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Umanitario: continuare la guerra o pensare la pace?
Sacche gialle dal cielo. Così, gli stessi aerei che scaricano ordigni di morte diventano i nuovi attori dell’intervento umanitario…
Domani a Trento l’incontro organizzato dall’Osservatorio per riflettere sull’intervento della società civile nel sud est Europa in questi ultimi dieci anni. Sempre domani la pubblicazione con il quotidiano L’Adige di un inserto per ricordare le tragedie che hanno dilaniato l’ex-Jugoslavia e l’operato delle realtà trentine nei Balcani. Michele Nardelli, nell’introduzione a quest’ultimo, riflette sul tragico accostamento dei concetti di guerra ed umanità. Alla luce di quanto ciò ha rappresentato non solo in Croazia, Bosnia, Kossovo, Serbia, ma anche nei recentissimi avvenimenti in Afghanistan.
Sacche gialle dal cielo. Così, gli stessi aerei che scaricano ordigni di morte diventano i nuovi attori dell’intervento umanitario. Dolcetto o scherzetto? Come nel gioco della notte di Halloween, i ragazzi afgani o iracheni, serbi o ceceni, scrutando il cielo non sapranno fino all’ultimo se quelle cose gialle saranno bombe o aiuti alimentari.
La moderna guerra umanitaria, l’assurdo ossimoro che quotidianamente siamo costretti a sentire da un’informazione anch’essa piegata dagli eventi (e dalla scarsa attitudine alla criticità) a partecipare al gioco manicheo del "o con me, o contro di me", getta un’ombra su tutto ciò che va sotto l’aggettivo "umanitario".
Qualcosa di simile era accaduto anche nei primi anni ’90 quando l’affaire Somalia e l’assassinio di Ilaria Alpi e di Milan Hrovatin resero inservibile il concetto stesso di cooperazione. Cooperazione e intervento umanitario, al pari di tante altre parole infangate dagli orrori della storia, oggi sembrano diventate impronunciabili. E non solo per effetto delle mistificazioni delle moderne dottrine militari, ma anche perché le modalità di tanta cooperazione hanno via via indossato i panni della "guerra con altri mezzi", dell’invasività e dell’insostenibilità, lasciando dietro di sé macerie di altro tipo, trasferendo le categorie dell’intervento militare sul terreno della solidarietà e della cooperazione. Insomma, gli aiuti dal cielo sono diventati la moderna metafora della guerra detta umanitaria, prepotentemente entrata a far parte della nostra quotidiana normalità.
Guardiamoci dai conti correnti televisivi, laddove con troppa disinvoltura si chiama alle armi e alla solidarietà. E cerchiamo di capire che si può agire nei conflitti per farli evolvere in forme nonviolente. Preventivamente, ciascuno di noi, senza essere né eroi, né martiri, persone normali con le nostre paure e le nostre incoerenze. Questo ci ha insegnato l’ex Jugoslavia.
Un’umanità straordinaria, migliaia di persone che in forma assolutamente gratuita hanno messo in gioco le proprie sensibilità, il proprio tempo e molto spesso anche il proprio denaro per portare un messaggio di speranza. Attorno alla "guerra dei dieci anni" si sono sperimentate forme nuove di cooperazione internazionale, nel rapporto fra comunità, nell’abitare i conflitti senza dividere fra buoni e cattivi, nel mettersi in mezzo e – così facendo – mettendo in discussione se stessi, la nostra capacità di incontrare ed ascoltare l’altro da noi, ma anche di leggere il presente con le lenti dell’interdipendenza.
Il concetto stesso di cooperazione decentrata nasce in questo contesto, nelle centinaia di enti locali e di organizzazioni di volontariato che attraverso gli affidi a distanza, i gemellaggi, i programmi di sviluppo locale hanno inventato un modo diverso di intendere la diplomazia, di fare cooperazione e di vivere la globalizzazione.
E però… Riflettere su questa straordinaria esperienza di solidarietà non può impedirci di vedere quanto l’idea della cooperazione come allungamento delle operazioni militari, quella calata dall’alto ed incapace di progettare sostenibilità, abbia spesso condizionato o emarginato, talvolta stravolto o corrotto lo straordinario potenziale che proprio attorno alla tragedia jugoslava si era espresso nel saper delineare nuove ed efficaci modalità di cooperare. Ovvero di operare insieme e dunque indicando una progettualità capace di rendere protagonisti gli attori locali, di valorizzare culture e saperi del posto, di agire sulle risorse endogene e ricostruire le capacità, infrante sotto i colpi delle guerre e delle pulizie etniche, prima ancora o insieme alle cose materiali, nella consapevolezza che è più semplice ricostruire una casa che mettere mano alle cause che hanno portato alla sua distruzione.
Quante volte ci si è davvero interrogati sulla sostenibilità degli aiuti o degli interventi? Quanta parte delle Ong o degli enti locali hanno investito sulla conoscenza del contesto e sulla formazione dei volontari o degli operatori? Quante volte la progettualità ha abdicato alla ricerca di finanziamenti purchessia, trasformando le Organizzazioni non governative in agenzie operative di programmi decisi altrove (e magari dagli stessi che avevano distrutto con le loro bombe quelle stesse case, quelle stesse infrastrutture, quelle stesse realtà produttive che si intendono ricostruire)? Quante volte i soggetti locali sono stati ridotti a semplici comparse acquiescenti, a loro volta disposti a tutto pur di intercettare finanziamenti per sostenere la propria insostenibilità? O, ancora, quante volte ci si è interrogati se gli aiuti venivano gestiti in maniera corretta, per favorire il ritorno dei profughi anziché avallare leadership nazionaliste locali? O come tacere di progetti che esaurivano gran parte delle risorse disponibili per coprire i costi di apparato?
Dire queste cose può far male, ma non possiamo far finta di ignorare come la logica dei sacchetti gialli abbia lasciato dietro di sé effetti collaterali se non così gravi come quelli delle bombe intelligenti (altro ossimoro che solo la perdizione dell’uomo moderno poteva inventare), comunque oltremodo devastanti.
Ma dirle è necessario, se non altro per riconoscere quanti, senza far rumore e senza l’ostentata pubblicità dei programmi governativi e non, questa delicatezza l’hanno avuta o ricercata, scegliendo di rifuggire dai facili finanziamenti per percorrere le strade più impervie ma certamente più coerenti della diplomazia popolare e della cooperazione decentrata.
Andate in Kossovo e vi renderete conto cosa significhi l’espressione "circo umanitario": quando tutto è condizionato dalla presenza degli "internazionali" (sostantivo odioso, ma che rende bene l’idea di una categoria di sradicati a 10 mila marchi al mese), l’economia come la società civile, quando l’invasività demolisce ogni forma di responsabilizzazione delle persone e con essa le strade di per sé difficili dell’autogoverno. E accanto alle macerie della guerra troverete quelle lasciate dalle missioni internazionali. Certo, si dirà con soddisfazione che le case sono state ricostruite, ma come non capire che se la pace è ancora lontana quelle case sono nuovamente a rischio.
L’assenza di guerra non cancella, in Kossovo come nelle Kraijne, nella Federazione croato-musulmana come in Repubblica serba di Bosnia, i milioni di profughi che ancora non possono o non hanno i mezzi per rientrare nelle proprie città e villaggi. Né cancella i contesti economici e sociali stretti fra criminalità mafiosa e povertà estrema, o le devastazioni ambientali e l’uranio impoverito che rendono questa parte d’Europa una vera e propria polveriera. Vissuti tragici di donne e uomini che in assenza di luoghi di elaborazione del conflitto continueranno a bruciare gli animi, rischiando nuove esplosioni in un ripetersi infinito.
Riflettere in profondità e fuori da ogni rituale su questi dieci anni di cooperazione italiana verso i Balcani, di come l’umanitario sia entrato nel gergo militare e le moderne guerre tentino un loro volgare maquillage, della straordinaria mobilitazione di coscienze e di energie come sul deficit di progettualità politica, della superficialità con cui si sono avviati e della disinvoltura con cui si sono chiusi programmi sbandierati e poi riposti quasi ritraendo la mano, ma anche della profondità delle relazioni costruite da centinaia di diplomatici senza stellette…
Ecco, di tutto questo vorremmo parlare con questo libretto e durante il convegno nazionale promosso a Trento dall’Osservatorio sui Balcani sabato 24 novembre, con un prologo la sera precedente dedicato agli attori trentini della solidarietà nei Balcani. Con l’obiettivo di tracciare un percorso di lavoro che possa rappresentare un costante punto di riferimento per quanti ritengono, insieme a noi, che la pace si costruisca in primo luogo in tempo di pace.