di avere scritto, con pseudonimo e per conto del suo capo, una serie di articoli denigratori sul premier sul quotidiano belgradese Politika, con l’obiettivo di distruggerne la reputazione.
Infine, vi fu il tentativo elettorale. Nel luglio 1990 Marković fondò l’Alleanza delle Forze Riformiste (SRSJ), un movimento che sperava di sfruttare la popolarità personale (secondo diversi sondaggi, in quel periodo superava il 70%, con punte di oltre il 90% in Bosnia Erzegovina) e l’apparente entusiasmo per l’ideale jugoslavista democratico, con grandi aspettative soprattutto in Bosnia Erzegovina e Macedonia. Si formarono centinaia di comitati spontanei, ai quali aderirono figure illustri e attivisti motivati, ma anche opportunisti di ogni tipo (tra loro, anche un giovane Milorad Dodik). Nelle elezioni repubblicane dell’autunno 1990, la crescita della polarizzazione sociale aiutò i partiti nazionalisti, mentre le difficoltà organizzative e la leadership evanescente di un Marković troppo assorbito dall’incarico di governo, portarono lo SRSJ a un risultato deludente.
Quella sconfitta svuotò il progetto di Terza Jugoslavia e ridusse definitivamente la legittimità politica del premier. Marković rimase in carica ancora per un anno, ma con un ruolo meramente reattivo e di negoziatore, sempre meno influente, tra le repubbliche e la comunità internazionale. Non riuscì a evitare né le secessioni di Slovenia e Croazia, né gli interventi dell’esercito federale, né i piani di aggressione alla Bosnia Erzegovina, né il cronicizzarsi del conflitto a bassa intensità del Kosovo. Ogni parte in causa in questi conflitti lo avrebbe denunciato come traditore o come repressore. Ogni narrazione nazionalista, ancora oggi, esprime un giudizio negativo su di lui. “Ante Marković è come una cartina di tornasole. Milošević l’ha attaccato dal primo giorno, Tuđman l’ha attaccato dal primo giorno, così come la leadership slovena… Era uno jugoslavo sincero. […] La più ideale, e la più tragica, figura politica degli ultimi vent’anni della Jugoslavia”: così l’ha ricordato, in una recente iniziativa tenutasi al Muzej Jugoslavije di Belgrado, il sociologo Jovo Bakić .
Dopo le dimissioni da premier, Ante Marković si dedicò all’imprenditoria e si ritirò dalla vita pubblica. Prima della morte, avvenuta nel 2011, concesse solo una manciata di interviste, oltre alla deposizione come testimone dell’accusa nel processo dell’ICTY a Slobodan Milošević nel 2003. Nei racconti ufficiali e nelle tante pubblicazioni sulla dissoluzione, Marković è poco più di una comparsa. Ma nelle memorie di molti testimoni diretti di quell’epoca, occupa uno spazio decisamente più rilevante. Per alcuni rimane, comprensibilmente, una personificazione di tutti i fallimenti della transizione. Per altri rappresenta il ricordo di come le cose stavano andando, e soprattutto di come sarebbero potute andare, diversamente.
Dentro le varie forme di jugo-nostalgia, è giusto riconoscere anche una peculiare Ante-nostalgia, che glorifica il benessere effimero e parziale di quei mesi del 1990, proiettandolo fino al presente e immaginando che i negoziati per l’accordo di associazione di Belgrado all’allora Comunità Europea – che il governo Marković aveva avviato nel novembre 1989 – avrebbero potuto portare, dieci o quindici anni più tardi, ad una adesione piena nell’UE di una Jugoslavia democratica e pacificata, alla pari degli altri paesi centro-orientali. Nel web, da anni periodicamente riprende a circolare – con migliaia di condivisioni da tutto il mondo ex-jugoslavo, accompagnate da messaggi di affetto e nostalgia – una frase straordinariamente profetica e attuale, che Marković avrebbe pronunciato in un discorso al parlamento federale nel dicembre 1989 per scongiurare l’opposizione alle riforme: “Pagheremo gli []i con la povertà, l’avvelenamento dell’anima, il posto di periferia lontana dall’Europa”.