Gëzim Hajdari, poeta migrante
”Farsi chiamare poeta migrante è un onore, un privilegio, perché significa non metterti sullo stesso piano di Baricco, per esempio. Tutti i grandi poeti sono stati dei migranti… perché liberandosi della nazionalità raggiungevano altre dimensioni, valori universali, altrimenti sarebbero rimasti provinciali”. Un’intervista
L’intervista è stata pubblicata anche sul numero di gennaio dal mensile culturale del giornale Bota Shqiptare
Gëzim Hajdari, classe ’57, è considerato tra i maggiori poeti viventi contemporanei. Nato nei pressi di Lushnja nell’Albania meridionale, vive a Frosinone dal ’93. Scrive in italiano e in albanese. Con una poesia libera tratta i temi dell’esilio, della solitudine e del viaggio, ma anche dei suoi rapporti con le culture tra cui si trova a vivere. Ha ricevuto numerosi premi italiani e internazionali, e le sue poesie sono tradotte in diverse lingue.
Lei ha iniziato a scrivere poesie già durante i regime. Come venivano accolte allora?
Ho iniziato a scrivere molto presto, già ai tempi del liceo, ma il mio primo libro sono riuscito a pubblicarlo solo un mese prima del crollo ufficiale del regime. Era la raccolta "Antologia della pioggia" . Naturalmente è stato un percorso gremito di problemi politici, censura, mancanza di libertà. L’avevo preparato per la pubblicazione nell’85 ma non era possibile pubblicarlo perché non vi erano poesie che cantassero la gloria del partito, il ruolo del partito, il socialismo ecc. Per pubblicarlo mi chiedevano di modificare non poche cose. Non andava a genio nemmeno il titolo "Antologia della pioggia". Il direttore della casa editrice Naim Frashëri mi diceva che sembrava simboleggiare l’antologia delle lacrime, che era in contraddizione con le conquiste del partito comunista e del socialismo in Albania.
Come è successo che si è trasferito in Italia?
Io sono arrivato in Italia nel ’93, poiché in Albania avevo ricevuto minacce di morte. Facevo politica, ero tra i primi esponenti del Partito repubblicano e sono anche stato un candidato al parlamento nel ’92. Scrivevo sul giornale Republika, in cui denunciavo i crimini della politica, ma anche gli abusi del regime post-comunista albanese. Di conseguenza sono stato costretto ad allontanarmi da un’Albania che non era riuscita a cambiare radicalmente. Penso non ci sia riuscita tuttora. 18 anni dopo la caduta del comunismo in Albania non c’è la volontà di cambiare questa situazione. A capo del paese sta sempre la stessa classe politica, che fino a ieri ha condannato, imprigionato e impiccato i loro oppositori politici. Oggi loro sono deputati, ministri, attaché culturali. L’utopia del socialismo reale oggi si chiama democrazia. Nonostante siano passati quasi 20 anni non si vedono ancora le nuove generazioni.
Nonostante la sua grande delusione, c’è molta Albania nelle sue poesie…
Sì, certo, diversamente da quanto si legge nei giornali, la mia poesia non è italiana, è un intreccio di culture, come usavano fare anche i grandi umanisti. L’Albania fa parte di me perché fa parte del mio corpo, del mio cervello, della mia parola. Ma questo non dev’essere confuso con l’essere nazionalista. Io non sono un nazionalista, e non si deve essere nazionalisti. Noi siamo portatori della nostra cultura, ma dobbiamo riuscire a essere sia albanesi sia cittadini del mondo. Bisogna rispettare i nostri confini, la patria, ma bisogna anche superarli e oltrepassarli. Non entreremo a fare parte della grande famiglia europea solo come albanesi ma anche come cittadini del mondo. Il nazionalismo che mirava a formare le nazioni, ha fatto il suo tempo da un pezzo, ciò che rimane oggi è patetico e mette gli uomini uno contro l’altro. Non comporta nulla di buono né per l’economia né per la cultura. Bisogna rispettare i confini e le bandiere ma bisogna plasmare un’identità aperta e tollerante, pacifica, che vada bene per tutti.
Nelle sue poesie si percepisce in una dimensione molto universalista dell’Albania, tra la Darsia, il suo paese natale, la natura e i suoi elementi molto vivi… Sono elementi molto originali che difficilmente si trovano nella poesia albanese contemporanea…
Sono un simbolo, parte del mio paese, che lo trasformano in un tema universale, del legame con con il proprio Paese, con le proprie radici, con i legami emozionali, con il paese in cui ho trascorso buona parte della mia vita. Gli elementi della natura il mio scopo è stato recuperare gli elementi mistici del legame tra noi e il cosmo, la natura. E’ un elemento che mi affascina molto e che ho scoperto presso i mistici arabi.
La poesia albanese dopo la caduta del comunismo presenta una produzione abnorme, sono centinaia i giovani albanesi che scrivono soprattutto poesia. Lei segue questo fenomeno?
Non credo si possa fare poesia nascendo e morendo a Tirana, passeggiando da un blocco di palazzi all’altro, dal lago artificiale alla sede del governo… La poesia si deve spogliare dai legami nazionali, e deve spiccare il volo, superare i limiti che comporta la dimensione nazionale. Il tempo porterà nuove tendenze. Per il momento mi sembra che i lunghi anni dell’isolamento e delle direttive del comunismo hanno lasciato un retaggio molto negativo ed è difficile sbarazzarsene in così poco tempo.
Lei afferma spesso che in Albania tuttora vigono i principi del realismo socialista. Negli ultimi anni sono stati fatti innumerevoli sforzi per ribellarsi al realismo socialista…
La cultura albanese, in Albania e all’estero, continua a offrire gli pseudo-miti del realismo socialista, come simboli della letteratura moderna albanese. Molti scrittori addirittura vengono presentati come grandi difensori dei diritti umani, mentre tutti sanno che si tratta di gente che fino a ieri ha composto i poemi più maestosi della lotta di classe. Si tratta degli artisti di Enver Hoxha, che non hanno fatto nulla contro il sacrifico di ben 146 intellettuali per mano del regime. Gli artisti di Hoxha, nel bene e nel male, sono entrati nella storia e ci devono rimanere. Ma non si deve continuare a considerarli come valori assoluti, perché così la cultura albanese viene denigrata e non viene lasciato spazio alle novità che emergono.
Nelle sue poesie si nota molto di frequente il rancore verso l’Albania che non si cura della cultura albanese prodotta fuori dai suoi confini, nonostante si tratti di un fenomeno sempre più consolidato…
Sì, è così. Questo avviene perché io non canto dell’Albania di oggi, canto di qualcosa di mitico, di un’Albania come l’avrei voluta io. Come la sognavano gli umanisti albanesi. L’Albania della libertà di parola, della legalità, della democrazia, della gente onesta che rispetta il prossimo. L’Albania tutto sommato è stata costruita dai migranti, quelli che hanno vissuto in esilio. Quelli che hanno vissuto a Tirana, hanno cantato solo di Tirana e non ne hanno ricavato nulla di rilevante.
Lei viene considerato un poeta migrante, trova giusta questa definizione?
Sì certo. Farsi chiamare poeta migrante è un grande onore, è un privilegio, perché significa non metterti sullo stesso piano di Baricco, per esempio. E’ un grande onore perché tutti i mistici grandi poeti sono stati dei migranti. Erano tali perché si liberavano della nazionalità, e raggiungevano altre dimensioni, valori universali, altrimenti sarebbero rimasti provinciali. In Albania uno si definisce poeta perché ha pubblicato un libricino e qualche poesia, ma essere scrittore e poeta significa conoscere il mondo, oltrepassare le dimensioni e i limiti del paese da cui si proviene. La poesia migrante è qualcosa che si muove, che si trasforma, è albanese ma anche universale, appartiene al mondo non solo all’Albania, non può che essere molto ricca. Ma è un titolo che va acquisito, non tutti lo possono diventare, perché vuol dire creare valori, poesie che parlano a popoli diversi, insegna l’arte del dialogo ai popoli, insegna a tutti a essere stranieri e migranti in questo mondo per capirsi.
Come vive tra due lingue, e due paesi?
Scrivere in due lingue è uno stimolo in più, è la liberazione definitiva. Significa misurarsi con il mondo, senza però dimenticare la lingua materna, "il parlare materno" come diceva Dante. Per me è stato uno sforzo sovrumano, trovandomi costretto ad abbandonare il mio paese, dovendo affrontare lavori massacranti, per poi seguire gli studi universitari, scrivere sia in albanese che in italiano, e fare tutto questo con il peso della pessima immagine dell’Albania, senza il minimo sostegno dello Stato albanese… Ma c’era anche una ragione pragmatica. In Italia vivono 500 mila albanesi ma nessuno legge i miei libri, tutti i miei lettori sono europei e di diversi paesi del mondo, ma non sono albanesi. Quindi avendo bisogno di lettori, ho dovuto iniziare a scrivere in italiano. La seconda e la terza generazione degli albanesi inizierà sicuramente ad occuparsi di cultura e di identità, i loro genitori sono troppo occupati a dispensare alla sopravvivenza materiale. Non poca responsabilità è da attribuire allo stato albanese, che non è stato in grado di costituire un istituto di cultura in Italia. In Albania il mio scrivere in italiano in molti mi hanno chiamato traditore e nemico della cultura albanese. Bisogna educare la gente alla tolleranza. Nei Balcani sono nati gli dei, i miti, è un luogo fatalista, patria dei despoti e dei misteri, e si continua tuttora a soffrire di malattie puerili come il nazionalismo. Ma l’Albania c’è anche nel mio stile, in cui tra l’altro cerco di seguire i principi dell’epica albanese, in alternativa alla poesia minimalista occidentale. Spesso gli scrittori albanesi in Italia scrivono come gli italiani, quelli in Francia come i francesi. Invece sarebbe molto meglio se un poeta albanese scrivesse come un balcanico, intrecciando le culture, ma apportando il suo carattere.