Il conflitto va abitato e non rimosso
Intervista a Marianella Sclavi, docente di antropologia presso il Politecnico di Milano. Ha recentemente partecipato al convegno "Abitare il conflitto: c’è pace senza riconciliazione?", promosso dall’Osservatorio sui Balcani.
I due termini "abitare" e "conflitto" sembrano antitetici. Perché a suo avviso affiancati nel titolo di un convegno?
Il titolo "Abitare il conflitto", dato a questi due giorni di lavoro è secondo me bellissimo. Abitare significa riconoscere al conflitto la sua quotidianità, l’essere parte dell’uomo e delle sue relazioni. E non si può partire che da questo.
Sente descritto il suo lavoro in questi anni dal binomio "teoria ed azione", "accademia e strada"?
Non proprio. Mi colloco tra coloro i quali fanno azione e ricerca. Sono interessata a cercare di capire cosa succede nel mondo e poi usare la teoria in funzione dell’azione. Ma non mi sento molto accademica, nell’accezione perlomeno tradizionale del termine.
Quale il suo ruolo nei due giorni di lavoro?
Io sono venuta a Rovereto per ascoltare. Mi occupo infatti di arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti. Ho ascoltato e poi ho provato a riferire cosa ho sentito. Un elemento forte, che era sottinteso in tutti gli interventi ad esempio del primo giorno della tavola rotonda – dibattito che ha toccato tre realtà travagliate del mondo: Balcani, Sudafrica e Medioriente – è stato quello della relazione onnipresente tra una persona che si sente portatrice di civiltà ed un minus habens. È una questione che consciamente od inconsciamente, volenti o nolenti, tutti gli operatori di cooperazione allo sviluppo si ritrovano tra i piedi e che condiziona fortemente il loro lavoro.
Ed in nome di questa civiltà si impone una propria legge …
Sì, e si esclude un rapporto di reciprocità, ascolto e gestione creativa dei conflitti. Carlo Sini, filosofo, ricorda come l’ostilità nei confronti delle culture diverse è un atteggiamento naturale e praticamente universale. E questo va spesso contro il comune buonsenso che sostiene l’esistenza di una umanità universale. Con la conseguenza di non portarci da nessuna parte ed anzi, paradossalmente, esiste il rischio di precludere il rapporto con tutti coloro i quali non professano questa umanità universale. Sini chiama questo il "paradosso ermeneutico della antropologia".
Ma a cosa porta riconoscere che la paura e l’ostilità rispetto a ciò che è lontano da noi è comune a tutti?
L’ostilità verso l’altro è il punto di partenza naturale legato ai processi dell’abitare. Quando noi abitiamo un posto, abitiamo dei rapporti, consideriamo un arco di possibilità. Fuori è tutto sbagliato. Ma, come afferma Clifford Geertz, "la cosa più importante che gli uomini hanno in comune è la grande diversità di cui sono capaci".
Ma come sfruttare questa diversa consapevolezza per una gestione "creativa" del conflitto?
Si può sfruttare in un atteggiamento che io chiamo umoristico e ironico dell’accoglimento della complessità. In questo modo si crea la possibilità di dialogo tra due soggetti che pretendono entrambi di essere loro "l’uomo e non l’altro". E qui si aprirebbe una possibilità d’ascolto. L’abitare pone in una situazione nella quale il rapporto con l’altro è conflittuale, un rapporto che costringe ad uscire dalle cornici di cui si è parte e quindi si affronta un trauma emozionale. E bisogna fare i conti con l’elaborazione di questa emozione che non può essere risolta affermando che le emozioni distorcono la conoscenza. Alle emozioni si vorrebbe invece troppo spesso sovrapporre una conoscenza di tipo razionale che astrae dall’abitare.
Marcello Flores ha sottolineato l’importanza, nella vicenda sudafricana, del porre al centro le vittime e la loro narrazione, ed al centro della narrazione spesso vi sono proprio queste emozioni …
Questa scelta rappresenta un modo di abitare il conflitto radicalmente diverso dalla tentazione della rimozione, del "non pensarci più". È importante e fondamentale dare spazio alla memoria e per far questo occorre creare un clima in cui la narrazione abbia senso. Questo è avvenuto in Sudafrica, dove si è chiarito che la Commissione per la verità e la riconciliazione era essenziale per intraprendere una strada di democrazia. Diverso dal dire "fate le Commissioni che poi la politica è un’altra cosa".
Ma la verità delle vittime è sempre una verità giusta?
Dare parola alle vittime significa ascoltare la loro storia, la loro testimonianza e non chiedersi se sia vera, sbagliata, falsa, giusta. La loro testimonianza è una possibilità, ma vi sono tante altre possibilità. Significa accettare l’idea che i fenomeni complessi si devono vedere da una molteplicità di punti di vista incompatibili. Grazie alla pluralità di punti di vista si è poi in grado di progettare, insieme alle persone, il territorio. Io mi occupo di questo, di pensare progetti capaci dell’accoglienza del diverso, della pluralità del diverso.