Cosa resta dopo dieci anni d’impegno umanitario nel sud est Europa?

Pubblichiamo di seguito il documento introduttivo al convegno "Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive".

26/11/2001, Redazione -

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ricostruzione in Kossovo

Si è svolto sabato 24 a Trento un convegno sui Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa. Buona la presenza di pubblico durante tutta la giornata probabilmente attratto dal taglio che si è dato all’incontro: si è cercato di sviluppare un approccio all’analisi di questi dieci anni nei Balcani che fosse critico e propositivo al tempo stesso, senza verità in tasca ma anche senza inutili trionfalismi. In parte ci si è riusciti, nella consapevolezza che questo incontro è uno dei passi iniziali verso una riflessione che si cercherà di promuovere nei mesi prossimi sul come si stia facendo cooperazione e con quai effetti sui territori e sulle comunità con le quali si sono creati legami. Affinchè questo possa essere uno stimolo e sostegno all’agire futuro. Pubblichiamo di seguito il documento introduttivo al convegno.

Introduzione: cosa resta dopo dieci anni d’impegno umanitario nel sud est Europa?

Sacche gialle dal cielo. Così, in Afghanistan, gli stessi aerei che hanno scaricato ordigni di morte sono diventati i nuovi attori dell’intervento umanitario. Scherzetto o dolcetto? Come nel gioco della notte di Halloween, i ragazzi afgani o iracheni, serbi o ceceni, scrutando il cielo non sapevano fino all’ultimo se quelle cose gialle fossero bombe o aiuti alimentari.
La moderna guerra umanitaria, l’assurdo ossimoro che quotidianamente siamo costretti a sentire, getta un’ombra lunga su tutto ciò che va sotto il nome di "umanitario". Qualcosa di simile era accaduto anche nei primi anni ’90, quando l’affaire Somalia e l’assassinio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin resero inservibile il concetto stesso di cooperazione.
 
Il decennio di "impegno umanitario" che ci lasciamo alle spalle nei Balcani deve indurci a molti ripensamenti. Cooperazione e intervento umanitario, al pari di tante altre parole infangate dagli orrori della storia, oggi sembrano diventate impronunciabili. E non solo per effetto delle mistificazioni delle moderne dottrine militari, che hanno trasferito le proprie categorie sul terreno della solidarietà internazionale. Ma anche perché le stesse modalità e gli stessi approcci di tanta cooperazione hanno via via prodotto pesanti "danni collaterali" nelle società coinvolte. Danni che vanno dall’invasività nei confronti di culture e contesti differenti, all’insostenibilità sociale ed economica di modelli vecchi e calati dall’alto sulle comunità locali.
E cosa resta dei Balcani?

Dieci anni di guerrelasciano in eredità ai Balcani una situazione strutturale ancora lontana dal potersi definire stabile e pacificata. Sono troppi – lo abbiamo scritto anche nell’Appello L’Europa oltre i confini
– i nodi della crisi balcanica ancora irrisolti e talvolta incancreniti: le situazioni innaturali del Kossovo e della Bosnia Erzegovina, con la contraddizione intrinseca agli accordi di Dayton tra la separazione etnico-nazionale del paese ed il diritto al ritorno dei rifugiati, il destino ancora incerto della Macedonia e la più ampia questione albanese, la collocazione del Montenegro, la transizione non ancora consolidata in Croazia e Serbia, il rispetto delle minoranze interne agli stati, il dramma ancora vivo di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.
Per non parlare del disastroso contesto economico e sociale, causato insieme dall’estrema fragilità istituzionale degli stati, dalla loro crisi fiscale, dalla diffusa deregolazione e dal rafforzarsi della criminalità economica e dei poteri mafiosi. Con queste condizioni il futuro economico del sud est europeo non può essere garantito né dalle chimere degli investimenti occidentali di rapina, né tanto meno dal perdurare dell’assistenzialismo umanitario.
 
Ma di ciò l’intervento internazionale sembra non accorgersi, perdurando in una lettura dolorosamente errata dei Balcani come zona arretrata, pre-moderna, in cui importare sviluppo e democrazia "all’europea". L’incapacità di uscire dalla pura logica emergenziale fa dunque il paio con l’incapacità di leggere le dinamiche reali in corso nell’area. E senza sapere cos’è accaduto nei dieci anni passati, e cosa resta oggi dei Balcani, non è possibile agire con intelligenza…
Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: Bilancio…

1991-2001: dieci anni a loro modo straordinari e sicuramente densi di mille rapporti e interscambi tra città e territori dei Balcani e dell’Italia. Si aprono con l’inizio delle guerre jugoslave, in Slovenia, e la quasi contemporanea caduta del regime enverista in Albania. Due eventi che innescano, pur se per motivi diversi, incontri e progetti di qua e di là dell’Adriatico. Dieci anni dopo possiamo dire che molte sono state le energie mobilitate, e senz’altro molte le esperienze positive di analisi, di denuncia e di cambiamento sociale avviate.
Mancano chiaramente dati completi, ma non pensiamo di sbagliare se contiamo in decine di migliaia i volontari che hanno approcciato i conflitti balcanici direttamente dal campo, percorrendo le molte vie dell’aiuto e della solidarietà materiali. Ugualmente a centinaia si devono contare le iniziative, i gemellaggi, i progetti avviati da comitati, associazioni, ONG, enti locali, sindacati, parrocchie e istituzioni diverse con il sud est Europa. I flussi in denaro di questo ampio insieme di interventi possono essere stimati sull’ordine delle centinaia di miliardi di lire, ma se si valorizzassero tutte le prestazioni volontarie raggiungerebbero probabilmente anche le migliaia.

Al di là poi delle dimensioni quantitative, l’aiuto e la cooperazione con i Balcani hanno determinato una grande esperienza di crescita qualitativa nel rapportarsi alla solidarietà internazionale da parte di mondi che fino ad allora l’avevano trattata più come materia di dibattito politico-culturale che come pratica concreta d’azione. Aver vissuto per anni a poche ore di auto dal fronte degli scontri, aver sperimentato contesti di fame reale a qualche decina di chilometri dalle proprie coste erano eventi sconosciuti nell’ultimo mezzo secolo di storia italiana. In queste esperienze è cresciuta una nuova consapevolezza del ruolo possibile dei cittadini in un contesto internazionale, che si traduce oggi negli orizzonti sempre più ampi della diplomazia popolare, del protagonismo estero degli enti locali, della cooperazione decentrata…
Infine un ultimo motivo di crescita viene dalle esperienze stesse fatte nell’azione sul campo, che hanno permesso di sperimentare strumenti nuovi e interessanti di intervento dal basso nei conflitti: dai Tavoli di coordinamento istituzionali alla collaborazione mista fra strutture governative e non governative; dai gemellaggi triangolati per settori specifici (scuole, istituzioni sportive, gruppi culturali…), ai rapporti di cooperazione decentrata fra territori e municipi; dalle nascita delle Agenzie della Democrazia Locale all’impiego di obiettori di coscienza in servizio civile all’estero.

… Critiche…

E però… Riflettere su questi dieci anni di straordinaria esperienza di solidarietà non può impedirci di vederne i limiti e le pecche anche gravi. La pratica di un’azione di emergenza vista come prolungamento "civile" delle operazioni militari, di un intervento solidale ma improvvisato e privo delle minime basi di conoscenza del contesto e delle culture locali, di una cooperazione calata dall’alto e incapace di proporsi in forme sostenibili, hanno spesso stravolto e corrotto lo straordinario potenziale attivatosi in risposta alle tragedie balcaniche.
Tutto ciò non è stato privo di conseguenze, come appare chiaramente dai tre casi studio che abbiamo preparato su Mostar, Pec-Peja e Macedonia. Riassumendo, si possono identificare cinque livelli di distorsione:

· Dal punto di vista dei singoli che intervenivano. La storia dell’intervento non governativo nel sud est Europa conta anche la morte di alcuni volontari: sicuramente tragica, in alcuni casi forse evitabile. E al di là dei fatti più gravi, quante persone sono state "gettate allo sbaraglio" in situazioni più grandi di loro? Quanti operatori sul campo, o volontari nei campi profughi, non hanno avuto la minima preparazione né sono stati seguiti in maniera sufficiente per evitare danni a sé e agli altri? Quante associazioni, ONG, enti locali hanno investito sulla conoscenza del contesto e sulla formazione dei volontari e degli operatori?
· Dal punto di vista dei beneficiari. Oggi un problema ambientale – purtroppo non l’unico – in Bosnia Erzegovina è quello delle tonnellate di medicinali scaduti, giunti nel paese come aiuti umanitari dall’estero, e ora gettati in discariche aperte o sulle rive dei fiumi. Ci dice qualcosa questo? Gli sprechi, gli aiuti inutili, gli aiuti sbagliati, gli aiuti mai arrivati perché intercettati da mafie e profittatori, oppure quelli distribuiti dalle stesse bande criminali che taglieggiavano la popolazione: lasciando stare le punte scandalistiche, è la normalità media della dispersione e dell’inutilità che dovrebbe interrogarci.

· Dal punto di vista del conflitto in sé. L’intervento umanitario in un contesto di guerra ha sempre a che fare con il conflitto che gli sta attorno. Non tenerne conto è ingenuo, e soprattutto pericoloso per sé e per chi si vuole aiutare. Eppure quanti aiuti hanno rafforzato le leadership nazionaliste e militari? Quanti progetti di ricostruzione hanno favorito il consolidarsi delle divisioni nazionali anziché la loro attenuazione? O, con uno sguardo più generale, perché oltre il 90% degli aiuti in Bosnia Erzegovina si è concentrato sul solo contesto territoriale del centro e della Erzegovina? E poi i conflitti andrebbero prevenuti più che curati: come è stato possibile dimenticare per quasi un decennio la crisi del Kossovo? E nell’intervento in Macedonia, quanto lavoro è stato fatto per salvaguardare la convivenza locale e quanto invece si è rimasti ad aspettare il "business" dell’emergenza?
· Dal punto di vista delle prospettive future per le comunità locali. Invasivo e insostenibile suonano forse come condanne troppo forti per l’insieme dell’intervento umanitario nei Balcani. Eppure quante volte i partner locali sono stati ridotti a semplici comparse acquiescenti, disposte a tutto pur di intercettare finanziamenti dall’estero? E quante invece sono state le soggettività reali aiutate a formarsi e a crescere, che siano durate oltre il tempo di finanziamento dei progetti? Dov’è (e cos’è) la mitica società civile locale di cui sono pieni molti documenti di progetto? Economicamente, quante iniziative avviate hanno poi trovato una propria auto-sostenibilità all’interno delle comunità? Qual è l’idea di sviluppo e di società che accompagna i progetti di cooperazione nei Balcani? Ha qualche differenza con i modelli della privatizzazione selvaggia e dello smantellamento dello stato sociale, accompagnati dall’aiuto caritatevole "per chi non ce la fa"?

· Dal punto di vista degli attori italiani della cooperazione. Nel corso di questi dieci anni si è assistito purtroppo alla perdita di autonomia di molte componenti del cosiddetto mondo non governativo, costrette per rincorrere i finanziamenti delle agenzie internazionali o delle varie cooperazioni nazionali a trasformarsi in mere esecutrici di progetti pensati da altri. E la soggettività propria del mondo non governativo rispetto a quello governativo è andata scemando in commistione, cosa ben diversa dalla collaborazione. Paradigmatica, e ancora dolorosa, è a questo riguardo la vicenda dell’Operazione Arcobaleno, voluta da un governo in guerra per lenire le ferite che egli stesso contribuiva a produrre.
… e Prospettive

Naturalmente non possiamo fermare la nostra analisi alla lettura di un, talvolta desolante, presente. E perciò intendiamo identificare e proporre alla discussione anche alcune proposte di percorsi e metodi alternativi alla "insostenibile leggerezza" di molta attuale cooperazione. Gli interventi del pomeriggio saranno dedicati proprio a questo, sulla base di tre ipotesi che qui solo riassumiamo:
· L’azione umanitaria d’emergenza è una pratica di solidarietà fondamentale ed irrinunciabile per soccorrere popolazioni vittime di guerre o calamità. Va affrontata tuttavia con capacità di lettura del contesto locale, spirito critico nei confronti dei diversi attori in campo ed uno sforzo di approccio comunque "progettuale" e non meramente assistenziale. Non è possibile, per incapacità di pensiero o peggio ancora per totale dipendenza da donatori esterni, piegarsi ad una logica di emergenzialità perpetua, quasi a rincorrere (e ringraziare) le crisi internazionali.
 
· Già durante l’emergenza, e più ancora nella successiva ricostruzione, i rapporti più saldi e duraturi risultano quelli che mettono in gioco due comunità e due territori nel loro insieme. L’esperienza recente della cooperazione decentrata può essere una risposta allo strutturarsi perverso di una vera e propria cooperazione para-governativa. Ugualmente affrontare i nodi "politici" dei conflitti a fianco delle questioni umanitarie, come si è sperimentato con la diplomazia popolare dal basso, aumenta lo spessore ed il peso degli interventi sul campo.
· Cooperazione e progettualità portano con sé modelli impliciti di sviluppo (o non sviluppo) di un territorio. Ad oggi il futuro economico del sud est Europa che si legge dietro alla maggioranza delle iniziative internazionali è racchiuso tra le chimere di un modello neo-liberale basato sui tanto attesi investimenti occidentali, e l’inerzia di un perdurante assistenzialismo umanitario. Occorre invece immaginare un percorso economico alternativo, fortemente intrecciato ai saperi, alle intelligenze, alle risorse ed alle tradizioni culturali locali. Uno sviluppo che sia endogeno ed auto-sostenibile, dove assieme ad un’economia sana crescano la responsabilità individuale, le reti sociali e l’autogoverno della comunità.

Tre ragionamenti e tre percorsi, dunque, per sintonizzare l’azione concreta di associazioni, ONG ed enti locali alle riflessioni più avanzate prodotte da un decennio di esperienze sul campo. Ma c’è un quarto stimolo che ci pare importante lanciare, almeno in questa introduzione ai lavori di oggi. Ed è che, per quanto importante e meritoria, l’azione concreta sul campo non può rinunciare ad interloquire con il mondo delle idee e della politica. L’Appello "L’Europa oltre i confini. Per un’integrazione dei Balcani nell’Unione Europea: rapida, sostenibile, dal basso" muove proprio da questa esigenza. Nei dieci anni trascorsi è stata troppo debole la voce di chi i Balcani li ha conosciuti dal di dentro, li ha attraversati con i convogli umanitari o le delegazioni di solidarietà, se li è portati in casa con l’accoglienza dei rifugiati. Queste relazioni dal basso hanno già prefigurato un’Europa unica, fatta di cittadini e di paesi alla pari al di qua e al di là dell’Adriatico. Ora c’è bisogno di rendere istituzione quanto anticipato dalla solidarietà e dalla cooperazione. E c’è bisogno di dirlo assumendosi anche il ruolo di proporre e sostenere politiche aperte e solidali, oltre che di praticarle sul campo.
E’ questo l’augurio con cui vogliamo aprire questa giornata sui Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: per fare un bilancio; per avanzare delle critiche; ma soprattutto per trovare, assieme, delle prospettive.

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