Elezioni in Serbia: tra gaffe e maquillage
Mancano pochissimi giorni alle elezioni presidenziali in Serbia e la campagna elettorale, che non è stata proprio fair, giunge al termine. Un editoriale del quotidiano belgradese "Danas" alla vigilia delle elezioni.
Pubblicato sull’edizione odierna del quotidiano belgradese "Danas"
Traduzione di Luka Zanoni
Fine della campagna per le elezioni presidenziali, e come di consueto, a causa del silenzio elettorale, un problema per i giornalisti della carta stampata. Oggi, un giorno prima del silenzio elettorale, davanti alla sezione speciale del Tribunale distrettuale di Belgrado dovrebbe parlare Milorad Ulemek-Legija, il principale accusato per l’omicidio di Zoran Ðinđić, mentre i due candidati più seri per l’accesso al ballottaggio, Boris Tadić e Dragan Maršićanin, hanno annunciato i loro meeting finali. È terminata la conta di un’altra campagna che riceve l’epiteto di "sporca", diventato il luogo comune delle competizioni pre elettorali nella Serbia del nuovo corso.
La testimonianza di Ulemek viene messa in questione dai rappresentanti della difesa, dal momento che, presuppongono, potrebbe influenzare l’esito delle elezioni. La sua consegna il 2 maggio di quest’anno è stata uno degli eventi che hanno segnato questa campagna, rammentando alla Serbia il suo recente passato appesantito con i crimini della guerra e del tempo di pace, e con le violenze sistematicamente fondate. Sia gli analisti che gli attori politici hanno avanzato la supposizione che l’ex comandante della famigerata Unità per le operazioni speciali possa influenzare le elezioni, ossia il futuro della Serbia: i rivali di Boris Tadić hanno fatto a gara, insinuando che "Ðinđić lo hanno ucciso i suoi", una formula attribuita alla madre di Ðinđić, la quale inutilmente ha cercato di contestare di aver detto una cosa simile.
Ha fatto seguito una insolita gaffe creata dal comitato del candidato per il Partito democratico della Serbia, Dragan Maršićanin: il capo del comitato Dejan Mihajlov ha accusato il candidato rivale Boris Tadić dell’omicidio di Zoran Ðinđić. O almeno della partecipazione, in riferimento al fatto che il comitato ha reso noto che Tadić e Živković sanno chi ha ucciso il premier. È forse con questo che la campagna si è meritata l’epiteto di sporca. In due giorni i DSS hanno fatto due autogol: alla conferenza stampa non hanno voluto rispondere alle domande, sono stati arroganti e maleducati. Ad un tratto è sparito il capo della campagna Dejan Mihajlov (veramente, che fine ha fatto quell’uomo); come se i primi effetti dei sondaggi della patetica offesa avessero messo in mostra che questo tipo di comunicazione pubblica causa solo danni.
I pronostici, ad un giorno solo dal "D-day", dicono che si andrà al ballottaggio, in cui ci risarà di sicuro il candidato del Partito radicale serbo Tomislav Nikolić. Gli altri partecipanti saranno Boris Tadić e Dragan Maršićanin, secondo l’ordine che ne hanno dato i recenti sondaggi resi noti in questi giorni da rispettabili agenzie. Il pubblico è bombardato da speculazioni su chi potrebbe essere il miglior concorrente di Nikolić, mentre questi due concorrenti, su qualcosa che qualcuno in modo poco serio ha definito blocco democratico, mostrano le loro intenzioni.
Il governo di Vojislav Koštunica ha reso noto che il suo partito non appoggerà Tadić, mentre Dragan Maršićanin ha dichiarato che "non può immaginare" che la Serbia al secondo turno debba scegliere tra le opzioni politiche di Tadić e Nikolić.
Una seria e ben pensata campagna l’ha organizzata uno dei Serbi più ricchi, Bogoljub Karić, il quale ha ottenuto pure il sostegno delle donne del congresso americano. Una settimana prima delle elezioni ha relativizzato l’annunciato sostegno a Boris Tadić al secondo turno, dicendo che vincerà lui sicuramente.
Il candidato dei radicali, tutti ne sono consapevoli, otterrà il maggior numero di voti. Nel programma, a differenza di Sanader e della sua truccatura dei veterani della guerra in Croazia, Tomislav Nikolić non può nascondere una sostanza antidemocratica e anticivile.
Forse non è solo un dettaglio ornamentale di queste elezioni il fatto che solo quattro mila cittadini della diaspora si siano dichiarati per le elezioni: dimostrazione che è grande il numero di tutti quelli che negli anni novanta e prima hanno votato "con piedi" e che non sono interessati all’avventura dello stato che hanno abbandonato per sempre.
A quelli che non se ne sono andati rimane un’ulteriore scelta per il male minore.
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