Il difficile crinale dello sviluppo locale

Non esiste sviluppo contrapposto a sottosviluppo; ha senso fare cooperazione internazionale? Sono solo due degli stimoli presenti in questo testo nel quale si ripercorre il cammino dell’Osservatorio sul tema dello sviluppo locale.

14/05/2004, Michele Nardelli -

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Campi

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"Il centro politico è dappertutto
e la circonferenza in nessun luogo"
Silvio Trentin

Ci ritroviamo a Civitas dopo due anni da quando proprio in queste sale iniziammo un percorso di riflessione e di ricerca sullo sviluppo locale autosostenibile, come modalità di abitare la ricostruzione di un tessuto economico e sociale di qualità nell’Europa sud orientale e più in generale le dinamiche della globalizzazione. Vorremmo provare un primo bilancio di questo lavoro, ma insieme anche riflettere su come tale ricerca ci abbia fornito una chiave di lettura rispetto a quanto sta accadendo nel contesto globale e sulle indicazioni che ci possono venire per estendere il nostro campo di ricerca-azione in una dimensione più ampia, ovvero euromediterranea.
La tesi di fondo che sostenemmo due anni or sono era a grandi linee la seguente:
– la globalizzazione schiaccia i territori, determinando omologazione e spaesamento (perdita di identità);
– la progressiva finanziarizzazione dell’economia si alimenta attraverso processi di accentuata deregolazione, anima quest’ultima del neoliberismo;
– l’alternativa al neoliberismo possono essere i territori, il territorio inteso come soggetto vivente, la sua ricchezza materiale ed immateriale (storia, culture, tradizioni, saperi…) ovvero la strada dello sviluppo locale autosostenibile;
– forti identità economiche locali possono essere in grado di interagire con i flussi lunghi dell’economia globale e al tempo stesso di orientare gli aiuti internazionali (altrimenti insostenibili, deresponsabilizzanti, nocivi).

Il manifesto per lo sviluppo locale nei Balcani

A partire da queste considerazioni avviammo l’elaborazione del documento "Verso un manifesto per lo sviluppo locale nei Balcani". I punti chiave di tale Manifesto erano:
– i Balcani come luogo di massima deregolazione, terreno fertile di un’accentuata finanziarizzazione e pertanto – contrariamente alle analisi correnti che descrivono questa regione come area di arretratezza e di sottosviluppo – luogo della ipermodernità, chiave questa per una lettura non superficiale degli avvenimenti degli anni ’90;
– il passaggio dall’economia pianificata di stato all’economia di mercato ha rappresentato un contesto per molti versi inedito, esponendo questi territori alle dinamiche più hard dell’economia globale;
– il fallimento delle politiche "Frankestein" del FMI e della Banca Mondiale, per il loro dogmatismo e per la loro ignoranza dei contesti locali;
– il carattere perverso ed insostenibile degli aiuti internazionali, che chiama in causa l’azione delle istituzioni internazionali, della cooperazione governativa ma anche di un "circo umanitario" che ha fatto proprio il tecnicismo antipolitico del sistema degli aiuti, concorrendo alla spoliticizzazione delle strategie di ricostruzione sociale e civile dei territori;
– l’emergere in questo contesto di un’economia nera, grigia e spesso criminale che vede come protagonisti quegli stessi soggetti che hanno avuto una parte significativa nelle guerre e di una nuova classe di "signori degli uomini e della terra" che, a fronte della crisi della politica, delle istituzioni e dei corpi intermedi, nonché di un’accentuata deregolazione, incarnano quella moderna tendenza che va sotto il nome di "neofeudalesimo";
– infine la tesi dello sviluppo locale come ipotesi di lavoro, favorendo la valorizzazione delle risorse endogene, come modalità di costruire un nuovo tessuto economico e sociale.

Ascoltare il territorio: i workshop

Alla redazione del "manifesto" è seguita un’attività di intervista ai territori e la realizzazione di specifici workshop di presentazione dei risultati delle interviste e dello stesso "manifesto" nelle città di Kraljevo, Prijedor, Pec/Peja, Scutari, Kragujevac, Sarajevo, mentre è in corso di preparazione quello a Zavidovici.
Lo scopo di questa ricerca era sinteticamente quello di:
– ascoltare il territorio, ovvero comprendere il grado di autopercezione dei territori, delle risorse locali e degli strumenti per valorizzarne le caratteristiche;
– individuare punti di forza e di criticità (agire sull’orgoglio);
– selezionare le attività economiche che hanno a che vedere con il carattere endogeno dello sviluppo (la dimensione integrata dello sviluppo);
– far emergere il "genius loci", o in altre parole lavorare sull’unicità del territorio e dei suoi prodotti (la biodiversità);
– costruire coesione sociale, quel necessario clima di fiducia e una nuova cultura della responsabilità (dove l’unica discriminante è l’amore per il territorio);
– fare patto di territorio (unire i potenziali attori di sviluppo locale per affrontare insieme la sfida della globalizzazione);
– sviluppare una radicata cultura dell’autogoverno.

La Conferenza di Belgrado

Nell’ambito del meeting internazionale itinerante "Danubio, l’Europa s’incontra" svoltosi nel settembre scorso nelle capitali europee del Danubio, abbiamo sottoposto ad una prima verifica idee e percorso, ricevendone un significativo incoraggiamento nel proseguire la ricerca. In particolare nella Conferenza di Belgrado è emerso con forza:
– il fallimento delle politiche di riforma della comunità internazionale, tanto che la situazione dopo anni di "amministrazione controllata" tanto in Bosnia Erzegovina come in Kossovo è – nonostante gli aiuti – paradossalmente peggiorata per un numero crescente di cittadini deprivati di ogni tutela, a dimostrazione che il dogmatismo delle riforme non è in grado di fornire risposte includenti;
– la necessità di avviare un grande dibattito nei paesi dell’area balcanica, al duplice scopo di sottrarsi alla tutela internazionale (ogni paese e territorio deve poter decidere le linee della propria politica economica) e di darsi un diverso approccio multidisciplinare ed integrato allo sviluppo economico;
– l’urgenza di un’Agenda di lavoro rivolta alla Commissione Europea per una diversa strategia di relazione con i paesi dell’area balcanica (vedere per questo il documento del Panel B della Conferenza di Belgrado – www.osservatoriobalcani.org/danubio).

Le città e la questione delle aree industriali dismesse

Lungo il percorso di ricerca sono emersi spunti interessanti di conoscenza ed elaborazione. In particolare nei workshop di Kragujevac e nel percorso preparatorio di quello a Zavidovici (non a caso, le città della Zastava e della Krivaja) è stata dedicata una particolare attenzione al tema del futuro dei grandi kombinat industriali e delle aree industriali dimesse o in via di dismissione. Si è rilevato infatti come questo tema rappresenti una questione cruciale (non dissimile peraltro al dibattito in corso nelle città dell’occidente capitalistico) per il futuro degli agglomerati urbani, presentando contestualmente grandi rischi di depauperamento dei territori (socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti e delle rendite) ma anche una grande occasione di riqualificazione industriale ed urbanistica.
Proprio a partire dall’attualità di questa discussione anche nelle nostre aree urbane (spesso accompagnata da ampie quanto inconcludenti e incompetenti polemiche), testimonianza fra l’altro dei molti punti in comune dei modelli sociali e politici che si sono sfidati lungo il ‘900, si è ragionato su come mettere in rete i saperi e le buone prassi (ma anche i rischi) di progetti di riordino che segneranno il futuro di gran parte delle città europee.

L’allarme del Sindaco di Sarajevo Muhidin Hamamdzic

Nel workshop svoltosi a febbraio nella città di Sarajevo, sono inoltre emersi tre aspetti di particolare rilievo:
– nel descrivere il fallimento delle ricette/aiuti internazionali il sindaco di Sarajevo ha messo l’accento sulla gravità della situazione, resa oltremodo pesante da un’intelaiatura istituzionale seguita agli accordi di Dayton che dopo otto anni mostra tutta la propria insostenibilità;
– la trasversalità politico-culturale dell’approccio territorialista, l’emergere cioè di una potenziale scomposizione/ricomposizione politico-culturale che ha come discriminante un atteggiamento responsabile verso le risorse del territorio e le future generazioni;
– il valore dell’impresa sociale come modalità né statalista, né privatistica di pensare ed agire l’economia, con particolare attenzione al sostegno verso una nuova legislazione in materia di impresa sociale (ambito nel quale di particolare interesse è l’impegno di Consolida).

Oltre la riflessione: buone pratiche

Altro aspetto interessante di questo percorso di ricerca che proseguirà con nuovi workshop (e con il programma ad esso ispirato di formazione nei territori dove operano le Agenzie della Democrazia Locale, finanziato dal governo francese), è il fatto che proprio a partire da questo lavoro sono germinati una serie di progetti pilota e di iniziative. Ne citiamo alcune:
– la Put Vode, la Strada dell’acqua che punta alla valorizzazione delle risorse termali nonché storico-archeologiche nell’area di Kraljevo;
– la ricerca e realizzazione di un depliant illustrativo sui prodotti locali di Pec/Peja, che ha messo al lavoro decine di giovani che forse per la prima volta hanno avuto la percezione della ricchezza del proprio territorio;
– il sostegno ad una nuova legislazione in Bosnia Erzegovina sull’impresa sociale;
– le attività nelle filiere dei prodotti naturali e del turismo rurale in Serbia come in Bosnia Erzegovina;
– l’idea che si sta perfezionando di utilizzare le rimesse degli immigrati per lo sviluppo locale (un’alternativa al proliferare delle agenzie di trasferimento veloce del denaro, veri e propri esempi di taglieggiamento);
– l’idea stessa della Piazza Europa in Civitas 2004 e nel far questo l’incontro con gli "Obiettivi del Millennio" di UNDP.

Lo sguardo oltre i Balcani

Arrivati a questo punto, una considerazione generale ed alcune indicazioni di lavoro. Quanto abbiamo analizzato relativamente al contesto balcanico ci deve portare a riflettere sulle dinamiche che stanno portando alla – passatemi il termine – balcanizzazione del mondo.
Per questo è necessario un piccolo passo indietro.
I due grandi pensieri che si sono confrontati nella sfida del ‘900 (quello liberale e quello socialista) avevano in realtà molte cose in comune: l’essere entrambi figli del pensiero positivista, una comune idea di sviluppo fondata sul progredire delle forze produttive e simboleggiata dall’industrialismo, l’idea che in fondo l’uomo tutto potesse (mi riferisco a quello che Marco Revelli ha definito "il delirio dell’homo faber") e la corsa al progresso, che portava Hannah Arendt nel 1950 a scrivere: «…Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente "artificiale", tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto quel che è loro misteriosamente dato.»
Avevano però un’altra cosa in comune: la sfida nel dare risposte all’insieme dell’umanità. Ora, nel momento in cui uno dei due modelli implode e si accartoccia su se stesso, emerge l’insostenibilità planetaria del modello uscito vincente dalla sfida del ‘900. E il neoliberismo è la risposta all’insostenibilità del modello di sviluppo occidentale, introducendo un elemento di inquietante novità: il neoliberismo teorizza l’esclusione, per la prima volta nella storia del pensiero moderno non ci si pone una nuova frontiera per l’insieme dell’umanità, ma si teorizza apertamente la deriva di una sua parte.
Ne consegue che:
– le carte dei diritti internazionali diventano ingombranti;
– la guerra diviene la risposta normale degli inclusi contro gli esclusi (materie prime, primato del dollaro…);
– le democrazie, inutili orpelli che limitano l’autoregolazione dei mercati.
La globalizzazione, infine, modifica il contesto precedente, rende a-geografica la linea di demarcazione fra inclusione ed esclusione…
Tutto questo ci pone nella necessità di reindagare le nostre categorie di lettura della realtà perché in questo nuovo quadro vacillano le chiavi fin qui utilizzate per descrivere il mondo:
– il nord e il sud;
– lo sviluppo ed il sottosviluppo, con i loro parametri di misurazione;
– il concetto di autodeterminazione;
– il senso stesso del fare cooperazione internazionale.
Non sviluppo queste tracce, le indico solo come necessità di ripensarle in profondità, perché tendenzialmente obsolete.

Qualche provocazione

Se tutto questo ha un qualche fondamento, allora ne derivano una serie di indicazioni che ci dovrebbero portare a rimettere mano alle nostre analisi e alle nostre strumentazioni progettuali. Molto schematicamente, questo significa che:
– non ci sono paesi poveri, ogni paese è ricco di suo, il problema è semmai come riuscire a creare autoconsapevolezza delle proprie risorse;
– una nuova cooperazione internazionale deve essere orientata al sostegno di questo processo, che è in primo luogo di natura culturale;
– è necessario sostenere processi di autogoverno locale;
– costruire coesione sociale significa anche avviare processi di elaborazione del conflitto, non solo nelle società dilaniate da conflitti etnici ma anche dove prevale l’ossessione (penso agli Stati Uniti)… l’elaborazione del conflitto, dunque, come criterio di sostenibilità della cooperazione internazionale;
– costruire reti di sostegno alla biodiversità e all’unicità dei prodotti, ed insieme reti di prossimità e di reciprocità.

La sfida euromediterranea

Oggi l’Europa si allarga a dieci nuovi paesi; è un fatto importante e largamente sottovalutato, perché prevale nei diversi schieramenti una sorta di euroscetticismo e l’incomprensione sostanziale del fatto che sull’Europa si stia oggi giocando una partita cruciale. Da un lato c’è un’Europa quale presidio di cultura e civiltà sociale e giuridica, dall’altro quella che qualcuno ha chiamato "Euroamerica", un continente sostanzialmente diviso e subalterno agli interessi di un impero senza qualità.
Un’Europa non a caso invocata dall’America latina, dalla nuova Unione degli stati africani, dal Medio oriente per riaprire una dialettica internazionale di fronte alle tentazioni imperiali del neofondamentalismo nordamericano. Per questo abbiamo bisogno di un’Europa autorevole, che passa attraverso la sua capacità di riunificarsi e di aprire una fase di nuove relazioni internazionali basata sul rispetto delle diverse culture, della reciprocità e della pace.
In questo quadro parliamo di prospettiva euromediterranea, e perciò intendiamo mettere a disposizione di questa prospettiva la nostra stessa ricerca e modalità di pensare l’economia dei luoghi. Non a caso il prossimo appuntamento sarà a Reggio Calabria, dove pensiamo di promuovere a settembre una nuova tappa nella riflessione sullo sviluppo locale autosostenibile, a partire dalle relazioni intermediterranee e di cooperazione sud-sud.
Per concludere. Siamo a Padova. Al fondo di tutto questo ragionamento c’è un forte richiamo al federalismo antropologico di Silvio Trentin, un autore ai più sconosciuto il cui insegnamento avrebbe permesso di uscire in maniera diversa dalla sfida del XX secolo e che ancor oggi ci può aiutare in una ricerca che ponga al centro il territorio come modalità di abitare la globalizzazione. Un crinale impervio, complesso, difficile, ma straordinariamente interessante.

Vedi anche:

 

Verso un manifesto per lo sviluppo locale nei Balcani

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