La pace sulla rete

Il ruolo dei social media nella trasformazione e risoluzione dei conflitti. L’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione da parte di attivisti armeni e azeri, il dibattito nella regione

27/11/2009, Onnik James Krikorian - Yerevan

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Nei 15 anni trascorsi da quando un cessate il fuoco ha congelato il conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh, varie proposte di pace sono naufragate. Il primo presidente armeno fu persino costretto a dimettersi dai nazionalisti radicali presenti nel suo governo, contrari ad ogni tipo di compromesso, a causa di voci su di un progetto di pace. Negli ultimi anni, tuttavia, l’ostacolo principale è stato rappresentato dall’opinione pubblica.

L’utilizzo di una retorica bellicosa contro gli armeni è diventata ormai un fatto quotidiano in Azerbaijan, e recentemente ha addirittura toccato una cosa banale come l’Eurovision. In Armenia, d’altro canto, le forze politiche di entrambi gli schieramenti hanno cercato di sfruttare il conflitto a proprio vantaggio, per mantenere il potere o per conquistarlo. Intanto i media locali continuano a perpetuare stereotipi negativi del "nemico", mentre la propaganda e la disinformazione hanno affossato quel poco di dibattito genuino che ancora esisteva.

Le nuove generazioni di armeni e azeri non riescono neppure a ricordare il tempo in cui i due popoli vivevano in pace l’uno accanto all’altro, talvolta perfino con matrimoni misti. Nelle società post-sovietiche, in cui la tolleranza e il pensiero critico indipendente sono scoraggiati, di solito per giustificare sistemi di governo antidemocratici, la retorica nazionalistica diventa infatti sempre più efficace. Alcuni arrivano a considerare posizioni moderate o alternative sulla guerra come un tradimento.

È vero, armeni e azeri si sono incontrati in congressi internazionali, gruppi di lavoro ed altri contesti volti a promuovere la pace e la stabilità regionale, ma nessuna di queste iniziative apparentemente ha avuto alcun effetto nel migliorare le relazioni tra i due Paesi. I critici arrivano a sostenere che è il processo stesso di risoluzione del conflitto ad essere viziato a priori. Ciò che serve prima di tutto, sostengono, è una trasformazione del conflitto.

Perfino i forum su Internet, inizialmente creati per facilitare la comunicazione e il dialogo tra le due parti, hanno quasi sempre finito per essere una prosecuzione del conflitto su un nuovo, anche se virtuale, campo di battaglia.

Eppure, nonostante i rischi, la crescente popolarità di siti come Facebook, e di altri strumenti per esprimere le proprie opinioni, come i blog, offre nuove potenzialità ai social media e altri strumenti online per riempire il vuoto di informazione. Benché questi strumenti non siano in sé sufficienti a raggiungere il fine, potrebbero avere un potenziale significativo come parte integrante di altre iniziative più tradizionali per la trasformazione, gestione e risoluzione del conflitto.

"Questi nuovi strumenti possono essere impiegati per fomentare la violenza così come per promuovere la pace", ha scritto quest’anno Ivan Sigal, direttore di Global Voices Online, in una ricerca ("Digital media in conflict-prone societies") redatta per il Centro per l’assistenza internazionale ai media (CIMA). "Tuttavia è possibile creare sistemi di comunicazione che incoraggino il dialogo e le soluzioni politiche non violente", ha aggiunto l’ex ricercatore sui media civici presso l’Istituto per la pace statunitense.

Micael Bogar, project manager al Centro per i social media dell’American University, concorda, ma sostiene che molti di quanti lavorano nel campo della risoluzione dei conflitti continuano a non essere interessati ad utilizzare strumenti a basso costo o a costo zero, neppure se questi si dimostrassero più efficaci di ciò che esiste attualmente. E, dato che i finanziatori internazionali non sono generalmente interessati ad iniziative a basso costo, le ONG possono anche ricevere sovvenzioni maggiori per attività che risultano essere poco efficaci o insostenibili.

Ciò nonostante, quelli che si rendono conto che costruire la fiducia e creare amicizie sono processi che devono avvenire su base regolare, possono usare strumenti come Facebook e Skype per evitare linee telefoniche intercettate, attraversare i confini dei cessate il fuoco e le frontiere chiuse prima e specialmente dopo gli incontri veri e propri.

"Io penso che questo non si può fare unicamente attraverso gli strumenti dei social media", afferma la Bogar, "ma, come abbiamo visto negli ultimi 15 anni, di certo non si può fare neppure semplicemente incontrandosi ogni estate a Tbilisi per un fine settimana. Così diventa un ‘intrattenimento’. Io stessa ho avuto esperienza personale di questi convegni in Georgia che sono solo una grande pausa caffè e uno spreco di soldi. Penso che entrambi gli approcci combinati insieme, però, potrebbero produrre una spinta in avanti".

La Bogar è comunque cauta, ritenendo che gran parte della società civile che è attualmente impegnata nelle iniziative di peace building non prenda seriamente questo lavoro. Quelli che davvero lavorano per costruire la pace hanno un carattere radicale, diverso dagli altri, sostiene. "Io penso che quando in un attivista o in un operatore per la risoluzione dei conflitti sono presenti questi elementi fondamentali, la naturale conseguenza è quella di entrare nei social media", sostiene la Bogar.

"Quanto a quelli che non li utilizzano, o sono più vecchi e inconsapevoli della loro esistenza, oppure semplicemente non sono interessati ad utilizzare strumenti a basso costo quando possono ricevere grandi sovvenzioni continuando a fare quello che fanno".

Certo, i nuovi approcci sono anche rischiosi, specialmente in Azerbaijan, dove molti cittadini non vogliono che si sappia che sono in contatto con degli armeni, ma il potenziale c’è. Dopo mesi di limitati contatti online, per esempio, un recente meeting tra teenager armeni, americani e azeri negli Stati Uniti ha evidenziato i problemi, ma la program manager di Dotcom, Elizabeth Metraux, sostiene che ci sono anche motivi di speranza.

Il progetto, gestito dalla PH International, utilizza i media civici per riunire i partecipanti in un progetto di blog online. I partecipanti si incontrano solo periodicamente.

"Ho avuto momenti in cui pensavo che non avrebbe mai funzionato. Certe volte pensi semplicemente che non c’è modo che questi studenti riescano a trovare un accordo", ammette la Metraux. Inevitabilmente, quando stai realizzando un programma come questo, e le mie precedenti esperienze sono state con israeliani e palestinesi, sei sempre ottimista sul fatto che gli studenti troveranno una comunanza di interessi. Poi però qualcuno dice una qualche cosa che subito diventa esplosiva."

"È stato molto doloroso, ma alla fine sono riusciti a tirarsene fuori", continua. "Abbiamo iniziato con studenti che non si guardavano neppure negli occhi, ma alla fine si abbracciavano o si scambiavano gli indirizzi e-mail. Questo è stato un momento davvero incoraggiante. Certo, il mio ottimismo si è stemperato nel rendermi conto che questi sono giovani che tra poco andranno al fronte."

"I leader parlano tra di loro, ma Dio non voglia che lo faccia anche la gente!", conclude ironicamente la Metraux.

Negli ultimi mesi, un imprevisto catalizzatore del riavvicinamento è stato rappresentato dall’arresto e dalla successiva incarcerazione degli attivisti e video blogger Adnan Hajizade e Emin Milli in Azerbaijan. La loro causa è stata sostenuta anche da un piccolo numero di armeni nella repubblica, come pure da alcuni della diaspora, tradizionalmente più nazionalista. Facebook e Twitter sono stati i principali metodi usati per diffondere le informazioni.

I giovani armeni e azeri potevano finalmente guardare gli uni nelle vite degli altri e, in molti casi, si rendevano conto di non essere dopo tutto così diversi.

Con la sua esperienza nell’istruire giovani attivisti armeni, azeri e georgiani ad utilizzare gli strumenti dei nuovi media, il Segretario generale della Federazione internazionale della gioventù liberale (IFLRY), Bart Woord, riconosce il potenziale, ma aggiunge anche parole di cautela. Simili strumenti possono anche essere usati in modo inefficace e scorretto, sostiene, e anche per accrescere le tensioni esistenti da parte di quanti si oppongono alla pace e alla riconciliazione.

"Gli strumenti offerti dai nuovi media aiuteranno certamente la gente a conoscersi reciprocamente meglio, ma allo stesso tempo possono anche essere usati per riaffermare i pregiudizi esistenti. Provate a cercare su Internet nei siti armeni e azeri, e troverete un mucchio di spazzatura e di discorsi veramente dannosi sui siti nazionalisti", sostiene. "Io sono moderatamente ottimista, ma allo stesso tempo penso anche che dovremmo essere molto cauti riguardo a quello che troviamo su Internet".

Il tempo ci dirà se chi è coinvolto nelle iniziative di peace building e di risoluzione del conflitto sposterà almeno parte delle proprie attività online, ma per ora, mentre alcuni attivisti per la pace – come ad esempio Georgi Vanyan in Armenia – sono molto aperti nelle loro attività dentro e fuori Internet, altri non lo sono. Molti infatti negano l’accesso ai giornalisti e rifiutano qualsiasi copertura da parte dei media indipendenti, preferendo tenere tutto segreto e mantenendo strettamente sotto controllo tutte le informazioni.

Ci sono anche altri problemi

"Personalmente io credo che sia possibile", sostiene Arzu Geybullayeva, analista regionale e corrispondente di Osservatorio dall’Azerbaijan. "È un’impresa difficile, anche perché si hanno come referenti solo un certo gruppo di persone. Bisognerebbe comunicare anche con quelli che non hanno accesso a Internet. Che dire infatti delle masse – quelli che non hanno un accesso alla rete né l’opportunità di incontrarsi, parlare, imparare e esplorare? Sì, può giocare un ruolo, ma deve essere più ampiamente disponibile".

Ciò nonostante, col crescere della penetrazione di Internet e specialmente dell’accesso alle reti di telefonia mobile nella regione, i social network e gli strumenti dei nuovi media offrono un’opportunità per cambiare la situazione. Per questo la Geybullayeva è ottimista.

"Mi piacerebbe molto vedere un maggior dibattito tra i bloggers in Armenia e Azerbaijan," aggiunge. "C’è proprio bisogno di un qualche tipo di iniziativa al riguardo, perché mi piacerebbe davvero vedere i confini aperti e il conflitto risolto. Mia madre dice che quando lei andava a scuola, tra i suoi amici c’erano degli armeni. Mi piacerebbe molto che i miei figli, quando saranno grandi, potessero dire qualcosa di simile ai loro figli e ai loro amici".

*Onnik Krikorian interverrà sul ruolo dei nuovi media e dei social media nella risoluzione dei conflitti nell’ambito del convegno E-Society I Media, che si terrà a Skopje, Macedonia, il 2 e 3 dicembre. Insieme ad Arzu Geybullayeva sarà correlatore sullo stesso tema al convegno Social Media for Social Change a Tbilisi, Georgia, nell’aprile dell’anno prossimo.

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