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L’informazione in francese sui Balcani: incontro con Le Courrier des Balkans

Una conversazione con Jean-Arnault Dérens, giornalista ed esperto di Balcani, tra i promotori del portale ‘Le Courrier des Balkans’

05/03/2003, Andrea Oskari Rossini -

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Partner di Osservatorio sui Balcani, Le Courrier des Balkans è il portale che da anni informa in modo puntuale ed approfondito il mondo francofono sulla regione del sud est Europa. L’Osservatorio ha partecipato alla giornata del Courrier, tenutasi a Parigi lo scorso 28 febbraio e 1 marzo nel quadro dell’assemblea annuale dell’associazione. Nel corso dell’incontro abbiamo intervistato il redattore capo e presidente uscente del Courrier, Jean-Arnault Dérens, che ci ha raccontato come è nata l’esperienza di questo giornale elettronico e dell’associazione che lo sostiene

OB: Quando inizia la storia del Courrier des Balkans?

J-A D: Nel marzo del ’98. Due giornalisti, io e Sébastien Nouvel, abbiamo cominciato a parlarne durante un viaggio dal Montenegro al Kosovo. Quando siamo arrivati… il progetto era nato! Abbiamo trovato quasi subito dei traduttori, tra i quali la montenegrina Jasna Tatar, e un piccolo gruppo di sostegno a Parigi. All’interno di questa équipe c’erano persone legate alla fondazione Danielle Mitterrand "France Libertés", che aveva avviato un importante progetto a Sarajevo durante la guerra, quello della Casa dei Cittadini, progetto che partiva dalla Iniziativa Civica di Solidarietà con la Bosnia. Il Courrier des Balkans ha riattivato questo gruppo nel momento in cui, alla fine della guerra, la Casa dei Cittadini a Sarajevo non esisteva più. C’erano dunque delle persone che avevano vissuto e lavorato nei Balcani e che volevano continuare a fare delle cose ma non avevano più un quadro all’interno del quale portare avanti le loro iniziative.

OB: Che tipo di lavoro svolgeva la Casa dei Cittadini a Sarajevo?

J-A D: Medico, psicologico e sociale.

OB: Anche politico o solo diciamo umanitario in senso generale?

J-A D: Soprattutto umanitario. Ma cosa era politico e cosa umanitario a Sarajevo nel ’93, ’94? Le cose erano collegate, non era possibile dividerle… Con queste persone, non con le strutture, che non esistevano più, abbiamo quindi dato vita al Courrier.

OB: In cosa consisteva il progetto?

J-A D: Il Courrier nello spirito è sempre stato un progetto militante, volontario. La nostra idea forte, all’inizio, era quella di tradurre la stampa indipendente dei Balcani. All’epoca si trattava di un concetto piuttosto semplice. La stampa indipendente era la stampa che era contro Milosevic e Tudjman in Serbia e Croazia e che in Bosnia ad esempio si collegava alla società civile, a strutture come il Comitato Helsinki, agli anti nazionalisti. Il criterio politico era semplice.

OB: A quel momento avevate già contatti con una rete di giornalisti indipendenti?

J-A D: Sì, erano persone che conoscevamo già piuttosto bene. La rete si è poi arricchita con tutti quelli interessati all’idea di avere uno strumento francofono, un tramite in francese per il lavoro che svolgevano. Il momento della verità, il vero test è stato durante i bombardamenti della Nato contro la Yugoslavia. Questo evento ha suscitato dei forti dibattiti, a volte mal posti, dibattiti di principio, sul come essere per la fine della repressione in Kosovo ma allo stesso tempo contro la guerra della Nato… Il Courrier è riuscito a conquistare una propria credibilità durante quel periodo in quanto strumento di informazione capace di rendere conto e di fare una buona informazione su quanto avveniva sia in Kosovo che in Serbia.

OB: Credibilità di fronte ai lettori, alle istituzioni, agli altri organi di informazione?

J-A D: Direi in generale. Concretamente, c’erano persone che per delle buone ragioni erano risolutamente contro la guerra della Nato, altri che per delle buone ragioni erano a favore dei bombardamenti…

OB: Nel Courrier?

J-A D: Nel Courrier e tra i lettori… Ma queste persone sono sempre riuscite a leggere il Courier e a discutere tra di loro, anche durante le iniziative pubbliche che organizzavamo.

OB: L’aspetto giornalistico e quello della associazione che propone dibattiti, iniziative, erano presenti dall’inizio?

J-A D: Sì, ma in realtà per diverso tempo la associazione in quanto tale non ha svolto una grande attività. Oggi vogliamo invece che il Courrier, fuori da internet, nella vita reale, possa essere anche un luogo di incontro per tutti coloro che si interessano ai Balcani: associazioni, ong, persone della diaspora, imprenditori… L’aspetto "associazione in Francia" è iniziato propriamente durante i bombardamenti, perché le persone avevano in quel momento un grandissimo bisogno di parlare, di riflettere, di discutere. Noi abbiamo sempre evitato prese di posizione formali e riunioni centrate sui massimi sistemi fuori da un contesto specifico. E in quel momento siamo riusciti a imporci in quanto luogo di dibattito, in concreto come un luogo dove Serbi e Albanesi del Kosovo potevano dialogare. E questo ha sempre funzionato.

OB: Serbi e Albanesi del Kosovo qui in Francia?

J-A D: Sì, e non era facile. Però ha funzionato. Questo è stato per noi il primo test importante. Mantenendo sempre una identità un po’ "montenegrina". Durante i bombardamenti informavamo infatti dal Montenegro, dove avevamo dato vita ad un sistema che si chiamava "Montenegro flash", e produceva informazione quotidiana all’epoca meglio di Afp (Agence France Press) o delle altre agenzie di stampa. Questo legame montenegrino era del resto collegato alla storia del Courrier des Balkans…

OB: Cioè?

J-A D: E’ capitato che io abitavo lì, e anche Sébastien. E questo legame con il Montenegro ci permetteva di avere un luogo complicato ma allo stesso tempo privilegiato dal quale parlare. Da dove parlavano i corrispondenti? Da Belgrado, da Pristina, dalla sede della Nato a Bruxelles? Questo aspetto era molto importante durante i bombardamenti… Noi informavamo dal Montenegro, cercando di raccontare cosa significavano i bombardamenti e la politica di Milosevic e Djukanovic, descrivendo quanto avveniva in quel Paese come punto di partenza per parlare di quanto avveniva nel resto della regione.

OB: Eravate a Podgorica?

J-A D: No, a Cetinje, per ragioni "aneddotiche". Podgorica non è una bella città, Cetinje è molto più bella, a mezz’ora da Podgorica, a mezz’ora dal mare…

OB: Oltre ai Balcani, vi capita anche di parlare di Francia?

J-A D: Se in Francia abbiamo un ministro degli Interni che si chiama Sarkozy siamo obbligati a parlarne. Per esempio in autunno abbiamo pubblicato molti articoli che venivano da Bucarest sulla politica di Sarkozy nei confronti dei clandestini di origine Rom della Romania. Con il nostro approccio, che è prima di tutto quello di informare. E penso che sia molto piu’ interessante tradurre un articolo della stampa rumena o un comunicato della Unione Romani Internazionale sulla situazione di questi clandestini Rom che sono in metropolitana, a Parigi, piuttosto che assumere delle prese di posizione formali. Certo, abbiamo la vocazione a parlare di questo, della politica di Nicolas Sarkozy così come in generale della politica della Francia nei Balcani, del comportamento delle truppe francesi in Bosnia, Kosovo o Macedonia. Abbiamo cercato ad esempio di riprendere il lavoro della commissione della Assemblea Parlamentare su Srebrenica, ma essendo ben consapevoli che in Francia questo ha suscitato uno scarso dibattito, contrariamente a quanto è successo ad esempio in Olanda. In Francia Srebrenica non è divenuto un "affaire".

OB: Come funziona il Courier concretamente?

J-A D: Oggi il Courier si compone di una piccola équipe di traduttori nei Balcani, una decina, che risiedono nei diversi Paesi della regione.

OB: Come avviene la scelta degli articoli da tradurre?

J-A D: C’è un rapporto di fiducia molto forte. Cioè siamo noi, io in particolare, che confermiamo questa o quella proposta, ma in generale ci basiamo su di una relazione di fiducia. Può essere che lo proponga io, oppure che dica che su un tale tema è necessario un articolo. Ma spesso avviene nel senso contrario… Siamo in comunicazione permanente su internet, ci sentiamo più volte al giorno, e questo ci permette di essere molto reattivi sull’attualità.

OB: La reattività nei confronti dell’attualità, mantenere un profilo da agenzia di stampa, è importante?

J-A D: No, per lungo tempo non abbiamo lavorato in questo modo. Oggi però vogliamo provare a farlo. Da un lato è importante essere reattivi, ma non si tratta di dare ai lettori il tipo di notizia che possono trovare su AFP o su una qualsiasi altra agenzia di stampa. Serve un valore aggiunto. Noi cerchiamo di rispondere ad un bisogno molto semplice, che è quello delle persone che vanno nei Balcani o che ci vivono ma non ne parlano le lingue, e vogliono essere informati. Evidentemente però si tratta anche di essere in grado di fornire degli elementi di analisi, dei dossier, di scegliere delle tematiche, e per questo secondo aspetto il legame con l’attualità è meno forte. Sicuramente un tema come quello che vogliamo sviluppare sulla corruzione e il crimine organizzato ha dei legami con l’attualità, ma lo seguiamo in modo diverso. Non si tratta di fare un articolo perché il tal mafioso è stato assassinato a Belgrado, ma di portare elementi di riflessione e di fondo generali su quel tema.

OB: Quindi una decina di interpreti nei Balcani e una piccola équipe in Francia…

J-A D: Sì, a Parigi c’è una sola persona salariata, il nostro webmaster e segretario di redazione, Alexandre. Io per la maggior parte del tempo sono a Belgrado, ma mi guadagno da vivere come giornalista per una serie di altri media, dedicando allo stesso tempo ogni giorno diverse ore al Courier. Abbiamo poi una dimensione associativa che passa attraverso una équipe che stiamo cercando di rendere stabile, capace sia di creare luoghi e momenti di incontro e dibattito in Francia, che di proporre e seguire la attualità dei Balcani. Persone che in Francia sono studenti o membri della diaspora e che possono fare delle traduzioni, analisi, o scrivere sui contenuti che ci interessano.

OB: Avete una linea editoriale precisa?

J-A D: Più che una linea editoriale direi che abbiamo dei principi, come quello di sostenere i media indipendenti, la scelta di opporsi ai nazionalismi, di avere dei partners che provengano dagli ambienti democratici dei Balcani… Non si tratta di una riflessione precisa quanto piuttosto di una cultura naturale. E’ questo il nostro background ed è a partire da questo che il Courrier esiste. La linea editoriale consiste nella scelta di alcuni temi che riteniamo essenziali. Penso che uno dei temi principali da sviluppare nei mesi e forse negli anni a venire ad esempio sia quello della corruzione e del crimine organizzato. Oggi, secondo noi, la minaccia del crimine organizzato pesa su tutti i Paesi dei Balcani, alterando radicalmente sia le prospettive di sviluppo economico che di democratizzazione ed eventualmente di integrazione europea. La corruzione massiccia e il dominio del crimine organizzato sugli ambienti politici e sull’insieme degli attori della vita sociale rappresentano il blocco principale allo sviluppo dei Paesi dei Balcani, e temo che questo aspetto vada ad aggravarsi nei mesi a venire.

OB: Come si può sviluppare una vera partnership tra i diversi media elettronici che in Europa si occupano di Balcani, come Osservatorio e Le Courier?

J-A D: Siamo pochi, in Europa, ma penso che condividiamo uno stesso background. Possiamo forse non essere d’accordo su questo o quel punto, ma abbiamo una visione globale comune e questo è essenziale. Su queste basi dobbiamo ritrovarci e sviluppare qualcosa che non sia soltanto formale, lavorando su quelle tematiche che sono di giorno in giorno più importanti nei Balcani. C’è un aspetto pratico di economia di mezzi e di lavoro, tanto più rilevante oggi quando le grandi agenzie internazionali non vogliono più sostenere progetti sui Balcani…

OB: Durante il vostro convegno si è fatto l’esempio di Aim (Alternativna Informativna Mreza) o anche di Diplomatie Judiciaire, che erano legati a fondi internazionali…

J-A D: Sì, e che sono morti, entrambi. Dobbiamo per ragioni economiche e logistiche ritrovarci, e penso che possiamo farlo anche perché abbiamo delle esperienze un po’ diverse, e questa è una ricchezza. Possiamo inventare e creare delle cose insieme in un dialogo costruttivo, credo sia possibile e necessario. Che cosa in concreto non so, dipende da voi e da noi, dal nostro dialogo.

OB: Tra le vostre prossime iniziative c’è un viaggio organizzato al festival di Surdulica. Di cosa si tratta e in cosa si differenzia da quello ben più famoso di Guca?

J-A D: Quello di Surdulica è molto più bello… A Guca l’anno scorso c’erano 200.000 persone, soprattutto Serbi, mentre a Surdulica ci sono principalmente Rom, in una regione (Vranje) dove loro sono il 40/50% della popolazione. Questo festival è un momento di musica e di festa eccezionale, e ha anche una dimensione politica, nel senso che si tratta di un festival fatto dai Rom per un pubblico prevalentemente Rom. Questo viaggio non consisterà quindi solamente nel partecipare al festival, ma anche nello scoprire la cultura Rom e nell’incontrare le ong e i principali attori della vita sociale e culturale di questo popolo. Se questo primo esperimento funziona, pensiamo di continuare ad organizzare regolarmente viaggi di questo tipo nei Balcani…

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