Il muro, le mura

Nel 1989 Fatos Lubonja era in carcere, come prigioniero politico. Ha vissuto lì le prime notizie su quanto succedeva nell’Europa dell’Est. E all’inizio sembrava che ciò che stava accadendo non avrebbe avuto alcuna conseguenza in Albania. Un’intervista

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Fatos Lubonja

Dalle carceri di Enver Hoxha, alla crisi delle piramidi. Dall’infanzia passata tra le forti contraddizioni dell’intellighenzia albanese, alla solitudine intellettuale patita nella nuova Albania. Fatos Lubonja, premio Moravia nel 2002, è tra i più lucidi intellettuali albanesi nell’analizzare la realtà sociale e politica del suo paese.
Quali sono state le reazioni in Albania al momento del crollo del muro di Berlino?
Il crollo del muro veniva visto con scetticismo in carcere, e in tutta l’Albania direi. Perché tutta l’Albania dopo la rottura con il campo dell’est, era stata costruita con l’idea che noi non avremmo preso la via del revisionismo. Ritenevamo impossibile che una reazione a catena dopo il crollo del muro potesse coinvolgere anche l’Albania. C’era anche speranza, certo, ma prevaleva lo scetticismo. Si pensava che l’Albania sarebbe diventata un po’ come Cuba. Perché anche l’Albania era come Cuba: isolata. Non eravamo ancora convinti che sarebbe successo quello che poi è successo nel ’91. Abbiamo iniziato a percepire un po’ l’impatto nel ’90, quando in carcere la situazione iniziava a cambiare in meglio. Hanno messo dei letti migliori, e ci hanno trasferito dal carcere di Burrel, nell’aprile del ’90. Lì abbiamo capito che qualcosa succedeva, e l’Albania non era così isolata.
Quali le aspettative quando si sono notati i primi cambiamenti?

Su questo un aneddoto. Nel periodo in cui si faceva un gran parlare degli UFO uno scienziato statunitense affermava: se davvero un giorno verranno gli alieni si capirà subito che sono venuti. In carcere era così. Tutti speravano che qualcosa sarebbe cambiato, qualcosa sarebbe successo. Ma era un po’ come la storia degli UFO. Si è capito subito quando è avvenuto davvero.
Sotto quali spinte è avvenuto il crollo del regime?
Non si sa bene neanche oggi, nei dettagli. Quel che ha determinato il crollo del regime è stato il suo crollo economico. Il paese non poteva sopravvivere. Negli anni ’80 l’Albania era ridotta male, era rimasta isolata dopo la rottura con la Cina nel ’79. Anche in carcere sapevamo cosa succedeva. Tutto era razionato ma si pensava che il regime fosse politicamente così forte da poter sopravvivere. Non è stato così. C’è stata probabilmente una coincidenza tra il crollo economico e quello che è avvenuto nei paesi dell’Est.
Come ha trovato l’Albania una volta uscito dal carcere?
Il regime è crollato negli anni ’90. Hanno iniziato a scarcerare la gente. Io sono uscito il 17 marzo del ’91, con l’ultimo gruppo dei prigionieri politici. Ma non è che in carcere non sapessimo cosa fosse l’Albania. Nel Re Lear di Shakespeare c’è un passaggio in cui si dice: andiamo in carcere a vedere cosa succede nel paese.

Una volta uscito dalla prigione ho trovato alloggio presso la casa di mio nonno costruita nel ’25. Una casa di un piano, di tre stanze, in cui abitavano mio zio, mio padre appena tornato dalla deportazione, con mia madre, nel corridoio mio fratello con la moglie e due figli, e poi sono arrivato io che non potevo che sistemarmi nel sotterraneo, insieme alla mia ex moglie e alle nostre due figlie. Si viveva nella miseria, ma c’erano grandi speranze. Si viveva ancora nell’isolamento, quindi si viveva molto anche di sogni. La gente progettava come andare in Italia, negli Stati Uniti, per iniziare una nuova vita. C’era un gran entusiasmo.

E lei come ha vissuto il dilemma dell’emigrare o meno, che in quegli anni caratterizzava in massa gli albanesi?
Io non ho mai pensato o progettato di lasciare l’Albania. Per ragioni legate al mio passato. Pensavo di aver un posto nel mio paese. Dare un senso alla mia vita in quel paese. Questa è stata la mia filosofia. Ho iniziato a scrivere, a seguire quel che succedeva, a lottare per i diritti dell’uomo.
Negli anni ’90 si è verificato un accanimento politico e culturale contro il comunismo. Lei come valuta questo fenomeno?
Quando si parla di comunismo lo si fa con due accezioni diverse. Significati legati ad una storia divisa, tra l’Europa occidentale e quella orientale. In Albania il comunismo era un sistema che ha provocato molti abusi. In Albania di specifico rispetto ad altri paesi c’è stato che quel sentimento anti-comunista era molto diffuso tra la gente.

Ma poi il paradosso: i campioni dell’anti-comunismo sono stati gente come Berisha, un ex-comunista. Questo ha dato poca credibilità alla lotta contro gli abusi del comunismo. L’anticomunismo è diventato piuttosto uno strumento di potere. E’ stato strumentalizzato.

Il nostro regime è stato più duro e più isolato di tutti gli altri. Ha esercitato una pressante lotta di classe. Tutti quelli che non erano comunisti ed erano nemici del comunismo erano considerati come nemico di classe e non hanno avuto la possibilità ad esempio di continuare gli studi.

Al crollo del regime vi era quindi uno strato sociale, quello perseguitato, che aveva la credibilità morale per guidare l’Albania ma non aveva gli strumenti intellettuali adeguati. Era gente isolata, deportata, gente che è stata in prigione fino al ’90, 91. Mancava quindi la dissidenza illuminata, che potesse fare un anti-comunismo diverso.

E’ arrivato un anticomunismo con metodi comunisti, bolscevichi. La cultura che aveva Berisha era comunista, totalitaria, chiusa, incapace di dialogare. Quindi ha cominciato a eliminare i suoi rivali e il mondo migliore è stato dichiararli comunisti.
Si sono rimossi anche i simboli del recente passato…
In questi anni si è cercato di rimuovere ogni traccia del regime. Le opere social-realiste sono state rimosse dal Museo Nazionale di Tirana, si è discusso a lungo se rimuovere o meno lo stesso mosaico della facciata del Museo, e solo poche settimane fa il monumento ai 5 eroi di Vig, partigiani a Scutari, è stato rimpiazzato da una fontana…

Ma non solo questo. Non vi è ad esempio nulla che ricordi le prigioni e i detenuti politici durante il regime. Le prigioni sono state distrutte. Sono stato a Spaç di recente. E’ il luogo dove era situato un carcere e una miniera, ed era l’unico posto in Europa mi sembra dove i detenuti nel Dopoguerra lavoravano in miniera. Non si intende trasformarlo in un luogo di pellegrinaggio, anche per i giovani. L’ultima volta che ci sono stato ho incontrato un ingegnere che accompagnava dei turchi per iniziare a fare scavi per mettere di nuovo in funzione la miniera. Si cerca solo il denaro, non la storia.

Dall’altro lato gli ex comunisti che sono arrivati al potere dal ’97 al 2005, hanno avuto atteggiamenti ambigui nei confronti del passato perché erano diretti discendenti di coloro che avevano commesso dei crimini. L’Albania è anche un paese clanico e non è facile che i figli condannino il padre. Il padre è il patriarca, l’identità del clan.

Veniva condannato in astratto il regime, Enver Hoxha, ma non è stato fatto nulla in concreto per ricordare quell’Albania e per far riflettere la gente. La cosa che più mi colpisce ora è che la società non ha l’introspezione necessaria per avviare un processo di rielaborazione di quanto avvenuto: la gente non si sente responsabile, proietta la responsabilità verso l’altro, verso il sistema e non c’è un processo di auto-riflessione sulla responsabilità di ciascuno.
Cos’ha portato di positivo il crollo del muro?
Di positivo ha portato sicuramente il crollo del regime. Il crollo del muro era anche il crollo dell’isolamento, anche se io rimango scettico perché l’isolamento culturale comunque rimane. Ma non si può paragonare con l’isolamento politico di allora. Nonostante tutto si sono aperte diverse vie di scambio di idee, contatti umani.
Cosa pensava quegli anni della disintegrazione della Jugoslavia?
Ho avuto un processo di riflessione sulla disintegrazione della Jugoslavia che è continuato negli anni. All’inizio molti di noi vedevano la disintegrazione della Jugoslavia come conseguenza del fallimento del comunismo, come qualcosa che era legata anche con la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Dato che era uno stato costruito sulla dittatura, la disintegrazione, la formazione di diversi stati, veniva vista come una liberazione da una dittatura. Con uno spirito anticolonialista. Non sono mai stato un nazionalista. Ma lo vedevo come un fenomeno normale di liberazione.

Dall’altro lato, dopo tutto questo tempo, ora che ci penso, anche dopo tutto quel che è successo, penso che anche con l’aiuto europeo la Jugoslavia si doveva mantenere in piedi e nello stesso tempo si doveva costruire un paese democratico senza predomini, senza nazionalismi. Non so se era possibile. Le élite che stavano lì hanno fallito. Hanno abbandonato la Jugoslavia, non sono riuscite a costruire una nuova Jugoslavia. Perché erano in minoranza e invece la maggioranza era saldamente in mano ai nazionalisti, qualche volta ex-comunisti convertiti in nazionalisti che per mantenere il potere hanno spezzato quel paese e creato tutte quelle tragedie.
L’Europa è più forte ora rispetto a quegli anni?
L’Europa dell’89 era più forte rispetto a quello che è ora. Non perché fosse forte in sé, ma perché la fiducia in quel progetto era più forte. Oggi c’è molta sfiducia nei confronti dell’integrazione di altri paesi. All’epoca aveva più credibilità.
E l’Albania di oggi? A vent’anni dal crollo del muro come guarda al proprio futuro?
Quel che ho detto per l’Europa vale per un certo senso anche per l’Albania. All’inizio degli anni ’90 il paese era messo male. Uno che viene oggi in Albania non può non notare i cambiamenti, la gente è tranquilla, non è più pronta a prendere le armi o le navi per scappare.

Questo è vero ma nello stesso tempo è anche vero che siamo depressi. Due sono i motivi. In primo luogo in quel periodo c’era una grande speranza in cambiamenti rapidi. Di trovare presto un proprio posto in questo paese. Mentre oggi, si sta certo meglio, ma c’è la sensazione che questa è l’Albania, e questa sarà anche in futuro con la classe politica corrotta che si ritrova.

In secondo luogo ciò che deprime è che il sistema che si è costruito non è una democrazia, ma vi è un’aristocrazia mentre gli altri sono schiavi che lavorano per la casta. E’ un sistema che si trova anche in Italia o negli Stati Uniti. Ma in un paese come l’Albania – e generalmente nei paesi dell’est – direi che è molto più forte perché ci sono meno mezzi per liberarsi di esso.

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