Izetbegovic, il “nemico essenziale”
Domenica 19 ottobre è morto a Sarajevo Alija Izetbegovic. Aveva abbandonato la vita politica nel 2000. Nazionalista musulmano, presidente del Partito dell’Azione Democratica, è stato protagonista dei "dieci anni più difficili" della Bosnia Erzegovina
"Il presidente Izetbegovic è morto". Sulejman Tihic, rappresentante musulmano della presidenza collegiale bosniaca, si è indirizzato in questo modo domenica scorsa ai giornalisti radunati fuori dall’ospedale di Sarajevo. "Mi sono appena incontrato con la famiglia, per organizzare i preparativi del funerale – ha aggiunto."
Secondo i medici, la causa del decesso di Izetbegovic – trasportato in ospedale il mese scorso con quattro costole rotte a seguito di una caduta – sarebbe ascrivibile ad una "prolungata malattia cardiaca provocata da un precedente attacco di cuore aggravato dalla frattura delle costole." "Il cuore di Izetbegovic si è fermato alle 14.20 – ha dichiarato Amila Arslanagic, medico."
Radio e televisioni hanno interrotto la programmazione per annunciare la morte dell’ex presidente.
Nota biografica
Nato l’8 agosto 1925 a Bosanski Samac, nel nord della Bosnia, laureato in giurisprudenza a Sarajevo, Izetbegovic è l’ultimo dei tre firmatari degli accordi di pace di Dayton ad uscire di scena. Il croato Franjo Tudjman è morto nel 1999, mentre Slobodan Milosevic è attualmente in carcere e sotto processo all’Aja. Di loro, Izetbegovic condivideva il nazionalismo. Diversamente da loro, l’ex presidente bosniaco non aderì mai al partito comunista yugoslavo e fu anzi incarcerato per tre volte durante il regime titoista per le sue prese di posizione in campo ideologico e in particolare per le sue attività religiose.
Nel 1946, all’indomani del secondo conflitto mondiale, il ventunenne Alija Izetbegovic fu processato per aver fatto parte dei "Giovani Musulmani", gruppo modellato su simili organizzazioni nate nel mondo musulmano e creato in Bosnia nel 1941 per la difesa della identità islamica. Nel 1951 fu condannato a tre anni di carcere per "attività sovversive" e nel 1972 fu processato per aver redatto due anni prima la famosa "Dichiarazione Islamica". Nel 1983 fu nuovamente condannato con l’accusa di "estremismo" e per "attività panislamiche". Condannato a 14 anni ne scontò meno di sei, nel carcere di Foca. Fu liberato nel 1988, quando ormai la storia della Yugoslavia volgeva al termine. Solo due anni più tardi, nel 1990, fondò il Partito dell’Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije, SDA), una delle tre formazioni politiche, insieme al Partito Democratico Serbo SDS e alla Unione Democratica Croata HDZ, che furono protagoniste dei successivi sanguinosi anni di guerra in Bosnia Erzegovina.
Nel 1990, alle prime elezioni pluripartitiche della Yugoslavia, Alija Izetbegovic viene nominato presidente della Repubblica di Bosnia, una delle sei repubbliche della Federazione. Nel febbraio del 1992 indice il referendum per l’indipendenza da Belgrado. Dalla Jugoslavia di Slobodan Milosevic erano gia uscite l’anno prima la Slovenia, la Macedonia e la Croazia. Poi, la guerra.
Izetbegovic mantenne la funzione di presidente lungo tutto il corso del conflitto fino a divenire, dopo la firma degli accordi di Dayton, il primo rappresentante della presidenza collegiale bosniaca del dopoguerra. Nell’ottobre del 2000, pochi giorni dopo la sollevazione dei cittadini di Belgrado contro Slobodan Milosevic, al termine di quelli che la campagna elettorale dell’SDA in Bosnia quello stesso anno aveva chiamato "i dieci anni più difficili", Izetbegovic si ritira dalla vita politica.
Bosnia e Islam. Il rapporto con i Paesi musulmani
I suoi scritti – oltre alla Dichiarazione Islamica ha pubblicato, tra l’altro, "Problemi del Rinascimento islamico", "L’Islam tra Est e Ovest", "Appunti dalla prigione, 1983-1988" e una autobiografia – sono spesso stati citati dai suoi oppositori per dimostrare che Izetbegovic era un fondamentalista musulmano.
Nella "Dichiarazione Islamica", scritta nel 1970 e ristampata nel 1990 a Sarajevo con il sottotitolo "Un programma per la islamizzazione dei musulmani e dei popoli musulmani", si invoca una generale rigenerazione morale e religiosa, un ritorno ai valori islamici, la re-islamizzazione dei musulmani. Si tratta di un inno alla unione dei popoli musulmani sotto la bandiera dell’Islam, inteso non solamente come forza religiosa ma anche come motore politico e sociale, come reso evidente dalle pesanti critiche rivolte dall’autore in quel testo ai Paesi a maggioranza musulmana che hanno scelto una via laica di governo, in primo luogo la Turchia di Mustafa Kemal Ataturk.
"Non ci può essere pace o coesistenza tra la fede dell’islam e la fede e le istituzioni non islamiche" (cit. in Joze Pirjevec, Le guerre jugoslave, pag. 28.), questo uno dei passi più controversi del documento, che nella prefazione reca anche un ambiguo riferimento alla creazione di una comunità islamica unita dal Marocco all’Indonesia. Il nostro obiettivo, recita il frontespizio di copertina, è la islamizzazione dei musulmani. Il nostro motto, credi e combatti.
In realtà, (cfr. "Le Nouvel Islam balkanique. Les musulmans, acteurs du post-communisme 1990-2000" Xavier Bougarel e Nathalie Clayer, recensito in Osservatorio Balcani, 16.01.02), l’SDA di Izetbegovic in Bosnia, "partito da premesse panislamiste, nel corso degli anni aggrega correnti di nazionalisti musulmani e da ultimo crea reti clientelari intorno alle quali organizza il proprio potere sulla comunità musulmana del paese. Questa politicizzazione dell’Islam favorita dalla guerra … è imposta con metodi autoritari dalla leadership politica di Izetbegovic ma finisce per ritorcerglisi contro. La politicizzazione delle popolazioni musulmane della regione non supera infatti le divisioni etniche, e la guerra di Bosnia come quella di Kossovo non generano significative mobilitazioni regionali a base religiosa. La re-islamizzazione nei Balcani … è parziale oltre che conflittuale e l’affiliazione nazionale ha sempre la meglio su quella religiosa."
Sotto questo profilo va valutato anche il rapporto tra il partito di Izetbegovic e i Paesi arabi e musulmani durante e dopo la guerra, e l’afflusso di combattenti stranieri giunti (e in certi casi rimasti) in Bosnia Erzegovina per sostenere i Bosniaco Musulmani. Secondo Bellion-Jourdan (op. cit.), "l’SDA inizialmente riesce a monopolizzare le risorse esterne per rafforzare il proprio potere ma poi deve fronteggiare effetti inaspettati. La re-islamizzazione della Bosnia promossa dai vari ed eterogenei gruppi esterni produce l’effetto inverso a quello del progetto panislamico originario, e le identificazioni all’Islam si diversificano anziché convergere."
Su questo, la risposta più diretta la diede Izetbegovic stesso a Senad Pecanin, giornalista del settimanale sarajevese "Dani" (v. la Intervista a Alija Izetbegovic, di Senad Pecanin, Dani, 1 marzo 2002, tradotta e pubblicata su Osservatorio Balcani). Alla domanda: "Qual è il rapporto tra i benefici e i danni che la Bosnia Erzegovina ha ottenuto dall’arrivo di persone da paesi islamici?", il presidente rispose laconicamente: "Più danni che benefici".
L’intervista è interessante perché chiarisce altri aspetti del pensiero di Izetbegovic legati alla visione dell’islam e al rapporto con i Paesi musulmani. Alla ulteriore domanda di Pecanin: "Ne deduco che non concorda con chi sostiene che lei abbia sostenuto il loro arrivo e più tardi la legalizzazione della loro presenza con lo scopo di re-islamizzare i bosgnacchi?", il presidente ripose: "Non sostenevo il loro arrivo, lo tolleravo. L’arrivo di persone sconosciute, 100, 200 o 300, poteva solo portare dei rischi. A noi non servivano gli stranieri, perché avevamo 200mila dei nostri giovani, dei quali conoscevamo sia i nomi sia gli scopi. Anche nel mio discorso tenuto al summit dei paesi islamici avvenuto nel gennaio del 1993 in Senegal, avevo detto: non spediteci uomini, uomini ne abbiamo, spediteci armi. Ma era stato un messaggio inviato all’indirizzo sbagliato, perché i governi non spedirono nulla. Gli uomini arrivavano di propria iniziativa o come membri di alcune organizzazioni. E quello che voi state chiamando re-islamizzazione dei bosgnacchi era un rinnovamento della fede. Io ero felice di questo, ma le origini di questa rinascita si trovavano in Bosnia, non venivano da fuori; è quello che chiamiamo "Islam bosniaco", non wahabita o talebano. D’altronde quello che voi chiamate re-islamizzazione era già in corso nel 1990 – 1991, mentre gli stranieri sono arrivati ben più tardi. Loro non avevano alcun legame con questo fenomeno di massa, che rappresentava la semplice e diretta reazione ad una repressione della fede durata quasi mezzo secolo."
Di fronte alla domanda infine su quali fossero stati i maggiori amici della Bosnia Erzegovina durante la guerra, Izetbegovic compone un curioso mosaico: "Gli Stati Uniti e l’Iran, i primi sul piano politico, il secondo su quello materiale. Sullo stesso piano ci sono anche l’Arabia Saudita, la Turchia, la Germania e la Malesia. Verso la Bosnia Erzegovina hanno avuto un comportamento amichevole il presidente Clinton, gli uomini di governo dell’Iran, il re Fahd, il presidente Demirel, il cancelliere Kohl, il premier Mahathir."
I dieci anni più difficili
Poco dopo le dimissioni dalla vita politica attiva nell’ottobre del 2000 (rieletto presidente nel 1998 si ritirò a metà mandato, mantenendo la sola guida del partito come "presidente ad honorem"), il settimanale di Sarajevo "Dani" lo intervistò nuovamente per cercare di tracciare un bilancio sul decennio trascorso, i "dieci anni più difficili" (Nerzuk Curak, Dani, 13 ottobre 2000). Il presidente rielabora quel periodo mettendo in primo piano quattro grandi questioni, che richiedevano risposte ineludibili:
"Quattro questioni hanno avuto una importanza strategica in questo periodo: prima di tutto, ‘la Yugoslavia sì o no?’. Noi abbiamo risposto ‘sì’ e abbiamo cercato di salvare la Yugoslavia, un po’ diversa e riformata, è vero. E’ stato uno sforzo vano, ma penso valesse la pena tentare. Dopo che la secessione di Slovenia e Croazia hanno reso la opzione yugoslava impossibile, e ci siamo trovati di fronte alla questione di sapere se bisognasse restare all’interno di una Yugoslavia incompleta, all’interno di una ‘grande Serbia’, abbiamo risposto ‘no’, e penso che non ci siamo sbagliati…. Il terzo crocevia di fronte al quale ci siamo ritrovati dopo la proclamazione dell’indipendenza e l’inizio dell’aggressione è stato il seguente: difendersi o arrendersi. Abbiamo optato in favore della difesa e l’abbiamo organizzata con successo. La quarta decisione strategica è stata la pace. Alla fine del 1995, ci siamo trovati di fronte ad una scelta: accettare la pace di Dayton o continuare la guerra. Abbiamo scelto la pace e non abbiamo avuto torto perché, dal momento che saremmo rimasti soli e completamente isolati, avremmo perduto quella guerra."
Per quella guerra, nel corso della quale l’anziano presidente rappresentò la volontà di resistenza di una città, Sarajevo, sottoposta ad un assedio medioevale da parte delle forze serbo-bosniache, più di una volta Izetebgovic fu citato per crimini contro l’umanità. Nel gennaio del 2000 le autorità della Republika Srpska di Bosnia Erzegovina depositarono dinnanzi al Tribunale Internazionale dell’Aja un atto di accusa contro il presidente Izetbegovic, contro Sefer Halilovic (ex comandante dell’esercito della BH) e contro Naser Oric (quest’ultimo, comandante musulmano a Srebrenica, poi arrestato nell’aprile del 2003), per genocidio e crimini contro l’umanità commessi nei territori dei comuni di Srebrenica, Bratunac, Milici e Skelani dal maggio 1992 al luglio 1995. Questo tentativo di porre in stato d’accusa il presidente Izetbegovic non venne però accolto dalla procura internazionale. Si ignora se al momento della morte ci fossero inchieste aperte sul suo conto da parte dell’Aja.
Srebrenica, simbolo della tragedia bosniaca, il luogo dell’eccidio di migliaia di Musulmani, il più grave massacro avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, l’area protetta abbandonata dalle forze di interposizione internazionale ed espugnata con facilità nel luglio 1995 dalle truppe serbo bosniache agli ordini del generale Mladic, è un nome che secondo alcuni interroga anche la direzione dell’SDA.
Più di un migliaio di soldati dell’esercito bosniaco di stanza a Srebrenica, incluso il comandante Naser Oric e i quadri ufficiali, erano stati infatti richiamati da quelle posizioni appena due mesi prima che venisse portato l’attacco finale contro la città. Nel 1999, mentre raccoglievo su questa vicenda le interviste che avrebbero composto il documentario "Europa, Srebrenica", una delle donne sopravvissute mi dichiarò che i Serbi, irrotti nella cittadina, dopo aver diviso gli uomini dalle donne e aver caricato queste ultime su camion e autobus, gridavano: "Per voi non c’è più posto sulla terra, nemmeno il vostro Alija vi vuole…". Era il 1995. Ai Serbi andava la Bosnia orientale (fine delle enclaves), ai Croati le Krajne (operazione "Tempesta"), ai Bosniaci Sarajevo. Era la realpolitika, da cui probabilmente anche Izetbegovic non era rimasto immune. Qualche mese dopo si sarebbero firmati gli accordi di pace nella base di Dayton, in Ohio.
Momcilo Krajisnik, primo rappresentante serbo nella presidenza tripartita della Bosnia del dopo Dayton e stretto collaboratore di Radovan Karadzic nel corso della guerra, arrestato nel 2000 per genocidio, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e dei costumi di guerra, aveva dichiarato di essere dispiaciuto del ritiro di Izetbegovic dalla scena politica del Paese, perché lo considerava un "nemico essenziale", svelando le vertiginose affinità dei campi avversi che si erano combattuti con ferocia per anni.
L’Alto Rappresentante Paddy Ashdown, la massima autorità rappresentante la comunità internazionale in Bosnia Erzegovina, alla notizia della morte di Izetbegovic ha dichiarato: "E’ stato nel vero senso della parola il padre del suo popolo. Senza di lui dubito che la Bosnia Erzegovina oggi esisterebbe."
E’ probabile. Forse la Bosnia Erzegovina oggi non esisterebbe in quanto Paese indipendente, membro delle Nazioni Unite. Ma cosa è esattamente oggi la Bosnia Erzegovina? Un Paese distrutto, otto anni dopo la fine della guerra ancora alla catastrofe. Un protettorato internazionale, retto da una architettura istituzionale bizantina e contradditoria, diviso su base etnica in due Entità e un distretto internazionale. La prospettiva della integrazione europea, come agli inizi degli anni ’90, è ancora un miraggio.
Senza Izetbegovic, senza "dedo" (il nonno), che per i tre anni e mezzo dell’assedio di Sarajevo è rimasto con la sua gente, sotto il bombardamento continuo delle forze serbe, in una città senza acqua, senza elettricità e senza cibo, la Bosnia non sarebbe sopravvissuta alla guerra. Ma la guerra – è questa la domanda più importante del bilancio dei dieci anni – era davvero inevitabile?
L’appello alla riconciliazione
Venti giorni fa, martedì 30 settembre 2003, l’ex presidente ormai in ospedale ha rivolto un appello ai propri concittadini. Si tratta di un appello alla riconciliazione, apparso con il titolo de "Il testamento di Alija Izetbegovic" sul belgradese Danas e su altri quotidiani della regione. Nella esortazione, rivolta per telefono alla televisione Hajat, Izetbegovic dichiarava che: "La Bosnia sopravviverà se i Serbi resteranno Serbi, i Croati resteranno Croati e i Bosgnacchi resteranno Bosgnacchi, ma se tutti si sentiranno prima di tutto parte di questo Paese. Vorrei esortarvi a escludere la vendetta, ma a reclamare piuttosto verità e giustizia. E che nessuno ricerchi la vendetta, perché la vendetta attira la catena del male."
I rappresentanti dell’SDA hanno dichiarato che i funerali si svolgeranno domani, mercoledì, annunciando la presenza di molti ospiti internazionali.
Vedi anche:
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Islam e Balcani: al di là dei luoghi comuni
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Intervista con Alija izetbegovic
Religione e politica in Bosnia-Ervegovina
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