Albania | | Cultura, Società civile
L’altrimenti e l’altrove
"La nostra voglia di altrove era equiparabile alla nostra voglia di altrimenti". I giovani studenti albanesi, dalla vigilia della caduta del regime all’esodo di massa. Un’intervista con lo scrittore Ron Kubati
Ron Kubati, scrittore e giornalista albanese, è nato a Tirana nel 1971. Dal 1991 vive in Italia, dove si è trasferito partecipando all’esodo di massa dei giovani albanesi verso le coste italiane avvenuto subito dopo l’apertura dell’Albania all’estero. Il crollo del regime lo trova studente universitario nella capitale albanese, tra le manifestazioni e l’atmosfera ambigua che regnava nell’Albania di fine regime. Partecipa al movimento studentesco, nato nel dicembre 1990, facendosi testimone dell’attivismo giovanile di quel periodo mosso dagli slogan "Vogliamo un’Albania europea" e "Libertà e democrazia". Quelle vicende si sono tradotte in tematiche per alcuni dei suoi libri. I suoi romanzi, scritti in italiano, hanno ottenuto diversi riconoscimenti letterari in Italia.
Alla fine degli anni ’80 lei studiava all’università di Tirana. Come si viveva in Albania in quel periodo?
Dal punto di vista economico la situazione era catastrofica. L’Albania all’epoca era comparabile con i paesi africani. Tutto era razionato, il numero delle vitamine, delle proteine, ecc. Dal punto di vista politico il comunismo aveva commesso un []e strutturale: aveva cioé investito nella formazione della nuova generazione, molto più istruita e qualificata rispetto alle generazioni precedenti. Era una generazione che riusciva a vedere anche oltre la dittatura, avendo altri canoni culturali, e altre tendenze anche di tipo ideologico.
Come nasce il movimento studentesco di quegli anni?
Nonostante la situazione politica, nella generazione dei giovani di quegli anni si era formata una convinzione che la distingueva dalle generazioni precedenti e che faceva sì che i giovani non si riconoscessero più nei valori precedenti. La dittatura in quegli anni era sempre più debole. Si era creata una sorta di borghesia – la classe che deteneva il potere – che in quel momento politico curava solo i propri interessi economici e di conservazione del potere. Il resto del paese giaceva nella povertà assoluta.
In quelle circostanze, buona parte di coloro che iniziavano a manifestare il proprio dissenso nei confronti della dittatura non lo faceva denunciando i crimini del regime, ma più che altro denunciando la difficilissima situazione economica del paese. E’ venuto a maturarsi un odio profondo nei confronti della classe politica al governo, basato prevalentemente su motivi economici e non su una coscienza politica dei giovani. Per buona parte di quella generazione, si può dire senza riserva che la coscienza politica non si era ancora formata a sufficienza.
Nel 1989 crolla il muro di Berlino, come è stato accolto questo in Albania? Si era riusciti a prevedere la fine del regime?
Con la morte di Enver Hoxha, nell’85, ci aspettavamo che qualcosa cambiasse. Forse nessuno mirava a un vero e proprio crollo del regime, che rimaneva un sogno, ma almeno si sperava in una sua attenuazione. Quando Ramiz Alia ha preso il potere, dopo la morte del dittatore, molti hanno proiettato le proprie speranze su di lui. In realtà, alla fine degli anni ’80, si è verificata una certa apertura. Tutto avveniva molto lentamente e in modo molto goffo. Ma si sapeva che qualcosa stava cambiando.
Poi prende piede il movimento studentesco e si inizia a manifestare in piazza…
Noi ci aspettavamo grandi cambiamenti, ma tutto avveniva molto gradualmente. Nel gennaio del ’90 si vociferava che su piazza Skanderbeg si sarebbe organizzata una manifestazione. E mi ricordo che siamo usciti tutti, disorganizzati, ognuno fingendo di andare a fare una passeggiata per il boulevard principale della capitale come se fosse la passeggiata di routine quotidiana. Ci sono stati diversi arresti. Poi iniziavano a circolare delle notizie molto strane, qualcosa era successo a Scutari, poi a Kavaja, ma non si riusciva mai a sapere se le cose succedevano davvero o meno. Nell’estate del ’90 c’è stata la crisi delle ambasciate. La gente si rifugiava dentro le ambasciate per poter scappare dal proprio paese. Inizialmente questo è stato accolto in silenzio, ma poi il Partito Comunista ha portato su piazza Skanderbeg migliaia di persone, dalle campagne, per manifestare in solidarietà alla Lega dei comunisti albanesi. Io mi sono infiltrato in quella manifestazione insieme a qualche amico, sperando di vedere se la manifestazione sarebbe stata fischiata, in segno di dissenso. Ciò non è successo. E’ stata una grande delusione.
Vi informavate solo seguendo i media stranieri?
Sì, in quei tempi ascoltavamo molto Voice of America e guardavamo le televisioni italiane. Avevamo delle radio a batterie, le uniche che c’erano, di tipo Iliria, e le portavamo in spiaggia a Durazzo, di pomeriggio, quando non c’era più nessuno, e lì cercavamo di sintonizzarci sulle stazioni radiofoniche straniere per informarci su quanto ci stava accadendo. Speravamo che tutto sarebbe cambiato. La tv albanese cercava di continuare con la retorica di sempre. Ma gradualmente iniziavano a vedersi interviste ai futuri leader politici albanesi. Un altro segnale che ci era sembrato molto importante era la partenza di Ismail Kadaré, che in quell’anno si è trasferito a Parigi. Quella si è tradotta in un’ulteriore spinta. La stessa televisione albanese ha trasmesso la notizia con grande eco. Decisamente una novità: una personalità di spicco della nostra cultura aveva lasciato il paese. E questo era successo solo pochi mesi prima del movimento di dicembre.
Come nasce il movimento di dicembre?
Nell’estate di quell’anno (1990) Tirana era molto calma. Si vociferava che qualcosa doveva succedere quando nella città universitaria sarebbero rientrati gli studenti. E in dicembre sono iniziate le manifestazioni di questi ultimi. Poi alle manifestazioni sempre più spesso si univano anche i cittadini di Tirana. I primi giorni la polizia reagiva molto aggressivamente. Ricordo che una volta ci siamo dovuti nascondere negli appartamenti privati dei condomini lungo le strade per non farci prendere e picchiare dalla polizia.
Dopo però è partito verso l’Italia. Ha lasciato l’Albania come molti altri studenti di dicembre, di cui solo pochissimi hanno continuato a fare politica nell’Albania postcomunista…
Ho trattato questo argomento nel mio primo romanzo. Ci ho riflettuto a lungo. Durante le nostre manifestazioni, prima dello sciopero della fame del febbraio 1991, capitava che la mattina andavamo a protestare nella città universitaria, o programmavamo le manifestazioni in piazza Skanderbeg, mentre si spargeva la voce che a Durazzo stavano arrivando i traghetti e potevamo partire.
Senza articolare bene le idee, spesso molti di noi andavano alle manifestazioni la mattina, e il pomeriggio cercavano di scappare all’estero. Era molto diffusa questa doppia tendenza. Dal punto di vista emotivo equiparavamo questi due aspetti. E’ un fenomeno che io definisco con le categorie dell’"altrimenti "e dell’ "altrove".
La nostra voglia di altrove era equiparabile alla nostra voglia di altrimenti. Il sentimento dell’altrove era forse più forte dell’altrimenti perché il primo era più facile, più raggiungibile, mente l’altrimenti sarebbe stato il risultato di un processo di manifestazioni e proteste molto lungo che non si sapeva bene quando sarebbe finito e dove ci avrebbe portato. Era comico, quando si parlava tra amici, ognuno di noi aveva le proprie idee sull’itinerario da seguire per lasciare l’Albania. Intanto programmavamo di fare lo sciopero della fame, e qualcuno chiedeva: ma ce la facciamo a finire lo sciopero in 3-4 giorni perché poi dobbiamo partire? Quindi si cercava di combinare tutto.
Come iniziano gli esodi di massa di cui si vede protagonista proprio la sua generazione?
In qualche modo l’opinione monolitica, secondo cui l’Albania era il miglior paese al mondo, si era completamente capovolta. Il regime cercava di convincere tutti sul fatto che l’Albania era una sorta di paradiso, e che fuori c’era l’inferno capitalista. Negli ultimi anni del regime tutto era cambiato, e ormai la gente credeva che l’inferno fosse in Albania, e fuori ci fosse il paradiso. Addirittura alcuni sono entrati nelle ambasciate senza prima vedere quali ambasciate fossero. C’è stato chi è entrato nelle ambasciate francese, tedesca, o italiana, ma alcuni sono persino entrati nell’ambasciata cubana.
C’era un immaginario comune fatto di estremi. Su questo è venuta a formarsi una coscienza culturale diffusa, che è culminata con l’esodo di massa. Erano degli anni in cui tutti cercavano di emigrare. Era la prima opportunità di aprirsi al mondo, che ci era stata data dopo lunghi decenni, e noi abbiamo deciso di scappare. Ovviamente in questo modo è emigrata una parte dei giovani che avrebbero potuto contribuire enormemente al progresso dell’Albania postcomunista.