Armenia/Azerbaijan: dalla parte della pace, nonostante tutto

In Azerbaijan il trauma sul Nagorno Karabakh è fondante dell’identità nazionale, alimenta la guerra e zittisce le voci di pace. Ma chi la pace la vuole, non importa quanto sia difficile, deve provare compassione e accettare il trauma rimanendo fedele ai propri principi

05/10/2020, Bahruz Samadov -

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Immagine @ OC MEDIA

(Pubblicato originariamente da OC Media il 2 ottobre 2020)

La recente escalation del conflitto in Nagorno-Karabakh ha evidenziato con assoluta chiarezza il peso del trauma storico in Azerbaijan.

Una società divisa frazionata si è improvvisamente consolidata grazie al potere dell’azione militare. Il governo, l’opposizione e la maggioranza depoliticizzata sposano ora la stessa narrativa dominante, quella del dovere nazionale di riprendersi le terre andate perdute del paese. Nel frattempo, le voci che chiedono la pace, non sono mai state più emarginate.

Avevamo già avuto il preavviso di questo durante gli scontri al confine tra i due paesi del luglio scorso. Nell’immaginario dell’opinione pubblica azerbaijana l’Armenia è un nemico non certo forte, dipendente dalla Russia. Tuttavia, a luglio, i combattimenti con l’Armenia si conclusero con una grave perdita: venne ucciso il generale Polad Hashimov. Si è trattato della prima perdita di un ufficiale di grado così alto da quando è stato firmato il cessate il fuoco nel 1994.

Nonostante il giro di vite in atto contro l’opposizione e le severe regole legate al COVID-19 – con allontanamento sociale e limiti alle libertà civili – la notizia mandò su tutte le furie l’opinione pubblica dell’Azerbaijan. Nelle 24 ore successive alla morte di Hashimov, decine di migliaia di manifestanti si riversarono nel centro di Baku in una manifestazione a favore della guerra massiccia e senza precedenti.

Alcuni manifestanti irruppero anche nel parlamento azero, danneggiando alcuni arredi prima che la polizia li disperdesse. Si è trattato della manifestazione materiale del trauma che la perdita del Nagorno-Karabakh rappresenta per l’identità azerbaijana post-sovietica. L’intera identità nazionale del paese è stata costruita su questa perdita e, come tale, ogni escalation accende la speranza di un ritorno alle terre perdute.

Questa è la narrativa dominante alla base dell’Azerbaijan moderno.

La logica alla sua base è semplice: il Nagorno-Karabakh è stato da sempre parte dell’Azerbaijan e l’Armenia l’ha sottratto con l’aiuto della Russia. Secondo questa logica, una guerra per il Nagorno-Karabakh è necessariamente una guerra di liberazione e non, come la vedono gli attuali abitanti della regione, una guerra di occupazione.

Altre narrazioni, come la necessità di arrivare ad una soluzione pacifica del conflitto o della necessità di impostare un dialogo su lungo termine, sono state escluse dalla discussione pubblica e tacciate di essere inefficaci e ingannevoli. In particolare dopo che, nonostante il breve disgelo tra i due paesi avvenuto dopo la rivoluzione in Armenia del 2018, il conflitto si è nuovamente acutizzato con la visita del primo ministro armeno in Nagorno-Karabakh e la sua richiesta di unificazione tra Armenia e Nagorno-Karabakh.

Il monopolio della narrativa dominante ha implicato che, almeno psicologicamente, l’Azerbaijan fosse da tempo pronto per iniziare una guerra.

L’illusione dei negoziati di pace

A seguito delle schermaglie dello scorso luglio e delle zuffe, all’estero, tra azerbaijani ed armeni, è emersa una nuova iniziativa di pace: decine di azerbaijani e armeni progressisti, per lo più residenti nei paesi occidentali, hanno chiesto pace e dialogo. Non una novità assoluta, appelli di questo tenore vi erano già stati nel 2014.

In particolare, sia nel 2014 che nel 2019, gli appelli alla pace sono stati firmati principalmente da persone che vivevano al di fuori di Armenia e Azerbaijan. Hanno ottenuto poco e tale impotenza non dovrebbe sorprendere nessuno.

Queste iniziative sono sempre state invisibili in Azerbaijan. Questo è avvenuto anche per i progetti di pace mirati ai giovani, generalmente finanziati dalle istituzioni europee. Hanno coinvolto solo particolari gruppi di giovani, indubbiamente progressisti, e sempre le stesse persone, con determinate caratteristiche: parlavano inglese, di mentalità aperta e con una ben consolidata visione contro la guerra.

Le iniziative di pace e dialogo non sono mai riuscite a raggiungere un pubblico più vasto. E, molto probabilmente, non è mai stato un obiettivo degli organizzatori: avevano a che fare con un regime autoritario e, di conseguenza, hanno seguito un’agenda morbida e depoliticizzata, senza proposte concrete ed evitando una critica diretta della politica delle autorità.

Ad esempio uno di questi progetti ha proposto che i partecipanti inviassero lettere dall’altra parte – da un azerbaijano a un lettore che partecipava allo stesso progetto in Armenia e viceversa. Quando ho scorso i nomi dei mittenti, mi sono accorto di conoscerne la maggior parte personalmente.

Nonostante la raffica di lettere dei soliti sospetti, il presunto dovere "sacro" della nazione è rimasto questione indiscussa sia dall’opposizione che dalla società civile in generale. Questo perché tali progetti hanno raggiunto i loro obiettivi solo sulla carta e i loro messaggi sono rimasti inascoltati dal pubblico più ampio e piuttosto scettico del cittadino medio.

Negli anni scorsi quelli di noi che si battevano per la pace non erano consapevoli di quanto fosse ampio l’isolamento delle voci che chiedevano la pace. È stato solo dopo l’euforia nazionalistica esplosa durante e dopo gli scontri in Nagorno-Karabakh nell’aprile 2016 che siamo rimasti scioccati nel renderci conto di quanto fossimo isolati dal resto del paese.

Ma i pochi che hanno vissuto il 2016 e non si sono arresi ora sono più consapevoli. Non ci colpisce il fatto che l’opposizione ora sostenga apertamente il presidente, che in altre occasioni definivano un tiranno. Non siamo sorpresi che gli ex prigionieri politici e coloro che hanno subito violenze di stato ora esprimano la loro ammirazione per i recenti discorsi di Ilham Aliyev. Non siamo sorpresi di venire insultati dalla gente comune.

Pochi giorni fa qualcuno si è addirittura chiesto se persone come noi fossero o no nate da madre azera. Quanto avvenuto quattro anni fa ci mise in crisi: come è stato possibile, ci chiedemmo, che coloro che professano di sostenere i valori democratici cambiassero così facilmente i propri principi? Oggi è diverso, ora ci aspettiamo tutto questo e siamo pronti a sopportare un’estrema emarginazione ed esclusione – e lo faremo sino a che il nazionalismo letale che attanaglia i paesi di questo conflitto non avrà fine.

Il trauma è ancora con noi

Dopo l’annuncio di una parziale mobilitazione militare in Azerbaijan, lo scorso 27 settembre, i social network si sono riempiti di post che riecheggiavano le stesse due parole: "Nuovamente vivi".
Ma centinaia di coloro che sono nati dieci anni dopo l’inizio del conflitto non sono più tra noi. Doloroso è vedere gli elenchi con gli anni di nascita dei soldati rimasti uccisi: 1999, 2000, 2001.

A differenza del 2016, ora entrambe le parti in conflitto fanno del loro meglio per mostrare video sempre più scioccanti e i feed dei social media sono un susseguirsi infinito di immagini di morte. Anche se si cerca di evitarli, è impossibile farlo.

Tutti noi facciamo parte di comunità traumatizzate: ora siamo stati feriti di nuovo, i nostri vecchi traumi sono stati riaperti e nuovi ne vengono creati ogni giorno. È un circolo vizioso: il dolore del passato alimenta il dolore del presente e del futuro.

Questo trauma non può essere evitato. È reale e dobbiamo imparare a conviverci. Ma nonostante la sua realtà concreta, dobbiamo anche renderci conto che i nostri metodi attuali per affrontarlo non funzionano. La violenza alimenterà solo altra violenza. E un "dialogo" che è modellato dalla narrativa dominante e monopolizzato dalle autorità non porterà la pace tra le nostre comunità, almeno, non nel prossimo futuro.

Dobbiamo richiedere altre modalità. Non importa quanto sia difficile.

Inoltre, anche noi che ci opponiamo alla guerra dobbiamo essere pronti alla compassione. La sofferenza di entrambe le nazioni durerà a lungo. E dobbiamo comprendere la sofferenza delle nostre comunità e sostenerle, lavorando instancabilmente per la pace, anche se veniamo rifiutati.
Dobbiamo dimostrare compassione e pazienza e ricordare: il trauma rimane con noi.

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