Iraq, guerra ed Europa: una riflessione
Un articolo di Giulio Marcon pubblicato di recente sulla rivista Mosaico di Pace. Alcune riflessioni sugli effetti che la guerra all’Iraq avrà sull’Europa.
Tra gli "effetti collaterali" della guerra angloamericana all’Iraq bisogna sicuramente annoverare le conseguenze sull’Europa e sul processo in corso di integrazione e unificazione.
Sullo schermo della guerra all’Iraq scorre la pellicola delle divisioni e dello scontro tra Stati Uniti d’America e l’Unione Europea. All’isolamento politico degli Stati Uniti si sommano la rottura profonda del fronte atlantico e le fratture nell’Unione Europea tra paesi più o meno filoamericani e altri più filoeuropei. C’è chi si è spinto ad affermare che questa è anche in parte
"una guerra contro l’euro", cioè rivolta (seppur indirettamente) a mettere in difficoltà la crescita costante del ruolo economico della Unione Europea e dell’apprezzamento dell’euro sul dollaro, tendenza che preoccupa ormai da molti mesi, l’amministrazione americana.
Infatti nel contesto di una recessione ormai triennale dell’economia americana (che né la guerra, né un improbabile keynesismo militare sembrano risollevare), l’amministrazione di Washington ha puntato in questi anni ad un governo della fase economica e al mantenimento della leadership globale, sostanzialmente in due modi: utilizzando la schiacciante predominanza militare per ottenere obbedienza geopolitica ed esercitare l’egemonia e facendo del dollaro (mantenendone il ruolo) la moneta di riferimento per gli scambi e le transazioni finanziarie globali.
Se la leadership militare non è messa in discussione (tanto meno dopo la guerra all’Iraq che ha messo in evidenza una esorbitante superiorità bellica), quella del dollaro sì. Paesi dell’est europeo, alcuni paesi arabi, il Brasile ed altri ancora hanno assunto l’euro come moneta di riferimento per gli scambi. Altri si apprestano a farlo. Il risultato è che gli Stati Uniti rischiano di non potere più contare in futuro sulla stessa consistenza di flussi finanziari in valuta che fino ad adesso hanno permesso agli americani di finanziare nel contempo il deficit della bilancia dei pagamenti (divario del 22,6% e che nel 2010, si prevede arrivi al 50%) e le spese militari che arriveranno il prossimo anno ad oltre 430 miliardi di dollari, quanto il PIL della Russia o quanto spendono per le armi -messi insieme- i paesi dell’Unione Europea, la Cina, la Russia.
Quindici anni fa gli Stati Uniti avevano un incubo: il Giappone (e in parte le "tigri" asiatiche: Corea del Sud, Taiwan, Indonesia, ecc.). Riuscirono a tornare a fare sogni più tranquilli, quando con una serie di iniziative mirate (barriere protezionistiche, "obbligo" alla Banca del Giappone di coprire -acquistando buoni del Tesoro americano- il debito pubblico americano, ecc.) contribuirono a ridimensionare la cavalcata nipponica sui mercati mondiali (ed americani). Oggi gli Stati Uniti hanno altri due incubi: la Cina e l’Unione Europea. Della Cina – con un PIL che ogni anno aumenta del 7-8%, potenza nucleare, paese di 1 miliardo e 200 milioni, uno dei mercati con più ampie possibilità di assorbimento di beni nel futuro- si parlerà in un’altra occasione.
Dell’Unione Europea si è in parte già detto. Accanto alla crescente importanza della dimensione monetaria ed economica (e al mantenimento di alti livelli di coesione sociale rispetto al modello americano), non va dimenticata la potenzialità come soggetto politico che si affaccia su aree crocevia delle relazioni economiche e politiche dei prossimi anni: il Medio Oriente ed il Mediterraneo, l’Eurasia, l’Africa. Questa dimensione politica -insieme alla capacità di darsi strumenti credibili di "sicurezza comune"- è uno dei lati più problematici del processo costituente europeo e il suo indebolimento è uno degli "effetti collaterali" della guerra anglo-americana all’Iraq.
Sarà solo una coincidenza. Finora le guerre che si sono succedute negli anni ’90 sono iniziate alla vigilia di importanti appuntamenti costituenti europei. Il Golfo e la ex Jugoslavia (1991) alla vigilia del varo del Trattato di Maastricht,
il Kosovo (1999) nel pieno della definizione delle procedure e della messa a punto della nascita dell’euro, la guerra all’Iraq del 2003 nell’anno della Convenzione Europea e pochi mesi prima dell’allargamento ad est. Lasciamo ai dietrologi congetture e ipotesi. Quello che è certo è che urge -come una priorità assoluta- la definizione di una capacità concreta dell’Unione Europea di un’autonoma e unitaria politica estera capace di prevenire le aree di crisi e promuovere una politica di pace. Gli Stati Uniti hanno finora contribuito -con le iniziative unilaterali e i richiami atlantici- ad impedire o a rallentare questo processo, ma proprio la vicenda della guerra all’Iraq potrebbe paradossalmente -nello stesso momento in cui provoca fratture tra i governi dei paesi europei- accrescere (anche a livello di opinione pubblica) la consapevolezza della identificazione di interessi, valori, obiettivi europei distinti da quelli dell’amministrazione americana. In poche parole: in mezzo alle macerie -umanitarie e politiche- della guerra americana potrebbe germogliare una consapevolezza maggiore dell’identità europea.
Per essere tale, questa identità non può ridursi a quella dei governi (sarebbe ben presto sentita come estranea dal corpo sociale europeo), ma costruirsi intorno a dei valori "forti" (la pace, la cittadinanza, il modello europeo di coesione sociale, i diritti civili, la convivenza, ecc.) e ad un processo che si anima "dal basso", cioè a partire dal ruolo della società civile, del protagonismo della cittadinanza, con un metodo che si costruisce non con la cooptazione (dall’alto, appunto), ma con la partecipazione democratica. Ecco perché anche la vicenda dell’elaborazione ed assunzione della Convenzione e della Costituzione europea non è indifferente a questo processo: se sarà ancora materia dei governi (o al massimo dei parlamenti) e non anche del corpo elettorale europeo (attraverso, ad esempio, un referendum europeo e non con referendum nazionali) si sarà persa un’occasione. E solo nel secondo caso si potrà dire di aver aperto finalmente un processo costituente invece di una concessione ottriata di una carta mediata dai governi in una logica di equilibri nazionali.
Ecco perché sono importanti i prossimi appuntamenti italiani ed europei che si muovono nella direzione di un’Europa "dal basso". Proprio a metà settembre verrà organizzato a Belgrado il secondo appuntamento del network "Europa dal basso" (l’anno scorso si fece a Sarajevo con Romano Prodi, in occasione dei dieci anni trascorsi dall’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina) e che si snoderà attraverso una serie di inziative (convegni, viaggio fluviale sul Danubio da Vienna a Belgrado, manifestazioni) con l’obiettivo di rilanciare l’idea di un’Europa senza confini basata sulla democrazia, i diritti, lo sviluppo locale. A ottobre ci sarà l’Assemblea dell’Onu dei Popoli dedicata proprio al ruolo dell’Europa nel mondo e che si concluderà con la marcia Perugia-Assisi del 12 ottobre. A novembre, infine, la seconda edizione del Forum Sociale Europeo a Parigi.
Dai movimenti può venire dunque l’idea di un nuovo impegno per un’Europa sociale e dei cittadini -non ridotta alla dimensione economica e monetaria- che non sia semplicemente opposizione (sacrosanta) all’Europa "fortezza" o delle monete. E che sia, invece, uno spazio politico, sociale, economico in cui si sperimenta la costruzione di un nuovo soggetto capace di armonizzare la coesione sociale fondata sui diritti e la giustizia e una convivenza fondata sulla pace e la cooperazione; uno sviluppo economico aperto e sostenibile e un ruolo geopolitico non aggressivo ma cerniera di civilizzazioni diverse, stimolo di dialogo, di incontro, di solidarietà. E’ un processo lungo e sicuramente difficile, ma è il miglior antidoto per evitare nuove guerre e crisi globali, costruendo un approccio multipolare e democratico, di pace, essenziale condizione di un mondo più giusto.
Giulio Marcon
Presidente di ICS-Consorzio Italiano di Solidarietà