Danis Tanović: la mia casa è Sarajevo
Danis Tanović, regista e sceneggiatore del film "No Man’s Land" per la prima volta racconta della sua vita. Dall’infanzia nel quartiere centrale Mejtaš alla passione per il pianoforte e il cinema, dalla guerra durante la quale ha filmato la distruzione della sua città, alla vita da regista
(Articolo tradotto dal quotidiano Slobodna Bosna )
Sono cresciuto tra due grattacieli, allora si chiamavano così, nel quartiere di Mejtaš a Sarajevo. Durante le scuole elementari amavo soprattutto giocare a scacchi con mio padre, anche se passavo molto del mio tempo a suonare il pianoforte. Mia madre insegnava musica ed è proprio per quello che decisi di studiare musica presso il conservatorio, fin dai sei anni di età. Ammetto che non ero particolarmente amante della musica, suonavo più che altro per far piacere ai miei genitori. Ho cominciato a provare un reale interessamento alla musica un anno dopo la fine del conservatorio. E così, adolescente, ricomiciai a suonare e lo faccio ancora oggi: difatti le musiche del film "No man’s land" le ho scritte di mio pugno. Amo suonare soprattutto Bach e Chopin, ma sono rimasto anche molto legato a pezzi di rock degli anni ’80.
Da adolescente cominciai a frequentare molti luoghi di ritrovo di Sarajevo, dal Klub Bosna al Kišobran, dal BB allo Slogan. Ma soprattutto il Milk bar dove mi trovavo sempre con i miei amici Eso ed Armin che hanno poi perso la vita in guerra, ma anche tanti e tanti altri compagni. Già allora ero appassionato di cinema. Mi ero iscritto alla Facoltà di ingegneria meccanica perché i miei genitori volevano un figlio ingegnere, ma anche perché rappresentava il naturale percorso d’istruzione dopo la conclusione della scuola superiore professionale edile. Però, appena seppi dell’istituzione del primo corso di studi di regia presso l’Accademia d’Arte e Scenografia di Sarajevo, mi iscrissi saltando dalla felicità.
Da quel momento ho cominciato a leggere libri di storia del cinema e a guardare film di tutti i tipi… non ho fatto altro per tutto l’87 e l’88. All’Accademia avevo professori d’alto livello, da Dževad Karahasan (ndt: drammaturgo e scrittore, nel 1993 venne accolto come profugo in Austria, autore inoltre del libro "Il Divano Orientale") al regista Ademir Kenović, tutte persone di cui ho sempre avuto un’alta considerazione.
A quei tempi amavo anche leggere e da adolescente amavo soprattutto Chekov, ma il libro a cui sono più legato è "Il maestro e Margherita" di Bulgakov. Quando invece mi sono messo a scrivere la sceneggiatura di "No man’s land" (Terra di nessuno) mi sono ispirato soprattutto ad un racconto di Meša Selimović. In quel racconto si parla di due cavalieri che si incontrano per strada. All’inizio si colpiscono con le lance poi con le spade, con la ferma intenzione di uccidersi, ma nessuno dei due riesce a raggiungere lo scopo. Allora si siedono, si riposano, bevono e chiacchierano, e dopo si uccidono a vicenda…
La guerra
La guerra mi sorprende nell’aprile del 1992, cioè quando inizia l’inferno. Ero andato a trovare il mio amico Edi che doveva realizzare uno spot per i caschi blu delle Nazioni Unite. Sapevo parlare molto bene l’inglese e avevo avuto un’idea: dipingere di bianco la jeep di un soldato del corpo speciale dell’esercito, Dragan Vikić… perché volevamo vedere cosa succedeva ad andare in giro per Sarajevo con una macchina con la sigla UN sulle fiancate. In un’autofficina ci siamo messi all’opera, e quando la macchina sembrava a tutti gli effetti una vera jeep delle Nazioni Unite, ci siamo presentati alla Dom Milicija (sede centrale della polizia) e ho detto "sono uno studente del corso di regia e so usare una telecamera. Posso fare qualcosa?".
Pochi giorni dopo (…) mi chiamarono e passai nelle file della Presidenza da Vehbija Karić (ndt: allora Comandante del Corpo speciale dell’Armata Bosniaca). Molti di noi finirono nella Presidenza: era una situazione di caos totale, non si sapeva "chi beveva e chi pagava". Per dirla con parole povere, solo e in maniera autonoma cominciai a camminare per la città con la telecamera in mano e a filmare. Il mio nome "segreto" allora era Rudnik (minatore). Questo soprannome me lo avevano appioppato gli uomini della Presidenza dopo avermi fornito di una radiotrasmittente motorola. Dato che giravo continuamente per la città mi dettero quindi il nome di Rudnik "informacija" (Operaio dell’informazione) e molti miei colleghi mi davano spesso del pazzo proprio perché ero costantemente in giro per strada.
Infatti sono tra coloro che hanno filmato il bombardamento e l’incendio della Vijećnica (Biblioteca Nazionale), ma anche l’unico che ha filmato il bombardamento e la distruzione dello Zetra (Palazzetto Olimpico). Sul luogo dei fatti ci arrivai proprio grazie alla mia radiotrasmittente, attraverso la quale ascoltavo i dialoghi tra la Polizia e le unità della Difesa Territoriale. Ora mi ricordo anche un particolare. Il regista Dino Mustafić, a quei tempi mi aveva informato di aver cominciato a lavorare per la Commissione di indagine sui crimini e mi aveva consigliato di passare anch’io tra loro. Tutto quello che ho girato l’ho poi consegnato alla Commissione e da allora ho al suo interno dei grandi amici (…).
Quando attraverso la radiotrasmittente ho sentito del bombardamento dello Zetra ho imbracciato la telecamera e sono volato in macchina fino al palazzetto. Arrivato lì non ho trovato nessuno. Mi sono girato e ho visto due pompieri morti, rendendomi conto che l’artiglieria serba stava ancora sparando. Sono entrato di corsa nel palazzetto e ho trovato dei pompieri che cercavano di spegnere l’incendio: ciò che ho girato è l’unico documento esistente sulla distruzione del palazzetto, nel quale sono rimasto a girare per un’ora e mezza. Ne sono uscito dopo essere stato colpito alla spalla dal crollo di un pezzo di tetto. Una gran parte di quella pellicola, purtroppo, è andata distrutta, anche se nel frattempo era stato istituito l’Archivio delle forze armate.
La fuga e il ritorno a Sarajevo
I miei genitori avevano molta paura per me. Nell’aprile del 1992 un mio parente di Zenica (ndt: città a 50 km a nord-ovest di Sarajevo) si era sposato e mia madre mi aveva preparato la borsa perché io andassi a portargli i nostri auguri. Quel giorno arrivai al treno, già strapieno di gente, e ricordo che la stessa notte quel mio parente mi cosegnò il passaporto e un po’ di soldi dicendomi "tua madre mi ha detto di dirti di non tornare a Sarajevo. Domani partiamo per la Germania". Mi sono nascosto da un’amica che faceva l’attrice presso il teatro di Zenica. Ho dormito lì e la mattina successiva sono ripartito per Sarajevo. Ho viaggiato su di un treno che sembrava spettrale: in venti vagoni c’erano in tutto cinque passeggeri. Nessuno credeva che sarei tornato a Sarajevo, mentre io ero veramente felice di averlo fatto.
(…) Quelli erano tempi in cui anch’io ho provato odio. Come avrei potuto non odiare chi stava bombardando la città e uccidendo tutto ciò che si muoveva! Sulle montagne di Sarajevo grazie a Dio non c’erano miei amici stretti, ma suppongo che su quei monti ci fossero dei miei conoscenti. Di due di loro ho saputo che appena hanno potuto sono scappati da quell’esercito… qualsiasi persona normale non può sopportare di far parte di un esercito che bombarda una città e i civili che vi abitano. In guerra ho vissuto con i miei genitori, sono dimagrito fino a pesare 60 chili. Mangiavo quando trovavo qualcosa da ingoiare, senza un soldo in tasca, vivevo insomma come tutti gli altri cittadini di Sarajevo sotto il tiro delle granate.
(…) Ero stanco e saturo di quella guerra, sentivo il bisogno di uscire dall’assedio. In realtà, sarò sincero, avevo richiesto all’Archivio che mi dessero 15 giorni di riposo perché potessi uscire da Sarajevo per andare a comprare una telecamera nuova. Dissi anche che volevo rivedere la mia ragazza. Era la primavera del 1994, immediatamente dopo il massacro di Markale (ndt: il massacro del mercato, avvenuto il 5 febbraio). Non mi concessero il permesso, anche se ero il soldato con il maggior grado di anzianità di servizio di tutto l’Archivio, essendo stato arruolato il 6 aprile del 1992. Risposi loro "Se non mi lasciate andare voi, me ne andrò da solo". Non mi hanno creduto, e invece l’ho fatto.
Quella notte non dormii a casa dei miei genitori, ma a casa di un amico. Il giorno dopo nel pomeriggio venne a prelevarmi un pilota inglese che conosceva la mia ragazza belga, la quale in quei giorni era a Zagabria. Era riuscita a farmi dei documenti e glieli aveva consegnati. Lui mi nascose nella sua jeep sotto alcuni zaini. Riuscimmo ad arrivare all’aeroporto da dove partii per Ancona. Il momento più difficile, veramente il più difficile, di tutta la mai vita, è stato quando l’aereo è decollato e ho visto Sarajevo sotto di me.
All’arrivo ad Ancona ero alquanto scioccato. Questa è la prima volta che ne parlo, e cioè che ero già stato ad Ancona in permesso cinque giorni con la mia ragazza – conosciuta a Sarajevo – grazie alla carta blu che mi permetteva di uscire ed entrare (ndt: la carta blu era un lasciapassare delle Nazioni Unite che veniva rilasciato solo a pochi bosniaci, di solito traduttori e assistenti dei caschi blu, che permetteva loro di uscire da Sarajevo con i voli usati per il trasporto di aiuti umanitari o di soldati delle forze di pace), e allora avevo deciso di tornarci per qualche giorno. Ma questa volta ci rimasi una sola notte: non potevo sopportare di vedere che la gente fuori dalla mia città continuava a vivere normalmente come se niente fosse. Quindi, il giorno successivo feci i bagagli e tornai subito a Sarajevo.
Dopo tutti questi anni quando guardo la mia vita mi rendo conto che non cambierei nulla di ciò che ho fatto, anche se molte decisioni le ho prese facendomi trasportare dall’emotività, una è stata quella di restare in guerra anche se avevo la possibilità di andare all’estero. Alla fine ma ne sono comunque andato via e grazie ai miei amici di oggi mi sono trasferito a vivere in Belgio (…).
In Belgio ho finito l’Accademia, ho ottenuto una serie di premi per i miei film documentario. A quel punto ho capito che dovevo cimentarmi in un lungometraggio. Per la regia di "No man’s land" hanno parlato di me dal Giappone, attraverso l’Europa, fino in America. Nel realizzare i miei documentari ci avevo messo la stessa quantità di energie che ho riversato nel film, ma fosse stato per i documentari nessuno avrebbe mai sentito parlare di me. Hanno cominciato a mostrarli solo dopo il successo del film (…). La mia casa è a Sarajevo, anche se mi sento a casa sia a Parigi, Roma, Bruxelles come in tutti i posti in cui viaggio. Mi chiedete che cosa penso di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina? Sarò breve: solo un posto si chiama Casa.