I Balcani nel nuovo millennio

Pubblichiamo la breve sintesi sulla situazione attuale dei Balcani, presentata da Luka Zanoni durante il convegno annuale dell’Osservatorio sui Balcani il 5 dicembre scorso

11/12/2003, Luka Zanoni -

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Alla fine degli anni ’90 e precisamente con il conflitto in Kosovo – periodo che coincide con la nascita progettuale dell’Osservatorio sui Balcani – la regione balcanica si apprestava a chiudere il novecento in un clima di forte instabilità politica e sociale, sconvolta da un decennio di guerre terribili e sanguinose.

Nonostante i conflitti armati siano riusciti a lambire anche l’inizio del nuovo millennio, (l’onda lunga delle guerre divampate nei Balcani si è propagata con il conflitto in Macedonia e in parte con i conflitti a bassa intensità nella Serbia meridionale) non sembra che la regione balcanica possa in un futuro prossimo essere esposta al pericolo di forti recrudescenze armate, per non dire di nuove guerre del tipo di quelle degli anni ’90 (un’eccezione si potrebbe fare per le regioni a forte presenza albanese, dove le tensioni, anche armate, rimangono tutt’oggi piuttosto alte e facilmente infiammabili).

Il contesto regionale in diversi suoi aspetti è cambiato rispetto agli anni ’90, l’attenzione internazionale è più sensibile ai cambiamenti della regione, l’Unione europea sembra adottare un approccio multilaterale e più convinto rispetto agli esordi della sua politica verso il sud est europeo, non da ultimo poi occorre considerare il fatto che la regione balcanica o se vogliamo i soli Balcani Occidentali – come sono stati di recente denominati – sono pressoché circondati da imminenti membri dell’UE: Ungheria, Slovenia, Rep. Ceca nel 2004, mentre Romania, Bulgaria, e forse anche la Croazia, prevedono l’ingresso nel 2007. Questo nuovo contesto geopolitico se da un lato lascia spazio alla speranza, dall’altro va però relazionato con le realtà locali dei singoli paesi dell’area e con la persistenza del nazionalismo per alcuni di questi. Inoltre, non solo la scena politica, ma anche quella sociale ed economica di molte repubbliche della regione, pur con le doverose differenziazioni, rimangono piuttosto stagnanti e instabili.

I paesi che più soffrono ancora di maggiore instabilità sono alcune delle ex repubbliche jugoslave. In particolare la Serbia e Montenegro, Kosovo compreso, la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Macedonia.

Questi paesi hanno subito più di altri i cambiamenti in corso in questi ultimi anni. Croazia, BiH e Serbia hanno assistito alla caduta dei signori della guerra, da un lato con la morte di Tuđman e Izetbegović e dall’altro con la consegna al TPI dell’Aia di Slobodan Milošević, ma tutt’ora non hanno voltato completamente le spalle alle tentazioni nazionalistiche.

Pur essendo vero che col nuovo millennio la scena politica si è aperta alle correnti democratiche, socialdemocratiche e riformiste. Tuttavia, le difficoltà economiche dei rispettivi paesi, la durezza dei processi di transizione che colpiscono prevalentemente le classi più deboli (si pensi ai lavoratori di mezza età che difficilmente si inseriscono nei programmi di riqualificazione e ai pensionati), nonché la difficoltà dei politici moderati di adempiere alle promesse fatte agli elettori, hanno fatto sì che a breve distanza di tempo si potesse verificare un ritorno alle correnti nazionaliste.

Nella Bosnia ed Erzegovina, economicamente disastrata e pur sempre sotto protettorato internazionale, nell’ottobre 2002 ritornano i partiti cosiddetti nazionali (Sds, Sda e Hdz), che hanno avuto un ruolo decisivo nella sanguinosa politica degli anni ’90; in Croazia abbiamo da poco assistito (23 novembre) al ritorno della destra dell’HDZ di Ivo Sanader; infine in Serbia l’omicidio Ðinđić oltre ad aver sconvolto il paese ha innescato una spirale di lotte interne tra i politici e un clima di totale sfiducia dei cittadini verso la politica. Sfiducia mostratasi nelle elezioni presidenziali, fallite per la terza volta consecutiva e che hanno consegnato ai Radicali (partito dell’accusato per crimini di guerra ora all’Aia Vojislav Šešelj) una enorme fetta di voti. Le attese elezioni politiche anticipate, fissate per il 28 dicembre, secondo gli analisti locali, pur consegnando la vittoria alle forze di destra, non dovrebbero premiare come nel caso delle presidenziali il Partito radicale. Dalla Serbia è attesa – come per la Croazia – una inclinazione a destra capace, però, di portare avanti le riforme.

Il Kosovo dal canto suo rimane, a distanza di quattro anni dalla guerra, il vero buco nero dei Balcani. Le difficoltà di decisione sul suo futuro status vanno di pari passo con i periodici episodi di violenza, che minano ripetutamente la difficile convivenza di albanesi e serbi (oltre che di altre comunità minori). La discussione sullo status del Kosovo è stato rimandata a dopo il 2005, mantenendo così in vigore la formula internazionale: "prima gli standard e poi lo status". Formula ribadita durante il recente incontro delle due delegazioni (serbi e kosovari) tenutosi a Vienna la metà dello scorso ottobre, segnando con ciò il primo incontro ufficiale delle due delegazioni dopo quattro anni dai bombardamenti della NATO. Come altri paesi della regione il Kosovo presenta segni evidenti di una forte stagnazione economica. Le difficoltà legate alla privatizzazione sono ancora oggetto di discussione da parte dell’UNMIK, l’amministrazione internazionale dell’ONU. Quest’ultima non di rado è oggetto di critiche, da parte della comunità locali, per l’incapacità di definire il futuro del paese e l’incapacità di risolvere le enormi questioni di sicurezza. Tuttavia anche la scena politica kosovara non è certo delle migliori, mancano ancora forze democraticamente orientate in grado di condurre la retorica politica fuori dal nazionalismo.

Anche la Macedonia, uscita con grande soddisfazione internazionale dal conflitto albano-macedone del 2001 con l’Accordo di Ohrid, incontra ancora serie difficoltà nella implementazione completa di quanto previsto a Ohrid per una piena convivenza tra la comunità albanese e quella macedone. Gli appelli, talvolta armati, del sedicente ANA (Esercito Nazionale Albanese, presente anche nel Sud della Serbia e in Kosovo), lasciano, inoltre, lo spazio di manovra alle frange più radicali dei partiti politici, che non hanno certo abbandonato la retorica nazionalista e bellicosa.

La questione del nazionalismo rimane, quindi, con ogni probabilità il peso maggiore che i paesi dell’area si portano appresso.

Benché la riaffermazione dei partiti di stampo nazionalista in BiH, in Croazia e a breve anche in Serbia, possa essere letta come una tendenza a destra che potremmo definire "europea", pone al contempo la necessità di un’interrogazione sulle possibile conseguenze di tale svolta. Se diversi analisti concordano sul fatto che non ci sia una reciproca influenza dei rispettivi nazionalismi, rimane il fatto che i governi formati dai "nazionalisti moderati" (occorrerebbe soffermarsi su questa definizione), per poter mantenere un assetto politico adeguato all’avvicinamento all’UE, dovranno sapersi relazionare reciprocamente. Saranno in grado questi partiti "epurati o riformati" (è il caso dell’HDZ, ma solo in misura decisamente minore del SRS serbo – vedi recenti dichiarazioni sulla Grande Serbia fatte da Tomislav Nikolić leader del SRS) di portare avanti il necessario processo di riforme? Cambieranno le relazioni tra le ex repubbliche jugoslave con la svolta nazionalista?
Altra fonte di preoccupazione riguarda il processo di riconciliazione tra le ex repubbliche un tempo in guerra. Benché la svolta nazionalista non faciliti certo questo compito, occorre rilevare gli sforzi fatti fino ad ora dai politici locali (il presidente croato Stipe Mesić, e il presidente federale della Serbia e Montenegro Svetozar Marović) volti ad incrementare il processo di riconciliazione, formalizzati porgendo le scuse per i crimini commessi negli anni ’90. Tuttavia a fronte della formalità delle scuse, gli analisti più liberali lamentano l’inconsistenza del processo di riconciliazione, l’assenza di una vera e propria catarsi sociale e la conseguente non emergenza della verità. L’affermazione della verità sulle guerre degli anni ’90 è infatti ancora lontana dall’essere metabolizzata dagli stessi intellettuali che dovrebbero guidarne il processo. Riferendosi al caso della serbia, il noto politologo ed economista Vladimir Gligorov afferma che "gli intellettuali non sono pronti a discutere su questi temi", mentre uno dei più noti intellettuali dissidenti serbi Filip David, ritiene addirittura che la Serbia di oggi non sia cambiata affatto.

Certo, in diversi casi l’immaturità riguarda anche la società stessa, che in buona parte appoggia chi si è macchiato di crimini durante le guerre (vedi i casi di Gotovina, Norac, Mladić e i generali serbi recentemente accusati dal TPI). Non a caso una delle questioni su cui l’UE insiste di più per l’avanzamento del Processo di associazione e stabilità è proprio la collaborazione con il TPI dell’Aia. La consegna dei latitanti, quali: Mladić, Karađžić e Gotovina, potrebbe rappresentare un sensibile avanzamento nei confronti dell’elaborazione del passato o quanto meno verso un epilogo giudiziario dei crimini degli anni ’90.

Paradossalmente questa capacità di raffrontarsi col passato pare essere ora nelle mani degli eredi degli stessi partiti nazionalisti che hanno condotto una politica bellicosa negli anni precedenti. I nuovi governi, per poter accelerare il processo di avanzamento verso l’UE, dovranno risolvere innanzitutto le questioni legate ai ricercati latitanti.

In questo ambito, come in altri, si nota la differenza tra la politica della UE e quella degli USA.
I Balcani di oggi si trovano spesso combattuti tra la politica integrazionista dell’UE e le offerte degli USA. Il trovarsi tra l’incudine e il martello conduce in molti casi a scelte contraddittorie, come la firma con gli USA dell’accordo bilaterale sull’immunità dei soldati americani in missione all’estero. Accordo che cozza con il desiderio dell’UE, ovviamente non appoggiato dagli USA, di costituire un tribunale internazionale.

Per certi versi, e con la guerra in Iraq e il sostegno offerto dai paesi balcanici, si mostra che gli USA spesso guidano una politica (senza mancare di far leva sugli aiuti finanziari e militari ai paesi in questione) in contrapposizione all’UE, benché sostengano pubblicamente il contrario. Il favoreggiamento alla Serbia del dopo Ðinđić e la penalizzazione della Croazia di Račan per aver l’una favorito i piani militari degli USA in Iraq, la seconda per non aver appoggiato gli USA nella guerra irachena, mostrano bene l’influenza della politica estera americana nella regione.

In conclusione possiamo dire che i Balcani del nuovo millennio sono cambiati rispetto agli inizi degli anni ’90. Benché si paventi il ritorno dei partiti con tendenze nazionaliste, come abbiamo cercato di mostrare si qui le condizioni di possibilità di un consistente revanscismo e della conduzione di una politica aggressiva sembrano essere piuttosto limitate. Valgano per tutte le riforme interne dell’HDZ croato e le dichiarazioni di Ivo Sanader sulla continuazione del processo di riforme, nonché alle difficoltà di formare il nuovo esecutivo croato e gli inviti dell’UE per un governo allargato alla SDP di Račan.

Non va dimenticato poi che nell’intera regione rimane piuttosto consistente e decisivo l’aiuto economico esterno. Paesi come la Serbia, la Bosnia, la Macedonia, l’Albania, solo per citare i più significativi in questo contesto, soffrono della persistente assenza di una stabilizzazione economica e della possibilità di sviluppo di un mercato interno. Passi significativi si stanno facendo lungo la creazione di una zona di interscambio del sud est europeo, requisito richiesto dal Patto di Stabilità per il SEE. Il recente accordo dei ministri degli esteri della regione sulla creazione di una zona di libero mercato, prosegue in parallelo con la ancor lenta abolizione dei visti interni. Condizioni che consentirebbero una maggiore libertà di movimento per gli oltre 50 milioni di cittadini dell’area. Cifra questa che rappresenta pure un interesse economico per i paesi dell’UE. Un esempio di tale interesse, che coincide con una sorta di monopolio esterno, è rappresentato dal colosso tedesco WAZ. Questo consorzio tedesco ha acquistato la maggior parte dei quotidiani della regione, puntando in questo modo alla creazione di un significativo bacino di utenti che godrebbero della realizzazione di una fitta rete pubblicitaria attraverso i quotidiani locali. Le cattive condizioni economiche in cui versano la maggior parte delle aziende locali alle prese con un forzato processo di privatizzazione (spesso in assenza o quasi di leggi adeguate) rende il mercato del Sud Est Europa da un lato difficile per i rischi e la assenza di garanzie per gli investitori, ma dall’altro appetibile per i grossi attori del processo di globalizzazione economica (un analogo italiano della WAZ, benché in altro ambito, potrebbe essere rappresentato dalle "conquiste" del gruppo bancario Unicredito, con investimenti in diversi paesi balcanici).

I Balcani di oggi come abbiamo cercato di mostrare pur permettendo una lettura per certi versi speranzosa, non possono mancare di una costante attenzione. La trasformazione in corso, non solo in ambito economico, ma anche in quello politico e sociale non può essere trascurata, a maggior ragione se si considera l’estrema prossimità geografica e culturale della regione, ormai imprescindibile elemento della costituzione dell’Unione europea.

In un certo senso spetta a questa parte di Adriatico portare ad espressione i Balcani, nella misura in cui noi stessi possiamo diventare amplificatore degli eventi, non solo di cronaca, ma anche culturali e sociali che si verificano nel sud est europeo. Di qui l’idea di poter proseguire con un portale dedicato all’informazione dai e sui Balcani, che sia in grado di fornire un’immagine dei Balcani che in primo luogo possa raccogliere la lezione della Todorova, quindi lontana dai vari balcanismi e atteggiamenti colonialisti (mai del tutto assopiti: la polemica tra l’ambasciata italiana e il dott. Teokarević potrebbe essere inscritta in questo contesto), e in secondo luogo, ma del tutto correlato al primo, contribuire ad una conoscenza responsabile e rispettosa dell’intera regione balcanica.

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