Scrive: Giuseppe Ivan Candela*
Trenta diversi luoghi per le performance artistiche, 324 rappresentazioni e 68 spettacoli. Ventitre paesi coinvolti e 16 lingue parlate. Sono i numeri del "Napoli Teatro Festival Italia", che dal 4 al 28 giugno ha coinvolto il capoluogo campano per la sua terza edizione.
Fra le tante attività in programma, negli spazi del Museo Madre, "Corpus. Arte In Azione", una rassegna di otto performance di alcuni fra i maggiori artisti italiani e internazionali. Grazie agli stretti legami esistenti tra i curatori della rassegna napoletana e l’Istituto Italiano di Cultura di Belgrado, 2 artisti provenienti dalla capitale serba (entrambi per la prima volta nella città partenopea) hanno partecipato all’iniziativa.
Quando negli anni novanta Milica Tomic raggiungeva la ribalta internazionale con "I am Milica Tomic" (un’analisi sulla natura delle identità nazionali), un giovanissimo Gabrijel Savic Ra iniziava ad interessarsi di arte e a partecipare attivamente alle intense manifestazioni anti-Milosevic. Artista eclettico, cultore del paganesimo (Il suo nome Ra dà "chiare" indicazioni in proposito), figlio di genitori hippy provenienti dalla profonda provincia rurale serba, laureato in filosofia, Gabrijel Savic Ra si è sempre espresso attraverso diversi media: performance, video, pittura, installazione, musica. Le sue azioni sono spesso focalizzate sul corpo umano – sulle pressioni cui esso è sottoposto dalla società, sul dolore, sulla sofferenza – non di rado innervate su motivazioni di carattere politico ed esistenziale che l’hanno portato ad essere indicato come "persona non grata" da diversi gruppi nazionalisti serbi, oltre a tutta una serie di denunce, arresti e minacce subite. A Napoli ha presentato "Balkan Opera – Final Act", una performance divisa in quattro differenti atti, durante i quali l’artista, tappa dopo tappa, mette in scena in maniera metaforica la mattanza della guerra dei Balcani, "esplorando la relazione tra performer e pubblico, i limiti del corpo e le possibilità della mente".
La ricerca di Milica Tomic si focalizza invece sui complessi legami fra il trauma della disgregazione dell’ex Jugoslavia e l’incertezza sulle identità dell’oggi – individuali, collettive e, soprattutto, etniche. Al "Napoli Teatro Festival" ha presentato "Story of the Eye", una performance ipertestuale che si sviluppa su vari livelli e utilizza diversi media. Tomic trae spunto dall’assunto di Bataille, una sintesi indissolubile di dolore estremo che si tramuta in piacere, per mettere in scena la testimonianza di una donna bosniaca stuprata e torturata durante la guerra nell’ex Jugoslavia.
"L’arte è soprattutto comunicazione ed invenzione e la cosa più importante in quanto artista è l’essere liberi di dichiarare, sapendo cosa dichiarare". Mi accoglie così, nel suo atelier con vista sul Danubio, Milica Tomic, tra le artiste serbe più note sulla scena internazionale, di cui diviene assidua frequentatrice dopo aver completato i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado agli inizi degli anni ottanta, in un periodo "in cui l’arte svolgeva in pieno la sua funzione conservatrice, nel senso di mantenimento dello status quo esistente". È questo il suo background artistico, oltre al fatto di aver vissuto in una famiglia di artisti sempre "alla ricerca di spazi liberi in cui poter consumare arte, in cui poter condividere pensieri e azioni".
"Ho iniziato a procurarmi tagli e ferite corporee in seguito alla folgorazione avuta per l’opera di Marina Abramovic", ci racconta Savic Ra, "e agli studi di psicologia e psichiatria su tutte quelle persone che si auto-flagellano, che si procurano dolori, non solo artisti, ma anche persone comuni. Ho raggiunto la consapevolezza dell’utilizzo del mio corpo, sentendo i dolori e conoscendone i limiti, per poter immedesimarmi nelle sofferenze altrui. La mia sopportazione del dolore mi aiuta a percepire in maniera diretta le sofferenze patite nelle guerre che hanno insanguinato i Balcani. Il fine ultimo di tutto ciò è di indagare le relazioni esistenti tra l’arte e la società contemporanea".
Quindi può l’arte definirsi uno strumento di cambiamento sociale?
Gabrjiel Savic Ra: Assolutamente si! L’artista, mai come in questo periodo storico, ha la necessità di essere quanto più coinvolto possibile in ogni singolo aspetto della vita, superando le frontiere e i recinti imposti dalla società. Sino a quando le persone continueranno a vedersi come separate da tutto ciò che li circonda sarà più semplice ridurli a una completa schiavitù. La manipolazione sociale, infatti, indotta dalla generazione della paura e della divisione, ha completamente distaccato le persone dalla loro personale idea di potere e di realtà: la religione, il patriottismo, la razza, il benessere, la moda e ogni altra forma di identificazione separatista e arbitraria, tutto questo è servito a creare una popolazione controllata, del tutto malleabile, nelle mani di poche persone, qui nei Balcani come ancor più nel resto del mondo. Uno dei più grandi []i degli artisti è quello di ritenere terminata la propria funzione, il proprio lavoro, una volta terminata la performance. La performance non finisce quanto termina la rappresentazione, ma il vero "lavoro" inizia soprattutto subito dopo, con l’interazione con pubblico dando e raccogliendo feedback, comunicando sentimenti, azioni e reazioni. Ritengo di primaria importanza la funzione "sociale" dell’artista come "trasmettitore" di idee, come stimolo a ragionare, ad attivare ed esprimere il proprio pensiero critico in quanto "animale pubblico". Ma prima bisognerebbe superare il tipico approccio elitario all’arte.
Milica Tomic: Non sono troppo convinta di questa visione dell’arte come "tool" per cambiare il mondo. L’arte già cambia il mondo nella sua essenza primaria, in ogni momento, mi sembra un pleonasmo definire l’arte come mezzo di cambiamento sociale, è una visione limitata e limitante. Casomai bisognerebbe parlare di metodi dell’arte di ottenere cambiamenti sociali.
A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dieci anni dal bombardamento NATO sulla Serbia, ritenete ci siano stati questi cambiamenti? E quanto l’arte ha influito in tutto ciò?
MT: Permettimi di ricordare che sono passati anche vent’anni dall’assassinio di 33 persone di origine albanese uccise dopo la revoca dell’autonomia del Kosovo da parte di Slobodan Milosevic, che segnò l’inizio della furia omicida che devastò l’intera regione balcanica a partire da quell’anno. Purtroppo non si potrà parlare di cambiamenti sociali positivi, fino a quando non ci sarà una rielaborazione comune dei lutti, senza alcuna distinzione di razza o cultura. La maggior parte delle persone invece è restia all’indagine e alla ricerca di questa "verità comune" e i mezzi di informazione, ora come venti anni fa, non aiutano questo processo. Quando scoppiò la guerra in Bosnia, io andai via da qui, per più di un anno, nonostante amassi questa città e, almeno inizialmente, ero convinta di tornare, sicura che attraverso una partecipazione attiva alla vita politica ed elettorale si potesse fare qualcosa per cambiare la situazione. Purtroppo non è stato cosi. I cambiamenti avvenuti, sui quali l’arte ha potuto fare ben poco, sono sempre stati imposti dall’alto.
GSR: Gli equilibri di potere sono sicuramente cambiati rispetto a 10 o 20 anni fa ma, spesso, cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. L’arte non è mai stata la base del potere, la società forse lo è stata un tempo, l’economia e l’informazione continuano ad esserlo invece.
Entrambi esponete per la prima volta a Napoli, rappresentanti di una scena artistica definita dai più "balcanica". Esiste realmente questa scena? O magari sarebbe più semplice da "identificare" una scena artistica di Belgrado?
MT: Io penso che il concetto di "balcanico" oltre che non realista sia totalmente arcaico. In genere ci si riferisce alla ex Repubblica Socialista, al secolo scorso, nonostante credo che sia un concetto che vada in dietro nel tempo fino all’impero ottomano. L’unica cosa che mi viene in mente, parlando di Balcani è l’impero ottomano. Per quanto riguarda una presunta "scena artistica balcanica", credo che dopo l’arte concettuale jugoslava degli anni settanta, non ci sia stato più nulla riconducibile a questo. Il sistema artistico occidentale, negli ultimi dieci anni, ha voluto vedere tutti i paesi nati dalla dissoluzione della repubblica socialista, come una scena unica, univoca, nonostante poi in realtà sia una rappresentazione forzata di quello che succede singolarmente all’interno di questi paesi. L’arte per me è soprattutto autodeterminazione. Se invece mi chiedi della scena artistica locale, mi viene in mente il questionario che facemmo girare tra i rappresentanti della "scena artistica di Belgrado", dove chiedevamo cosa ne pensassero di quanto successo all’inaugurazione di una retrospettiva di giovani artisti albanesi a Belgrado (dal titolo "Exception") nel febbraio del 2008, alla quale partecipai come organizzatrice dell’evento inaugurale, bloccata con la forza da un gruppo di estremisti. Paradossalmente, le risposte date a quei quesiti sono state molto simili a quelle date dai nazionalisti che avevano reso impossibile l’evento: "I tempi non sono ancora maturi", "le opere presentate sono mediocri", "il periodo scelto per la mostra non è dei migliori". La chiusura forzata di quella mostra fu una cosa inconcepibile dal mio punto di vista (il fatto che non fosse possibile trasmettere delle emozioni facendo arte contemporanea).
GRS: Nonostante credo sia eccessivo parlare di una vera e propria "scena balcanica", non si può negare l’esistenza di rapporti molto stretti tra le varie scene locali delle più grandi città balcaniche. Penso a Belgrado (città alla quale mi sento legato da un rapporto viscerale), Sarajevo, Novi Sad, Zagabria, Skopije, tutte città dove ho esposto, in cui esistono realtà culturali molto radicate bendisposte a collaborazioni che vadano oltre i confini nazionali. Proprio per questo, nel 2005 ho fondato con altri colleghi un gruppo artistico chiamato "Corpus Artisticum", specializzato nell’organizzazione di workshop e nella promozione di un network mondiale fatto di collaborazioni e scambi di esperienze. Uno degli obiettivi che cerco di pormi nel mio lavoro, infatti, è proprio quello di partire dalle ovvie differenze esistenti in ogni contesto, per poi valorizzarne le peculiarità e le potenzialità, prescindendo dalla mera appartenenza nazionale, cercando di ristabilire un "equilibrio tra le diversità". L’associazione per cui un artista debba rappresentare una nazione la sento molto limitante. Come in ogni cosa però, anche qui c’è l’altro lato della medaglia: a Timisoara, nel 2007, ho preso parte ad un progetto che prevedeva un periodo di residenza condiviso con artisti provenienti dalla maggior parte dei paesi dell’area balcanica sui temi di "Media, Arte ed Uguaglianza di Genere" rivelatosi un totale insuccesso a causa della mancanza di volontà di costruire una reale riflessione su quanto accaduto in passato e su quanto stava accadendo in quel momento. Tutti troppo impegnati nell’usufruire dei privilegi collegati al loro status di "artisti balcanici".
Per finire, continuando sulla questione dell’appartenenza, sarei curioso di sapere cosa rappresenti, per una persona cresciuta in una regione passata attraverso cosi tanti stravolgimenti politici, il concetto di identità.
GSR: Premesso che non mi è mai piaciuta l’idea secondo cui un artista debba rappresentare una nazione, qualche tempo fa ero in Croazia per una esibizione e mi venne chiesto come si sente un serbo in una tipica città croata. "Ma in base a cosa è possibile valutare l’appartenenza nazionale?" chiesi alla giornalista. I miei genitori mi hanno concepito qui, proprio in questa terra. Non so come si valuta la nazionalità ma se prendiamo per buono quanto successo allora io potrei sentirmi anche croato. Non mi è mai piaciuto autodeterminarmi attraverso categorie nazionali, religiose o etniche. Riesco a farlo solo definendomi un essere umano che usa la sua mente per creare qualcosa, sia essa arte o altro. Poco importa.
MT: Il fatto di aver vissuto lontano da Belgrado, negli anni della guerra, mi ha dato la possibilità di osservare come un’identità (in questo caso nazionale) sia creata e di imparare che anche la più intima scelta personale è in realtà una decisione politica, di potere politico. Quando per esempio devi decidere in quale scuola mandare i tuoi figli, anche quella è una decisione politica. Si è costretti a definire una appartenenza politica, nazionale, identitaria che dovrà poi essere ridefinita e rimarcata nel corso degli anni. Pur non facendo parte di alcuna scena artistica di Belgrado e pur non essendo una jugonostalgica, sento molto la mia appartenenza ad un concetto vicino a quello della Repubblica Socialista Jugoslava. Durante l’era di Tito infatti, era molto più semplice sentirsi jugoslavo che serbo. Fino a quando, sul finire degli anni ottanta, ci venne richiesto di decidere quale identità nazionale assumere. Per me vissuta nell’epoca in cui si aveva un passaporto comune che garantiva la libertà di movimento, tutto questo, insieme allo scoppio della guerra in Bosnia, fu un grande shock che mi ha poi portato a interrogarmi sulle modalità reali di definizione della identità nazionale. Sul come una identità possa essere costruita e "fomentata" dal nulla. Sul fatto che ogni decisione presa, anche la più intima, ha sempre una motivazione "politica".
*Ufficio della Cooperazione Italiana a Belgrado