Paradossi euro-balcanici
Se l’Unione europea è quella domus comune verso cui tutti, in un modo o nell’altro, tendiamo, ebbene che allora si cominci col mettere a nudo i rispettivi paradossi, ad avere il coraggio e l’onestà intellettuale dell’autocritica
Paradossi balcanici
Qualche anno fa Božidar Jakšić pubblicò un libro dal titolo Paradossi balcanici, una raccolta di scritti che abbracciavano il periodo degli anni ’90, una sorta di collezione decennale di pensieri espressi spesso nell’indifferenza dei propri concittadini. Nei testi raccolti viene posta bene in risalto la degenerazione della ex Jugoslavia e in particolare il clima che si respirava nella Serbia di quegli anni. Da questo testo si è preso vagamente spunto per ciò che segue, idee in libertà affrancate da qualsiasi intento politico, semplici riflessioni su una complessità non trascurabile.
Guardiamo la Serbia. Il vero problema della Serbia oggi, come pure di buona parte dei Balcani, è la volontà di porsi nel mondo e nel contempo di opporvisi. Atteggiamento che potrebbe essere connaturato al forte desiderio di affermazione della propria identità. Chi ne ha visto di più su questa strada è probabilmente Radomir Konstantinović, nel suo celebre saggio La filosofia del villaggio (Filosofija palanke). La chiusura dello spirito della palanka, ossia di quel limbo tra la città e il villaggio, al contempo né città né villaggio, e il suo ripiegamento su se stessa, le impediscono di avere una posizione positiva nei confronti del mondo. Piuttosto si pone il mondo di fronte per tenerlo a bada, perché teme il suo sopravvento. Al tempo stesso cerca, però, di far presa sul quel mondo che teme, imponendosi come un blocco compatto, ossia sub specie dell’omogeneità nazionale.
Ciò che è in questione non è quindi l’appartenenza comune ad uno stato civile, non è l’idea di cittadino avente diritti e doveri da rispettare, ma un’appartenenza ad gruppo sociale etnicamente omogeneo e affiliato, compatto, che condivide i medesimi valori ideologicamente fondati sulla tradizione, o meglio sulla reinvenzione della tradizione, sulla neocomposizione di un sostrato sociale che funge da fulcro dell’identità collettiva. A tutto ciò appartengono, nel caso della Serbia, i grandi miti speso evocati nell’ultimo ventennio, la Serbia celeste, il principe Lazar, il Kosovo perduto, la Serbia come martire e baluardo contro l’invasione islamica (mito quest’ultimo fatto proprio anche dall’amministrazione americana a proprio vantaggio nella lotta al t[]ismo globale…).
Lo spirito della palanka, tuttora presente nella Serbia del nuovo millennio, permea in larga parte la sua società, vincolandola ad una situazione di ristagno, di immobilismo tanto economico che sociale, una sorta di frollatura dello Stato, in attesa di un qualche epilogo stagionativo. Perennemente in crisi la Serbia non riesce a scrollarsi di dosso gli enormi fardelli del passato. Oltretutto il nuovo corso politico sembra fare il possibile per riabilitare un passato scomodo e non ancora elaborato, come dire: si pesca nel torbido.
Spesso sulla scena politica non è possibile nemmeno modulare le categorie di destra e sinistra quali siamo soliti adoperare nel linguaggio quotidiano, per il semplice fatto che in molti casi non esiste un’analoga e corrispondente dialettica politica. Forse si potrebbe più facilmente parlare di partiti pro occidente e partiti nazionalisti, con una trasversalità del nazionalismo. Vale a dire una differenziazione su ampia scala in grado di dare un’idea della scena politica locale tenendo presente le istanze trasversali fondate sull’omogeneizzazione sociale.
In questo senso, si rilevano tendenze nazionalistiche anche nei cosiddetti partiti riformisti. Valga per tutte una citazione di uno dei più ironici editorialisti serbi, Teofil Panćić per il settimanale Vreme, intervistato da radio B92: "Milošević è un nazionalista pentium 1, Koštunica è un nazionalista pentium 2 e Tadić dice, comprate me io sono la versione aggiornata, sono un nazionalista pentium 3". Slobodan Milošević sappiamo tutti chi è, Vojislav Koštunica è l’attuale premier, già presidente federale e leader del partito DSS, mentre Boris Tadić è l’ex ministro della difesa, pure federale, e leader del DS post Ðinđić.
Come definire i rispettivi partiti, alla luce della ironia di Panćić? In questo caso abbiamo il Partito socialista serbo di Milošević, che dovrebbe essere un partito di sinistra, il partito di Koštunica, uscito dal Partito democratico (DS) per disaccordi politici creando una corrente diciamo opposta, quindi considerato come partito di destra, conservatore e cosiddetto "moderatamente nazionalista". Poi abbiamo il Partito democratico, storicamente oppositore di Milošević, tra i leader delle proteste di piazza, uno dei maggiori partiti della ex coalizione DOS, e partito di governo fino alle ultime elezioni. Il dramma dei partiti cosiddetti riformisti sta nella loro difficoltà a misurare la distanza dall’istanza nazionalista e, conseguentemente, nel portare a compimento il processo di catarsi sociale.
Allo stesso tempo, tuttavia, sembra che l’idea dell’avvicinamento all’UE sia la priorità di tutti i partiti dei Balcani, dalla Serbia alla Croazia, dalla Bosnia Erzegovina alla Macedonia, ecc.
Guardiamo la Croazia e gli eredi di Tuđman al potere. Al governo Sanader non manca che la consegna del generale Ante Gotovina, incriminato dal Tribunale internazionale dell’Aia per crimini di guerra, per poter dimostrare di avanzare con passo deciso verso l’Unione europea. I timori del governo socialdemocratico di Račan sono stati dissipati dalla HDZ erede di Tuđman. Quest’ultima ha avuto paradossalmente meno problemi a muoversi su un terreno che avrebbe dovuto essere quello della sinistra democratica croata. Un fattore decisivo è giocato dall’assenza di mobilitazioni di piazza per le recenti consegne di generali croati all’Aia, ma non bisogna dimenticare del resto la visita del premier al rito ortodosso durante il natale o le aperture del governo verso il partito della minoranza serba, il quale ha ricambiato appoggiando dall’esterno il governo Sanader.
Sicché il governo di Ivo Sanader, che dovrebbe essere più conservatore e sensibile ai richiami nazionali, spinge l’acceleratore verso l’Unione europea, da un lato consapevole che il fallimento dell’associazione e dell’integrazione gli costerebbe caro in punti politici, dall’altro perché è sicuro di saper controllare le frange più nazionaliste ed estremiste dei suoi simpatizzanti.
Ma i paradossi affliggono pure la Slovenia, in misura minore nel suo volersi distanziare da qualsiasi balcanismo, ma in misura decisamente maggiore nelle istanze xenofobe che la attraversano, senza dimenticare la nota questione dei "cancellati" e i centinaia di milioni di marchi sottratti ai cittadini croati e bosniaco-erzegovesi negli anni ’90, tramite la Ljubljanska Banka. La Slovenia, come altri paesi di imminente ingresso, teme la perdita della propria identità, una conquista relativamente breve e considerata già minacciata dalle richieste delle comunità islamiche locali. Il timore di perdere la lingua, la cultura e le proprie radici, cozza con la corsa verso il presunto multiculturalismo europeo.
C’è poi un paradosso che riguarda un po’ tutti i Balcani ed è Slavoj Žižek a suggerirlo, in un articolo ripreso da Internazionale (16-22 aprile). "Proprio i paesi ex comunisti che sostengono con più vigore la ‘guerra al t[]ismo’ proclamata dagli Stati Uniti temono allo stesso tempo che la loro identità culturale e la loro stessa sopravvivenza siano minacciate dall’avanzata dell”americanizzazione’ culturale, il prezzo da pagare per l’immersione nel capitalismo globale. Siamo di fronte al paradosso di un antiamericanismo filo Bush".
Paradossi europei
Anche l’UE, però, non sfugge ai paradossi. La difficoltà di presentarsi come vera unione di stati, radicata nell’identità nazionale degli stati membri, soprattutto in politica estera e nelle politiche culturali, è senz’altro uno dei principali. Sono ancora molti i pregiudizi riguardanti i paesi candidati e spesso non si tiene conto del rigore imposto ai nuovi membri, i quali devono sottoporsi a sforzi notevoli in un tempo relativamente breve per poter fare ingresso nella nuova domus europea. Sforzi che peraltro gli stati europei occidentali hanno compiuto in oltre 30 anni.
Guardato da vicino l’imminente ingresso di dieci nuovi membri non dà certo spazio ad un entusiastico ottimismo. Sul versante orientale ci si getta verso qualcosa di immaginario più che di tangibile. Ciò è confermato, tra l’altro, dalla disponibilità al finanziamento dei nuovi membri, i quali riceveranno molto meno dei vecchi in termini di ripartizione delle risorse finanziarie comunitarie.
Si direbbe che anche gli stati membri dell’Unione nutrano un timore difficilmente scalzabile consistente nella perdita della propria supremazia (ancora pensata su base nazionale e non comunitaria). In gioco non è tanto l’idea della cittadinanza estensibile a tutti, un’eguaglianza tra nuovi e vecchi membri, ma bensì nuove restrizioni, poco visibili, tese a tenere a bada i cugini dell’est. Ovvero, nuove frontiere a tempo per i lavoratori dell’est, motivate dal timore di una fantomatica invasione. Tanto è che per quanto riguarda la libertà di circolazione, ancora una volta, i diritti delle merci sopravanzano quelli degli esseri umani.
All’entusiasmo dello storico primo maggio, più che comprensibile e condivisibile, fanno da contraltare le visioni di un’Europa a due o tre velocità, un Europa divisa in I e II classe, uno stesso treno che corre da est a ovest, ma con comfort nettamente differenti. D’altra parte ricordiamo che si predica dall’alto la tolleranza etnica per i cugini balcanici e si tollera in casa propria l’arroganza razzista e xenofoba di certi partiti politici, in alcuni casi pure di governo.
La politica dell’UE nei confronti del suo est non abbonda di grandi imprese, anzi fino ad ora si è trattato più che altro di timidi tentativi verso ciò che a molti appare piuttosto come un destinale processo storico, un cambiamento tale che, se reggerà, consentirà che nulla sia più come prima.
Inoltre l’UE sembra tenere poco in considerazione ciò che comunemente viene definito il processo di transizione. Che per quanto riguarda i Balcani occidentali, e in particolare i paesi della ex Jugoslavia, coincide con un periodo bellico cui non ha fatto seguito un chiaro e definito processo di elaborazione del passato. Un confronto necessario per portare allo scoperto non solo i crimini e la conseguente elaborazione degli stessi, ma anche quelle élite affaristiche che hanno approfittato delle guerre, quegli eroi nazionali di dubbio splendore, matrimonio di criminalità mafiosa e politica affarista, nuovi baroni e simboli di un patriottismo crudele.
Quindi, non si può guardare l’Europa occidentale solo sotto l’aspetto delle cosiddette libertà individuali, del rispetto per i diritti civili o della creazione degli stessi. Occorre vedere l’esportazione del modello stato-nazione nel vicino est, e il fallimentare progetto di replicarlo da parte dei paesi ex comunisti, quanto più irrealizzabile data la complessità dell’area. E soprattutto non dimenticare che l’Europa dei valori ha tenuto a battesimo i più grandi crimini della storia dell’umanità, là dove l’annientamento sistematico dell’Altro è divenuto paradigma di tutti i crimini che ne hanno fatto seguito.
Non dimentichiamo infine il mancato superamento dei protettorati europei: Bosnia Erzegovina e Kosovo. Là dove l’inazione europea, ammantata di sani principi democratici, produce una quantità di frustrazione tale da rendere esplosivi oltremisura questi luoghi d’Europa. Luoghi in cui la frollatura dello stato e dei suoi cittadini, considerati ancora civilmente immaturi, grava in parte sulla mancata capacità europea di pensare con lungimiranza a politiche adeguate. Il paradosso in questo caso consiste nel rilevare l’incapacità di autogovernarsi dei balcanici di fronte alla incapacità di pensare a strategie politiche di stabilizzazione di lunga durata, sicché là dove si vorrebbe la democrazia si rischia di instaurare una politica coloniale.
Se l’Unione europea è quella domus comune verso cui tutti, in un modo o nell’altro, tendiamo, ebbene che allora si cominci col mettere a nudo i rispettivi paradossi, ad avere il coraggio e l’onestà intellettuale dell’autocritica, smettendo di trincerarsi nell’acritica esaltazione di termini sgualciti dall’eccessivo impiego, quali società civile, diritti umani, democratizzazione e amenità affini.
Perché di fronte all’imminente allargamento verso est dell’Unione europea, di fronte al decisivo passaggio storico, non dobbiamo cessare di chiederci che Europa è quella che sta nascendo. Perché non è accettabile battere la critica sull’est eludendo di fare altrettanto in casa propria.
Vedi anche:
Slovenia: cancellati, vergognoso silenzio della Commissione europea
L’Europa promessa: i Balcani e l’allargamento della UE