La Serbia conta
Una pubblicazione Nomos/Samizdat per sostenere che un rapido percorso di integrazione europea è la soluzione migliore non solo per Belgrado, ma anche per i Balcani e l’Europa. Con contributi di Florian Bieber, Vladimir Gligorov, Tim Judah, Ivan Krastev, Wolfgang Petritsch, Sabrina Ramet e altri
Di: Matteo Tacconi
Il titolo, Serbia matters (Srbija je važna, la dice lunga. Dice che quando si pensa ai Balcani si pensa necessariamente, inevitabilmente e doverosamente alla Serbia. Del resto non c’è questione – dal Kosovo alle prospettive di integrazione nell’Ue, dalla sicurezza energetica alla cooperazione tra i paesi dell’area – che non passi per Belgrado. Di più: la soluzione di questi nodi non può avvenire senza tenere conto del peso della Serbia. È questo il motivo per cui la Serbia conta. Serbia matters, appunto.
È questa la tesi esposta nell’omonimo volume dato recentemente alle stampe dall’editore tedesco Nomos, e curato dal Center for European Integration Strategies (CEIS) di Ginevra, think-tank che promuove da tempo una riflessione articolata e profonda sull’universo balcanico. Sotto la "regia" dell’ex Alto rappresentante in Bosnia Erzegovina e inviato speciale dell’Ue in Kosovo Wolfgang Petritsch, del segretario generale del CEIS Christophe Solioz e di Goran Svilanović, ex ministro degli Esteri serbo, il terzetto di editor che ha curato il libro, un nutrito drappello di analisti, esperti e osservatori ha tracciato una radiografia della "questione serba", analizzandone il versante politico, diplomatico ed economico.
I 26 contributi di cui si compone il volume, diviso in tre sezioni (Serbia in Europe, Nation and State: Past and Present e Serbia and its Economic Challenges Today), mandano un messaggio chiaro a due destinatari: Bruxelles e Belgrado. Entrambe sono tenute a fare di più. Bruxelles ha decelerato da tempo, infatti, sull’integrazione dei Balcani nell’Unione. La situazione è statica. L’Unione europea, già bloccata al suo interno dell’annosa questione del Trattato di Lisbona, ha perso slancio anche verso l’esterno. Quando all’ordine del giorno ci sono i Balcani, Bruxelles sembra volersi voltare dall’altra parte o, se decide di fare qualcosa, lo fa spesso in maniera iniqua (vedi la questione delle liberalizzazioni sul regime dei visti, che hanno "ghettizzato" bosgnacchi, albanesi dell’Albania e albanesi del Kosovo). La conseguenza di questo atteggiamento è il blocco dei processi di riforma nei paesi dei Balcani occidentali. Anche loro, d’altronde, hanno alcune responsabilità. Sebbene aspirino a un futuro nell’Unione, sebbene le rispettive leadership politiche configurino con insistenza questo scenario, ognuna delle capitali della regione ha problemi che non riesce a risolvere sulla strada che porta a Bruxelles.
Quelli della Serbia sono diversi. C’è il Kosovo, innanzitutto. C’è il fatto che Belgrado continua a seguire la strategia che ha portato l’attuale presidente Tadić a vincere le elezioni nel 2008 sotto la doppia promessa dell’Europa e del Kosovo. I due obiettivi non possono essere complementari. Prima o poi, insomma, dovrà arrivare il momento in cui la Serbia dovrà rinunciare al Kosovo. Tuttavia, qualcosa di positivo da segnalare, a riguardo di questo "conflitto congelato", c’è. Come nota Tim Judah – a lui è affidato il saggio d’apertura Is the Good News Old News? – nessuno dei problemi paventati prima e dopo l’indipendenza del febbraio 2008 s’è materializzato: i serbi del Kosovo non sono emigrati, non ci sono state violenze rilevanti né l’effetto domino in Montenegro, Bosnia Erzegovina e Macedonia. Questo non significa che le cose vanno bene, ma almeno i panorami apocalittici tratteggiati l’anno scorso sono stati smentiti dai fatti.
Altra spina nel fianco di Belgrado: la cooperazione con il Tribunale dell’Aja. Con la cattura di Karadžić i serbi hanno messo a segno un punto a loro favore, ma Mladić resta latitante e l’impressione è che si potrebbe fare di più per consegnarlo alla giustizia e che Belgrado, tentennando su questo versante, abbia impedito, in passato, che l’avvicinamento all’Europa diventasse irreversibile. Recuperare sarà dura, ma è possibile.
Un tallone d’Achille riguarda poi l’orientamento internazionale. Belgrado, negli ultimi tempi, s’è avvicinata alla Russia, intrecciando legami energetici sempre più stretti con Mosca e modellando così una politica estera bifronte, di "equivicinanza" – con la Russia e con l’Ue – che non rafforza la prospettiva europea.
Altro tema è quello delle minoranze, e in particolare la situazione nella valle di Preševo, a maggioranza albanese, in Sangiaccato, in parte in Vojvodina e la condizione più in generale della popolazione rom. Su questi fronti, in apparenza di minore importanza, la Serbia si gioca una fetta importante del proprio futuro. Stimolare e favorire la coesistenza e la convivenza, magari in un quadro federalizzato, può avere ricadute importanti su tutta la regione. Perché potrebbe sbloccare la situazione anche in Bosnia Erzegovina, Macedonia e Montenegro. Sta a Belgrado sbilanciarsi e sfruttare questa occasione, così da favorire, su scala regionale, una dinamica capace di recuperare il valore della grande ricchezza delle culture presenti nell’area balcanica, innescando un circolo virtuoso.
Infine, l’economia. La crisi mondiale ha messo a nudo le carenze serbe, denunciando come il paese sia vulnerabile agli shock esterni e non abbia una struttura economica solida. Come superare questo problema? La soluzione è duplice: potenziare la stabilità politica e rafforzare gli strumenti legislativi. Cosa che favorirebbe, tra l’altro, anche la prospettiva d’integrazione nell’Ue.
Con questo si torna al punto di partenza, alle responsabilità europee e a quelle della Serbia. All’Ue che non sa più spendersi per i Balcani e a Belgrado che non preme con decisione il pedale dell’acceleratore, continuando a tenere a debita distanza l’Europa. Entrambe sono tenute a scrollarsi di dosso incertezze, ritrosie e diffidenze. Perché l’Europa senza i Balcani è un corpo mutilato e i Balcani senza la Serbia lo stesso. È questa la lezione di Serbia matters.