Sofia, ‘cresce ma non invecchia’.

Uno sguardo sulla capitale bulgara, in un paese che guarda al traguardo europeo del 2007 rimanendo in larga parte misterioso. Un articolo di Lorenzo Guglielmi, ripreso dal sito di Notizie Est.

02/12/2003, Redazione -

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Una veduta di Sofia

"Chi ha visto le strade di Sarajevo e del suo bazar, pulite come uno specchio, o il lindo ordine di Sofia e li paragona a città o a stati citati per antonomasia quali modelli di civiltà, è incline a usare il termine "balcanico" come un complimento, così come altri usano dire scandinavo", scriveva Claudio Magris sul finire degli anni ottanta. "Danubio" resta un’autentica stella polare, nel panorama della letteratura di viaggio, ma dopo tredici anni di guerre, nazionalismi e fosse comuni, talvolta costruite dai servizi segreti, sono mutate le prospettive nell’attraversare (e pensare) questo oriente d’ Europa. L’incapacità di decifrare i mutamenti storici trova di frequente una copertura nella definizione assolutoria "paesi in transizione" o nell’indefinito appellativo di "est", spersonalizzante residuo della cortina di ferro. I luoghi geografici non di rado subiscono la volubilità delle narrazioni, che lentamente s’accumulano nel vivere quotidiano: dai buoni salotti della cultura alla boutade da osteria assistiamo a una lenta e costante produzione di cliché più o meno letterari. Mai come negli ultimi anni è entrato prepotentemente in uso il termine "balcanizzazione", per accennare a fenomeni concreti di conflitto interetnico o semplicemente per esternare timori di violenti revival nazionalistici. D’altronde l’Unione Europea, giovane creatura fatta di popoli antichi, ha in sé un retaggio di secoli di guerre. E Sarajevo è la sua ombra irremovibile. In "Danubio" questo impalpabile mistero del nostro vicino oriente si svela pagina dopo pagina, a mano a mano che l’autore, seguendo il corso del fiume fino al Mar Nero, si allontana dal centro del continente per esplorarne le sue più remote periferie. Ora quella stessa corrente, che ci trascina verso il grande delta, forse richiama le più cupe tonalità del "Viaggio di Ulisse", la pellicola tormentata e visionaria del maestro Anghelopulos. Viaggiare nell’Europa sud orientale, tra i fantasmi e le macerie del post-comunismo, può farci smarrire nel caotico crocevia di Belgrado, "bordello a doppio ingresso tra due mondi", dove la gente sradicata dalle guerre è capace di sopravvivere a fianco dei propri opulenti aguzzini, con straordinaria dignità e inaspettato umorismo. A un’altra latitudine, la megalomane architettura della Bucarest di Ceausescu, con i suoi sperperi di spazio a misura d’uomo sorvegliato, è un imponente e desolato scenario a metà tra il Grande Fratello e le pagine di "Potere e sopravvivenza" di Elias Canetti.
Lungo questo cammino tortuoso, Sofia emerge come singolare eccezione estetica e di temperamento, tanto più forte per chi vi giunge la prima volta, provenendo dalla Serbia o dalla Romania. "Dove stanno i Balcani?", si chiedeva Paolo Rumiz. Difficile trovare una parola altrettanto insolita, così semplice nella sua coincidenza di etimologia e significato geografico, eppur dotata di un ingombrante contraltare di derive semantiche, implicazioni allegoriche e metafore ad uso e consumo politico. Se quella domanda intendeva provocare un’ Europa che nelle guerre jugoslave aveva paura di guardare in faccia ai propri fantasmi, l’entrata in Bulgaria può dare una risposta che ci riporta alla semplicità dei concetti primigeni. Balkan in lingua turca significa banalmente montagna. In tempi remoti, i Balcani erano i massicci della Stara Planina, Pirin, Rila e Rodopi, in territorio bulgaro. Sofia è la prima capitale dove non s’avverte quella sindrome tipicamente jugoslava di spostare il confine dei Balcani nell’orto del vicino, come fosse un pericoloso morbo da evitare. Punto di arrivo per chi giunge dall’alto Adriatico, seguendo le città danubiane, questa capitale di 1.250.000 abitanti si presta a diventare anche un nuovo punto di partenza. E’ come se fosse necessario viaggiare fino in Bulgaria per incontrare qualcuno che alla domanda di Rumiz risponda col candore di una scarna e precisa definizione geografica. "Perbacco, ma siamo noi il cuore dei Balcani", ti rispondono vigorosamente i bulgari, dal tassista della stazione al professore universitario, con un approccio alle proprie radici spiazzante, per il rigore quasi scolastico. Le sorprese lessicali, però, non si esauriscono nel balkan, perché l’antica radice turca bul significa "mischiare" e la gente che abita questi vecchi rilievi, al di là di ogni mito fondativo, è il frutto dell’incontro tra l’antica e nobile civiltà dei traci con la cultura greca, romana, protobulgara, slava e ottomana. L’ortodossia è una componente culturale forte e ineludibile. In modo simile alla Serbia, ma senza il dramma di un Kosovo perduto e senza apologia di sconfitte, i monasteri bulgari sintetizzano nelle pietre e negli affreschi bizantini tre pensieri concatenati: la cultura nazionale, la difesa della cristianità contro il turco invasore e, infine , il senso dell’essere europei. Pertanto la polemica sulla dichiarazione delle radici cristiane nella nuova costituzione europea, da queste parti sembrerebbe trovare scarsa comprensione. Magris aveva già riportato, sotto la luce di una prospettiva storica, la complessità umana e artistica di questo lembo meridionale del mondo ortodosso; aprendo una breccia nell’imbalsamato grigiore dell’agonia totalitaria ci aveva riconsegnato un patrimonio per molti aspetti più vicino e simile a noi di quanto potessimo pensare.
Se nel 2003 l’approdo in Bulgaria può forse risentire di una memoria sovraeccitata dagli eventi degli anni novanta, l’inattesa compostezza della sua capitale, a lungo emarginata da onori e oneri della cronaca, è un tacito invito a sgombrare la mente. Una fiera stretta di mano, cordiale ma perentoria, è la prima sensazione provata. Dall’alto dei suoi duemila metri il vicino monte Vitosha regala uno sguardo privilegiato sulla città. A Sofia, più che altrove, le tracce del passato regime smarrirsi in una periferia che configura come una grande e anonima città satellite. Tutta la valle è dominata a perdita d’occhio da questa estensione urbana, contesa tra il grigio cemento dei grandi blok abitativi e il verde brillante di ampie aree naturali, veri e propri parchi e boschi che si rivelano elementi fortemente distintivi per la città. Così Sofia si fa scoprire fronda dopo fronda, costringendo spesso lo sguardo a soffermarsi sul particolare o sull’ornamento, più che sulle linee di insieme, stemperando la propria severità in un gioco sensuale di foglie e rami, nel gusto di lasciar trasparire le proprie forme, tra viali e giardini rigogliosi di tigli e platani secolari. Certe strade secondarie sono vere e proprie gallerie di querce. L’anonimo e il brutto tolgono facilmente il disturbo e nelle zone residenziali il viaggiatore meno distratto può cogliere in decadenti ville borghesi e vecchie case di ebrei e armeni quegli elementi che in occidente ne farebbero un quartiere eccentrico per la nuova bohéme. Tra eleganti palazzi di fine ottocento, sontuosi giardini e monumenti all’ex impero sovietico, Sofia dischiude tre millenni di storia, avvolgendoli in quell’atmosfera di "grandeur in miniatura" da giovane capitale di una piccola nazione.
Dall’insediamento tracio di Serdica – i cui reperti si trovano nell’ex moschea adibita a museo archeologico – fino alle rovine di insediamenti romani e fortificazioni ottomane, l’ urbanistica del centro amalgama e stratifica in una rassicurante e regolare veste danubiana ogni trapasso epocale, lasciando trasparire il proprio originale equilibrio. "Cresce, ma non invecchia" è il motto che dal 1900 accompagna l’emblema municipale con il leone. A quattro anni dal programmato traguardo europeo, passeggiando per i bulevards di Sofia si percepisce il senso rinnovato e attuale di quella didascalia: il desiderio di una città di perpetuare se stessa nel sogno modernista di inizio secolo scorso, quando in un ventennio venne stravolta e trasformata da villaggio di ventimila anime in moderna capitale d’Europa. La tardiva liberazione dal giogo ottomano aveva provocato, infatti, un clima generale di euforia e risveglio del sentimento panslavo. Dal 1879 Sofia divenne pertanto centro della cultura nazionale e laboratorio architettonico per i maestri provenienti da tutta Europa. L’ aspetto orientale andò quasi del tutto perduto in un febbrile sviluppo urbanistico, che contemplava il modello mitteleuropeo, francese e russo. Dopo due conflitti mondiali, una guerra fredda e la lunga notte del post-comunismo, la città ritrova il fermento dei cantieri di ricostruzione e di restauro. Il progetto "Beautiful Sofia" , con l’aiuto di finanziamenti internazionali, sta riportando alla luce edifici di particolare bellezza, come il bagno turco. A due passi dall’unica moschea rimasta consacrata e dalla sinagoga, l’edificio sorge su una fonte termale, dove ogni giorno la gente fa la fila per una bottiglia di acqua curativa. Talvolta, inaspettatamente, predicatori mistici declamano nel vuoto i loro sermoni, in piedi sul bordo delle vasche. Il vicino bulevar Vitosha, sferragliante di tram, risplende di vetrine di abbigliamento e gadgets in un’euforia consumistica senza precedenti, che travolge nella sua fabbrica di sogni al polaroid la Bulgaria media, che classe media non può avere, nel contrasto tra certi prezzi occidentali e stipendi da 200 euro al mese. Altrove si assiste al tentativo spesso riuscito di riallacciare la città all’occidente, sottoponendo a opera di cosmesi le dissonanze architettoniche dell’epoca socialista di Zivkov.
I curatissimi monumenti nazionali sono il leitmotiv martellante di un popolo che sembra uscito ieri da cinque secoli di dominazione turca e ovunque celebra se stesso, sotto l’ala protettrice della Grande Madre Russia. In Bulgaria, questo storico legame ha saputo reggere meglio quelle crisi geopolitiche e sentimentali che scuotono con ricorrenza il resto del mondo slavo-ortodosso. In quest’opera di reinterpretazione di sé, il mezzo secolo appena trascorso di regime socialista sembra cronologicamente molto più distante, eclissato in una patina paradossale di "archeologia della contemporaneità". Il "Centro russo per la cultura e l’informazione" ha mantenuto l’ordinaria forma squadrata e un nome che sa di purghe politiche, ma tra gli alberi di via Shipka rispunta con una vivacità di eventi culturali all’avanguardia e di caffè high-tech all’ultimo grido. In un clima disteso e sobriamente edonista, l’espresso non è più annacquato come ai tempi della perestrojka e i giovani s’incontrano per discutere degli ultimi eventi e novità letterarie e cinematografiche. Lo sguardo severo dei bassorilievi sulle conquiste del socialismo e il satellite fac-simile di Yuri Gagarin sembrano ironici arredi di modernariato. Sergej mi cita la scena del "Sorpasso" in cui Gassman sfreccia col suo bolide sull’Aurelia per l’Italia contadina e inserisce l’ "Uomo in Frac" nel mangiadischi. "Assomiglia tanto alla Bulgaria contemporanea. Forse noi siamo solo più silenziosi" , commenta Sergej, invitandomi a una visitare l’antica Chiesa russa di Sveti Nikolaj, con magnifiche cupole d’oro, e l’imponente cattedrale Alexandar Nevskij, iniziata nel 1877 come il più grande omaggio al popolo russo per l’eroismo e la generosità dimostrata verso i bulgari bulgaro nella lotta contro i turchi. Poco importa se i russi hanno guardato da sempre ai Balcani come a un corridoio indispensabile per dare al proprio impero un accesso ai mari caldi. Il materialismo storico ormai riposa nelle soffitte dei rigattieri. Il paese oscilla tra il disincanto del capitalismo presente e un uno sguardo neoromantico sul passato. Quest’ultima caratteristica la si ritrova nel triangolo composto dall’Accademia nazionale delle belle arti, dall’imponente edificio neoclassico dell’Università Sveti Kliment da Ocrida e dalla Biblioteca del popolo "Cirillo e Metodio".
Georghi e Sandra, studenti ventisettenni di economia, col pallino della storia, mi fanno notare come in questi tre vertici, tra loro distanti un centinaio di metri, ci sia tutto il senso del legame tra bulgari e macedoni. "La storia si prende spesso delle strane deviazioni, ma lingua e cultura dimostrano che bulgari e macedoni sono lo stesso popolo." Se poi gli ipotizzi una ipotetica ricongiunzione pacifica tra Macedonia del Vardar (attuale territorio della Repubblica ex jugoslava di Macedonia) e Macedonia del Pirin (Bulgaria), il fantasma balcanico della bomba etnica ricompare prepotentemente. "Magari un giorno, ma non ora che gli albanesi vogliono prendersi la sinistra della Macedonia del Vardar e Skopije. Sono loro il problema in questo momento, ma l’occidente fatica ancora ad ammetter i propri errori. Continuano a crescere a dismisura. Vi accorgerete, un giorno, che Milosevic non aveva tutti i torti." Un brindisi alla fratellanza con i serbi non viene quasi mai negato, specie se si tratta della questione albanese, ma Georghi preferisce evitare sconfinamenti dell’immaginario nazionale. Impassibile alla pioggia, come il colosso della statua di Sveti Klement che gli sta a fianco, vuole sfogarsi sui tempi recenti, al di fuori di ogni retorica. "Dopo la caduta del muro, siamo rimasti per lungo tempo ancor più isolati. Prima eravamo una specie di repubblica satellite dell’Unione Sovietica. Poi è stato come soffocare, tra la Jugoslavia in fiamme, con il corridoio 10 chiuso, le crisi dei tradizionali rapporti di mercato con Russia e paesi arabi, e l’iperinflazione. Senza neppure il privilegio, si fa per dire, di una rivoluzione coreografica come quella romena, che ci portasse sotto i riflettori. Non eravamo abbastanza interessanti." Con questa lapidaria affermazione, Gheorghi sgombra il campo da ogni vittimismo. Sandra prosegue il discorso con un affettuoso sorriso d’approvazione."Chi giunge in Bulgaria, soprattutto a Sofia, ha la sorpresa iniziale di un paese per molti aspetti diverso dai vicini, ma poi lo scopre del tutto simile nel costume politico. Qua sono successe cose molto tristi, che forse nemmeno immaginate. Nei Balcani la transizione non è un affare raffinato ed elegante da circolo del bridge. Sembra ieri che per sbarcare il lunario andavamo a fare il nostro piccolo commercio con i serbi sotto embargo, e adesso si discute aquis communitaire e di un ingresso in Europa, auspicato per il 2007. In occasione della guerra in Iraq, Chirac ha fatto parlare di noi, trattandoci come ingrati e immaturi voltagabbana, servi degli Stati Uniti di Bush. Forse non aveva tutti i torti, ma intanto noi entriamo nella U.E. con passo felpato, prima o poi, mentre voi continuate a conoscerci poco. Che sia meglio?", conclude ironicamente la ragazza, invitandomi a parlare con i giornalisti.
Kapital, Tema e Sega, sono tra le testate più attendibili e secondo gli intellettuali di ogni orientamento restano l’ultima roccaforte al dilagare dei tabloids e delle cronache scandalistiche, in un sistema mediatico dove il gruppo editoriale tedesco della WAZ gode di una posizione quasi monopolistica. L’accoglienza ai giornalisti stranieri è sempre molto calda, soprattutto in clima pre-elettorale. Il 26 ottobre le elezioni amministrative in Bulgaria sono attese con grande curiosità, come banco di prova per verificare la tenuta dell’attuale governo del premier Simeone, re senza corona e amico di Silvio Berlusconi. Javor Dackov, ex giornalista televisivo, a quanto pare licenziato per motivi politici, lavora come colonnista di Sega e soprattutto è conosciuto per esser un pungente commentatore radiofonico. A sentirlo parlare, sembra che il movimento di re Simeone abbia molte affinità con Forza Italia, pur cresciuto in diverse condizioni socioculturali. Questo nuovo partito è spesso al centro delle polemiche, ma il suo leader fondatore e premier si comporta come un re senza corona. Simeon vive fuori dalla mischia , non parla di monarchia e dà di sé l’immagine di un uomo riservato, poliglotta dall’aristocratico savoir faire, più interessato a baciare le icone nei monasteri che alla vita pubblica. Il Movimento Nazionale di Simeone II , unico partito al potere in Europa che porta il nome del proprio fondatore, si è formato pochi mesi prima delle elezioni della tarda primavera 2001, reclutando i primi iscritti a Londra, Madrid e New York. La selezione dei candidati inizialmente sembrava quasi casuale, ma dopo i primi sondaggi positivi sul consenso popolare al nuovo soggetto politico, assunse le forme di una vera business venture giocata tra lobbies. Cyril, uno dei figli del signor re Saxe-Coburg Gotha vive a Londra e regge le fila del gruppo dei nuovi "yuppies", i bulgari che hanno studiato e lavorato all’estero. Tra i vecchi iscritti della prima ora Spas Roussev è una delle figure di spicco. Direttore dell’Agenzia per gli aiuti esteri nel 1991 , è noto per aver accumulato con frode in quel periodo un ingente capitale, base dei suoi futuri business proprio in Inghilterra. "Ci sono esempi di candidati che per il primo posto in lista sono arrivati a pagare cifre di 30.000 dollari", tuona Dackov, "ma quel che conta è la provenienza di questo denaro. Due dei grandi sponsorizzatori sono Vassil Boshkov, conosciuto come "il Teschio", boss del gioco d’azzardo e Iliya Pavlov, direttore del malfamato Multigroup, società fondata da ex membri dei servizi di sicurezza di Stato del vecchio regime comunista. Vasilj Boshkov ha sotto il suo controllo almeno dieci parlamentari e sembra che non risponda in modo propriamente signorile quando sulla stampa qualcuno glielo fa notare. Sei mesi fa Pavlov fu assassinato e le indagini sulla sua morte sono cadute nel vuoto". Il partito di "re" Simeone non ha forti basi ideologiche, tuttavia usufruisce di una solida rete di esperti di comunicazione, che hanno saputo impostare il discorso chiave del "nuovo miracolo bulgaro": in ottocento giorni si sarebbero alzati gli standard di vita del paese, con sostanziali incrementi delle pensioni, dei salari di insegnanti e impiegati pubblici, la creazione di zone duty free e altre promesse di questo genere. Così, al di là di ogni razionale aspettativa, questo homo novus ha conquistato dal nulla 161 seggi parlamentari su 360.
L’Unione delle forze democratiche, dall’opposizione, accusa di populismo Simeone II, cercando di metter in luce i meriti del passato governo nell’aprire il processo decisivo di trattative tra U.E. e Bulgaria. Fino a poco tempo fa il premier veniva riconosciuto da più parti, almeno nella sua abilità di ricucire gli strappi in politica estera e sapersi destreggiare tra Nato e Russia. Tuttavia, a pochi giorni di distanza dalle celebrazioni nella capitale dei cento anni di relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Bulgaria, l’annuncio di nomina del generale Asparukhov, ex capo della temibile e onnipotente "Darjavna Sigurnost" ai tempi del comunismo, ha sollevato un polverone politico e diplomatico. Questo nuovo incarico concentra in sé la coordinazione di tutti i servizi di polizia, controspionaggio, sicurezza e controllo delle frontiere, lotta alla criminalità organizzata etc. Un tecnico del vecchio regime può desta sospetto per la possibilità di accedere ai dati del Patto Atlantico. La Bulgaria, cavallo di troia dei russi nella Nato? E’ sicuramente presto per dirlo, ma una cosa certa è che il copione dell’intrigo balcanico con le spie e i servizi segreti è un intramontabile dejavù. Persino Ahmet Dogan, l’esponente di punta del Movimento per i diritti e le libertà della minoranza turca, è sospettato di collaborazionismo con i vecchi servizi segreti, proprio durante gli anni della repressione etnica, che colpì la sua gente dal 1985 al 1989. In questo senso, se la Bulgaria degli anni ottanta è stato il primo campanello d’allarme degli sconvolgimenti etnici che avrebbero travolto parte dell’area balcanica, nei successivi anni novanta ha dimostrato una certa controtendenza. L’ abolizione dei diritti linguistici, il cambio dei cognome e il terribile esodo di massa, che nell’estate dell’89 vide i turchi bulgari doppiamente beffati dal proprio paese che li cacciava e dalla Turchia che chiudeva le frontiere, fu parte di un folle disegno di bulgarizzazione forzata, che ha lasciato profonde cicatrici in questa minoranza pur sopravvissuta. Dogan resta leader incontrastato da oltre dieci anni di un partito a base etnica che, grazie a un 10% di popolazione turca che lo segue con fedeltà pressoché plebiscitaria, si pone con 25 seggi al centro dell’arena, come l’ago della bilancia dell’equilibrio parlamentare. Il "Movimento per i diritti e le libertà", da molti contestato per la base etno-religiosa in contrasto con le norme costituzionali, ha nelle mani l’importante ministero per l’agricoltura e da sempre dimostra abilità nel costruire alleanze con tutti i soggetti politici. "L’opposizione è troppo divisa dai rancori tra liberali e socialisti . Proprio per questo, una vittoria dell’Unione delle forze democratiche a livello locale, nelle elezioni del 26 ottobre, potrebbe cambiare le sorti del governo, se il partito di Dogan decidesse di togliere l’appoggio al re, provocando una crisi", sostiene Valerj Cekov, del settimanale "Teema". Nella redazione di Tema si scherza sui candidati alla poltrona di sindaco di Sofia. Al centro dell’attenzione c’è Nadezhda Mihaylova, sola contro 11 candidati uomini e affettuosamente chiamata "kamikaze". Come ministro degli esteri dell’ex governo Kostov, la Mihaylova gode di buona fama, specialmente per aver trainato la Bulgaria fuori dalla "lista Schengen" (regime dei visti), ma questa carta sta perdendo valore a causa dei persistenti conflitti interni al suo partito, che non stata capace dimostrata di contenere, e dell’ennesimo scandalo sugli affari privati. All’accusa di aver favorito il marito nel processo di privatizzazione dei garage del Comitato Centrale dell’ex P.C. , lei non ha dato alcuna risposta. Il conflitto di interessi permea ad ogni livello la vita politica del paese e i due candidati in grado di fare concorrenza alla donna-kamikaze non sono da meno. Quando senti parlare la gente, Sofia sembra un villaggio di un milione e rotte di persone. Tutto infatti avviene alla luce del sole e gli epiteti nascono con grande facilità, a volte con l’aiuto inconsapevole dei politici stessi. Come il ministro per la gioventù e lo sport Ivanov, un ex autista che grazie a un capitale di 100.000 dollari è riuscito a tramutarsi in gestore di "Luciano", la grande catena di pasticcerie della città. Per consentirgli di mantenere il posto di ministro è stata addirittura modificata la legge che imponeva la condizione del titolo universitario. Ivanov, attuale candidato sindaco e appassionato melomane, viene confidenzialmente chiamato col nome d’arte, per il gusto di un’allusione che ha più a che fare col nostro Lucky d’oltroceano che con Pavarotti.In un contesto dominato dallo scandalo, reale o costruito a tavolino, c’è una grande disaffezione per la politica. L’aggettivo "mutra", brutte facce, ricorre con frequenza nei discorsi della gente, a qualsiasi livello sociale, con un risentimento ancor più forte per quella parte di paese che non è riuscita a stare a galla negli anni novanta e adesso vive ai limiti della povertà, fuori da ogni aquis communitaire e da ogni dato sulla crescita del PIL, investimenti esteri e inflazione.
Nel parco vicino al monumento dell’Armata Rossa incontro Marinela, un’avvocato di trent’anni che lavora per la pubblica amministrazione. Negli ultimi anni si occupata di controllare che le imprese rispettassero le normative sul lavoro. "La lotta contro l’economia nera a Sofia ha dato davvero buoni risultati in tempi brevi. Qua la disoccupazione è attorno al 3%, nulla a che vedere col resto della Bulgaria. Tuttavia, c’è una grossa fetta di lavoro nero nel piccolo commercio, in parte dovuta al fatto che il lavoro regolare soffre di eccessiva pressione fiscale". Quando Natasha parla della propria esperienza nelle consulenze legali non nasconde d’essersi rifiutata più volte di dare il proprio servizio, anche rinunciando a buone parcelle. "Questi mutra, brutte facce, sono ben vestiti ormai. Negli anni novanta hanno speculato in tutti i modi sull’embargo jugoslavo e sulla crisi economica. Certi li chiamavano sportmen, atleti di una certa fama che costringevano i piccoli commercianti al pizzo. Così sono nate anche compagnie di assicurazione e imprese edili che ora godono ora una certa rispettabilità. Altri si impegnavano a mandare ancor più in malora i kombinat pubblici, per poi comprarseli a prezzo vantaggioso. Questa è stata parte della privatizzazione. Adesso cercano consulenze per darsi una veste legale." Secondo Marinela in questa fase le istituzioni e le leggi del paese, sotto il profilo formale e contenutistico sono molto migliorate, ma la il rispetto della legalità è ancora in parte un miraggio. "Forse dovrà passare ancora una generazione perché si possa vivere da veri cittadini, e allora non ci sarà più bisogno di aspettare che ci liberi qualcuno", conclude guardando verso il monumento all’Unione sovietica. Tra suoi gradini di pietra, i figli del dopo ’89 saltano agilmente sulle tavole e sui roller, sotto lo sguardo severo delle statue che raffigurano il popolo nel momento della liberazione dell’Armata rossa. Ahmet, un vecchio turco batte il suo diario sui vecchi tasti di un’olivetti, soffermandosi di tanto in tanto ad osservare le evoluzioni dei ragazzi.. "Ecco l’internazionale anarchica dello skate", mi dice scherzando. Mi avvicino accennando una frase in serbo. Tradito dal mio accento latino, mi sento rispondere in uno strano spagnolo. "Negli anni ’90 ho girato l’Europa, lavorando qua e là. Torno e li ritrovo figli della Coca cola e della Nike, come li chiamano. Forse è invidia. Loro possono saltare, perché non sentono il peso di questi cinquant’anni. Io scrivo per liberarmi di un peso e loro saltano. E’ un modo di cercare il cielo". Dopo la prima pioggia di settembre, quel cielo madido di spazzi violasti orla gli scuri crinali del Vitosha. E nel traffico del tardo pomeriggio, Sofia appare sospesa tra l’epica eccitazione per la propria storia e la difficile attesa dell’allargamento a est, vissuta con fiducia e dignità. Rimane il ricordo di un paese misterioso e il sorriso un po’ sghembo di chi è abituato a starsene da sempre in disparte. "Il Danubio è una strada senza polvere", recita un vecchio detto balcanico.
Lorenzo Guglielmi – Notizie Est

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