Arte e censura
Il cinema come la letteratura, un modo per esprimere la propria arte nonostante i vincoli imposti dalla censura. Un’intervista a Bashkim Shehu, noto sceneggiatore albanese e figlio dell’ex primo ministro Mehmet Shehu
Bashkim Shehu, nato a Tirana nel 1955, ha studiato lettere alla Facoltà di Filologia dell’Università di Tirana. Nel 1979 inizia a lavorare al Kinostudio come sceneggiatore. Nel 1982 finisce in carcere dopo il suicidio del padre (dicembre 1981), l’ex primo ministro albanese Mehmet Shehu. Ora vive a Barcellona.
Quando ha fatto il suo ingresso nel mondo del cinema?
Stavo per finire gli studi, e pensavo a dove potevo andare a lavorare. Ho avuto due proposte, da un giornalista del "Zeri i Popullit" e dal Kinostudio. Un’amica del Kinostudio mi ha proposto di lavorare come sceneggiatore, e io ho accettato perché mi piaceva la cinematografia. Il mio interesse primario era la letteratura, ed essendo la cinematografia un settore vicino alla letteratura, ho pensato fosse uno dei lavori più adatti.
Qual era l’importanza del cinema al tempo? Era più una scuola di educazione, propaganda, o ideologia?
Era propaganda, in misura considerevole. Per la gente era divertimento, spettacolo, anche se era ideologico. Il teatro, la scultura, la pittura, la cinematografia, tutte queste espressioni d’arte erano danneggiate dai canoni del realismo socialista, molto più che la letteratura. In particolare il teatro, perché era spettacolo ma anche pensiero, dialogo. Il teatro ha una relazione più forte con la libertà politica, come il cinema, che è stato molto influenzato dalla censura. In sostanza la censura esisteva, sì, ma l’arte non mancava.
Come era il rapporto tra la passione di fare cinema e i limiti che venivano imposti?
Difficile dirlo, bisognava sempre trovare un compromesso tra il proprio impulso e la censura. Il meccanismo della censura era molto rigido per il cinema, più che per la letteratura, così spesso si era costretti ad amputare le proprie idee.
Un film, prima di essere presentato al pubblico, veniva visto dalla leadership…
Esistevano stadi diversi. Si faceva la prima visione davanti al collettivo, e se ne discuteva. Poi si passava al consiglio artistico, costituito da persone del Kinostudio e del ministero della Cultura. Se veniva promosso, dopo le critiche, le proposte di cambiamento e di modifica, passava al vaglio di una commissione dal Ministero della Cultura. Dopo veniva proiettato nel Bllok (il quartiere dove abitavano i dirigenti di partito, ndr): il film veniva visto dai membri del Politburo. Il giudizio principale veniva dal vice-primo ministro e poi dal segretario del Comitato centrale per la cultura. Ovviamente, se Enver Hoxha diceva qualcosa tutto si ridimensionava. Era sempre il partito che dava il sì definitivo.
Quali erano i temi preferiti della cinematografia di quel tempo?
Il tema della guerra ha sempre dominato. Negli anni ’70, secondo i criteri sanciti allora, venivano scelti anche i cosiddetti "temi di attualità" e "temi del giorno". Era una divisione fatta da Nexhmije Hoxha: i temi del giorno trattavano gli eventi principali del momento, mentre con attualità si faceva riferimento a grandi tematiche che conservavano la loro importanza negli anni. Anche il tema storico veniva scelto spesso.
Qual era il modello della cinematografia albanese?
Prima di tutto il cinema sovietico. I registi più importanti hanno studiato in Unione Sovietica; Esenstein, Pudovkin, erano dei classici del cinema. Poi negli anni ’60 e ’70 si prendeva come modello il neorealismo italiano, più dal punto di vista estetico che del contenuto, perché qui non c’era la funzione sociale del cinema. In un autore albanese si possono trovare anche elementi felliniani. Forse, in una dose minima, anche il cinema cinese era un modello, ma più per propaganda e schematismo.
Come veniva recepito il neorealismo italiano?
I film italiani sono stati trasmessi perché mostravano la povertà del sistema capitalistico, come nella letteratura nel caso del realismo critico.
Possiamo parlare di un carattere nazionale del cinema albanese, che lo distingue dagli altri?
Non credo nell’idea del carattere nazionale. Ci sono state diverse scuole: quella sovietica, quella italiana, francese e americana. L’Albania, ovviamente, ha subito l’influenza di scuole diverse, ma il carattere del cinema albanese si può vedere solo nella realtà che descrive, non nel linguaggio cinematografico.
Perché in Albania si guardano ancora i vecchi film? Si tratta forse di nostalgia?
Può essere nostalgia, forse della gioventù passata. A mio avviso c’è stata una promozione esagerata di quel cinema, che dimostra, tra l’altro, anche una grande povertà creativa. Comunque, è interessante vedere i vecchi film, analizzarli…
Come venivano promossi i film a quel tempo?
Venivano pubblicati solamente degli articoli sul giornale "Drita" (della Lega degli Scrittori), poi alla fine degli anni ’70 è uscita anche una rivista del ministero della Cultura "La scena e lo schermo", sul teatro e la cinematografia. Pochissimi, invece, gli articoli sulle teorie del cinema.
Quali erano i valori del cinema di quel tempo?
Il cinema era un’esperienza professionale. Nella metà degli anni ’70 Enver Hoxha ha emanato una direttiva secondo la quale i film stranieri dovevano essere rimpiazzati dai film albanesi; così, durante il periodo di isolamento, la produzione domestica ha prevalso, e quindi il Kinostudio è arrivato a produrre fino a 14 film all’anno.