Bosnia, la memoria dei campi di concentramento
12 anni fa, insieme ad una troupe della ITN, il giornalista Ed Vulliamy aveva rivelato al mondo la esistenza dei campi di concentramento serbi in Bosnia Erzegovina. Nella sua prima visita da allora al campo di Omarska, riflette sulle lezioni non apprese. Questo articolo è stato pubblicato sul Balkan Crisis Report n°513, 27 agosto 2004, IWPR, con il titolo originale "Commento: dobbiamo lottare per la memoria dei campi di concentramento bosniaci". La traduzione è a cura di Osservatorio sui Balcani
Scrive Ed Vullliamy
Traduzione a cura di Osservatorio sui Balcani
"Amici, siamo qui per ricordare, in maniera modesta, quello che è successo in questo luogo", dice Muharem Murselovic, leader politico bosniaco musulmano di Prijedor, con la voce carica di gravità.
Ci troviamo in un luogo maledetto, dove non avrei mai immaginato di tornare. Per motivi diversi, neppure molti tra quelli che stanno ascoltando Murselovic avrebbero pensato di farvi ritorno. Questo è il sito del campo di concentramento di Omarska, teatro di un’orgia di assassinii, mutilazioni, pestaggi e stupri per circa 4 mesi nel corso dell’estate del 1992.
Si muovono incerti in questo giorno di commemorazione – il 6 agosto, anniversario della chiusura del campo – tra i desolati e arrugginiti macchinari industriali, perseguitati da quello che è accaduto tra quelle macchine.
Nusreta Sivac, una sopravvissuta, mette un fiore sul pavimento in ogni posto dove dormivano le sue amiche morte, negli acquartieramenti per le donne che dovevano "servire il cibo e pulire le mura piene di sangue delle stanze delle torture", come racconta. Erano baracche che si trovavano dall’altra parte dell’atrio di fronte agli uffici ora vuoti dove, come loro, era stata violentata, notte dopo notte. Passa di fronte alla finestra dalla quale vedeva il massacro all’ingrosso degli uomini sull’asfalto di sotto, giorno dopo giorno.
Satko Mujagic conosce bene quell’asfalto: la sua bambina di due anni ora gioca con una palla sul punto esatto dove lui, troppo indebolito dalla dissenteria, non era riuscito a stare in piedi nella fila per la razione di pane. Lo aveva dovuto sostenere il padre. Più tardi, la bambina ha raccolto una margherita. "Fai questo dove tuo padre giaceva insanguinato", dice uno del gruppo. "Essere qui oggi mi dà la sensazione di non comprendere nulla", dice Satko. "La violenza che c’è stata qui non ha a che fare con nessuna altra cosa, neppure con la guerra. E’ imperscrutabile."
Sehiba Jakupovic, una giovane donna il cui volto è contorto dal dolore, guarda fissa nelle stanze di un edificio chiamato la Casa Bianca, dal quale pochi uscivano vivi; suo marito, Alem, è uno di quelli che vi sono morti. "Ho un figlio di 12 anni ora", dice piano, "era solo un bimbo al tempo".
Io ho una parte in tutto questo, dato che la chiusura di Omarska era seguita a quel putrido pomeriggio del 5 agosto 1992 quando, con un gruppo della ITN, avevo avuto il poco gradevole onore di riuscire ad entrare in questo posto.
Quel giorno abbiamo visto poco, ma abbastanza: uomini che uscivano da un hangar, in vari stadi di deperimento – alcuni scheletrici, con le teste rasate – spinti attraverso un cortile, sotto l’occhio attento di una postazione di mitragliatrice, fino ad un refettorio dove si accalcavano intorno ad una minestra di fagioli annacquata come dei cani affamati, la pelle come incartapecorita sulle ossa. "Non voglio mentire – mi aveva detto uno – ma non posso dire la verità."
Omarska mi ha perseguitato da allora. Ho continuato a incontrare sopravvissuti o familiari delle vittime: in trincee durante quello che era rimasto della guerra, attraverso la diaspora e all’Aja dove loro (e anch’io) erano andati per testimoniare.
E’ strano, davvero traumatico, stare di nuovo in quel campo ora vuoto e percorrere quel tratto asfaltato, attraverso il quale venivano spinti, e che in seguito venne identificato come un terreno per le esecuzioni.
E’ disturbante aggirarsi tra questi edifici spaventosi – il grande hangar, specialmente, dove i prigionieri venivano rinchiusi e bastonati e dal quale venivano portati a morire. Questi edifici, quel giorno del 1992, ci erano stati proibiti. I nostri passi erano stati bloccati da guardie armate e dal comandante del campo in persona, Zeljko Meakic, ora in attesa di giudizio all’Aja.
Poi c’è la cosiddetta Casa Rossa, dove ora sappiamo che tagliavano la gola ai prigionieri. E’ strano, in questo stesso calore estivo, camminare per queste mura nefande, tra copertoni e scavatrici meccaniche accatastate, e cercare di richiamare alla memoria le urla che queste persone udivano tutti i giorni, la violenza infernale.
C’è una domanda urgente che aleggia su di noi mentre ci riuniamo qui ad Omarska, una incertezza acuta. Cosa succederà a questo luogo? Per quanto tempo queste persone buone potranno esercitare il proprio diritto a visitare, meditare, rendere omaggio e ricordare nel silenzio assordante? Per quanto a lungo ancora dovranno attraversare la umiliazione del richiedere il permesso ad autorità che negano la esistenza di questo campo per raccogliersi e riflettere su quanto avvenuto a loro e ai loro cari?
Questa è una miniera di minerale di ferro, di proprietà pubblica, messa in vendita da parte delle autorità serbo bosniache particolarmente ansiose di coprire quanto è accaduto qui. Una compagnia britannica dell’acciaio, la LNM-ISPAT, è già interessata ad alcune parti della miniera di Omarska, anche se al momento di scrivere i piani per il sito del campo di concentramento non sono ancora noti.
Esiste, quindi, la terribile possibilità che Omarska in quanto storia fisica, concreta, scompaia, che le stanze nelle quali le donne venivano violentate ripetutamente divengano degli uffici amministrativi, e che il refettorio dove i prigionieri restavano in fila per una ciotola di minestra annacquata divengano un luogo per servire fast food agli impiegati. C’è la possibilità che l’area asfaltata dove gli uomini venivano massacrati diventi un parcheggio per nuove luccicanti Skoda; che l’hangar nel quale venivano stipati i prigionieri e dal quale venivano condotti a morire ritorni al suo vecchio utilizzo di magazzino per l’impianto industriale; e che la Casa Bianca e la Casa Rossa, dove gli uomini venivano fatti a pezzi, uccisi con le bastonate o a colpi di arma da fuoco, vengano demolite, o utilizzate come uffici del cantiere e rimesse per gli attrezzi.
Questo, a suo modo, qui a Omarska, è terreno sacro, e deve rimanere tale. Preservarlo rappresenta un compito urgente sia per il passato che per il presente e il futuro. Per la Bosnia e la sua storia, e per i discendenti sia dei carnefici che delle vittime.
Non si può, neppure per un istante, paragonare Omarska a Auschwitz-Birkenau. Si tratta di una operazione inutile e pericolosa. Nessuno si è adirato quanto me alla vista dei titoli "Belsen 1992". Non facevano altro che fare il gioco di quanti cercavano di ridurre e anche negare quanto era avvenuto nei campi di concentramento serbi.
Ma la risonanza della scoperta di questi campi, nel 1992, fortemente sentita dai sopravvissuti dell’Olocausto, era ineluttabile. Mi sono consultato con l’allora direttore del Museo Memoriale dell’Olocausto a Washington, Walter Reich, per chiedergli quali potessero essere le parole appropriate. La parola "echi" avrebbe potuto essere quella giusta? "Echi, forti e chiari", mi rispose.
Chiunque sia stato ad Auschwitz – quel posto senza colori, con l’aria stessa impregnata di male – sa che si tratta di una esperienza che ti cambia la vita. E’ un luogo che parla nel suo proprio modo del più grande crimine mai commesso contro l’umanità e che è così sacro alla storia e alla memoria. E molti saranno d’accordo sul fatto che non è il museo dei ricordi che arriva diretto al cuore, ma la desolazione di Birkenau, lasciata così come era il giorno che i Nazisti sono fuggiti, il 19 gennaio del 1945. E’ come se se ne fossero andati pochi minuti fa, ma poi, quanto dura un minuto in posti come Auschwitz?
Così come il tentativo di cancellare i Musulmani Bosniaci "riecheggiava" il progetto del Terzo Reich, la rivendicazione della preservazione di Omarska dovrebbe riecheggiare la santità di Auschwitz. Perché l’aspetto più duro di Omarska oggi è il vuoto, e il silenzio spettrale che racconta quanto è avvenuto qui. La conservazione del sito di Omarska è essenziale per la salvaguardia di quella memoria.
Questa è la prima e più semplice parte della questione – perché si tratta di salvaguardare quanto è passato e sacro, una questione di rispetto e sensibilità, e soprattutto una questione di memoria. Ma la argomentazione a favore del mantenimento del sito di Birkenau – e per fare la stessa cosa a Omarska – non ha solamente a che vedere con la commemorazione. Al contrario.
La seconda parte del ragionamento è che tali luoghi, così come i musei dedicati alla memoria di omicidi di massa e genocidio, non hanno solamente a che vedere con il passato; vivono nel presente e insegnano per il futuro. Sono universali.
Nel discorso di apertura di una conferenza sul genocidio nel 1998, con la Bosnia e il Rwanda molto vicini, l’ex presidente del Comitato per la Consapevolezza del Museo dell’Olocausto, Thomas Buergenthal, ha parlato del ruolo del sito di Birkenau: "Le mura di questo museo riecheggiano perché tutti possano sentire, insieme alle voci di milioni di uomini, donne e bambini che sono morti nell’Olocausto. Non raccontano solamente la propria storia individuale, ci rinfacciano di non fare abbastanza per salvarli. Fanno appello a noi, in loro nome, nel nome delle generazioni future, nel nome dell’umanità, per lottare e sradicare il genocidio."
Il sito di Omarska può e deve adempiere allo stesso scopo. Può essere fatto per parlare non solo per le vittime del pogrom serbo, ma per tutte le vittime di una violenza simile. Può parlare alle generazioni future di quanto è avvenuto nella speranza che non succeda mai più.
Oltre alla questione della memoria e della educazione, c’è una cosa ancora più urgente: una terza questione che ha a che vedere con la verità e il mantenimento dei fatti storici.
La esistenza del campo di Birkenau è una affermazione. Ci parla di una verità che nessuno dovrebbe mai avere il coraggio di negare. Ci racconta la verità di quanto è accaduto agli Ebrei e agli altri che hanno condiviso il loro destino. In quanto tale, quel sito rappresenta una replica conclusiva e finale al flagello del revisionismo sull’Olocausto; una risposta finale a quanti – e ce ne sono ancora, in ogni angolo dove si nascondono i neonazisti – che mettono in discussione, diluiscono o offuscano il non raccontabile, insondabile orrore della Shoah.
Il revisionismo sulla carneficina bosniaca è dilagante e persistente. Da quando Thomas Deichmann e il suo gruppo londinese, sotto gli auspici di un circolo chiamato "Living Marxism" aveva affermato che i campi di concentramento scoperti dalla ITN e da me erano delle invenzioni. Adottavano il termine serbo di "campi di raccolta", affermando che i prigionieri erano lì di propria volontà.
Le accuse di Deichmann vennero dichiarate da una giuria in violazione della legge civile, alla Corte Suprema di Londra, quando vennero portate in giudizio dalla ITN. Successivi verdetti all’Aja le hanno rese tanto ridicole quanto velenose.
Si potrebbe essere scusati per pensare che una volta che la co-presidentessa serbo bosniaca Biljana Plavsic avesse ammesso la colpevolezza per l’intero uragano di violenza scatenato sotto la sua posizione, i revisionisti sarebbero stati zittiti. Dopo tutto, chi lo potrebbe sapere meglio: loro o la donna (e i suoi amici e subordinati) su ordine dei quali il pogrom era stato realizzato?
Invece no. In Svezia, ecco che ritornano, attraverso le pagine di una rivista chiamata Ordfront, o Fronte della Parola. L’anno scorso, la rivista recava una intervista con l’autrice Diane Johnstone, a proposito del suo libro La Crociata degli Idioti, che esprime dubbi sul numero delle vittime del massacro di Srebrenica; sulla veridicità del massacro di Racak in Kosovo; sull’uso sistematico dello stupro nella guerra bosniaca; sulle cifre reali delle vittime della guerra bosniaca (le stime ufficiali sono di oltre 200.000 morti, secondo la Johnstone sarebbero 50.000). E, proprio come prima, i rappresentanti delle classi che chiacchierano, incredibilmente, hanno salutato questo veleno come un "lavoro eminente", in una lettera firmata da, tra gli altri, Noam Chomsky, Arundhati Roy, Tariq Ali, John Pilger.
C’è solo una cosa da fare di fronte a queste trame pericolose e fuorvianti. Riaffermare e ripetere la verità e dimostrarla in modo conclusivo con un luogo preservato, cui i sopravvissuti e i familiari delle vittime possano fare ricorso, potendo affermare quella verità e mantenerla viva come monumento fisico per i morti.
Il problema è questo, però. La negazione di quanto è avvenuto in questi luoghi combacia perfettamente con l’intenzione delle autorità serbo bosniache a Prijedor (e altrove). Nessuno più di quegli stessi che hanno commesso questi crimini vorrebbe cancellare – e trasformare in uffici, magazzini e parcheggi – il sito di uccisioni di massa e brutalità.
Accade così che i carnefici hanno il sostegno di quelle stesse autorità che hanno la proprietà e gestiscono il luogo del campo di concentramento. I Nazisti avevano cercato di distruggere le prove mentre abbandonavano Birkenau, facendo esplodere i forni crematori fino a quando le ruvide viscere di metallo non venivano alla luce. Ma i Nazisti venivano cacciati dalla Polonia; nessuno sta cacciando i Serbi da Prijedor. Cosa dovrebbe spingere la Republika Srpska e il Comune di Prijedor di conservare un monumento ai propri crimini che rifiutano di riconoscere?
Ma non deve andare per forza in questo modo. Ci sono due modi di resistere loro, e di proteggere il sacro sito di Omarska – e il risultato ideale sarebbe una convergenza dei due.
Il primo è che la miniera di Omarska venga acquistata da una compagnia, che sia disposta a fare un grande gesto nei confronti della storia e della memoria e a consacrare il sito del campo di concentramento vero e proprio a memoriale e/o museo all’interno del più vasto complesso industriale.
Il secondo è che la comunità internazionale faccia qualcosa di efficace e che entri nella vicenda per assicurare questo sito, così come hanno fatto a Potocari, vicino al luogo del massacro di Srebrenica. Questa è l’unica strage ad essere ricordata nel territorio governato dai Serbi.
E’ difficile immaginare un intervento più prezioso da parte dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante. Teoricamente, la comunità internazionale in Bosnia potrebbe lavorare insieme ad un investitore, offrendo un compenso in cambio della protezione del sito.
Durante la Guerra, la vita dei Bosniaco Musulmani non valeva molto per la comunità internazionale. Contava poco sotto i candelabri e lungo i corridoi del potere abitati dai diplomatici e dai politici. La vita dei Bosniaco Musulmani era spendibile mentre i leaders mondiali stringevano la mano di quelli che ora sono ricercati per genocidio. Per la comunità internazionale ribadire che quelle vite erano a buon mercato lasciando che Omarska vada sotto il martello del banditore senza alcuna garanzia per la preservazione del sito, rappresenterebbe una grottesca continuazione di quell’atteggiamento.
C’è un ultima, cruciale, quarta questione: una ragione conclusiva e impellente tra i ritornanti nella zona di Prijedor per mantenere il sito di Omarska.
Una caratteristica distintiva del dopoguerra bosniaco è la quasi totale mancanza di riconoscimento da parte dei Serbo Bosniaci rispetto a quanto hanno commesso. Solo un imputato di rilievo, la co-presidentessa Plavsic, si è dichiarata colpevole all’Aja per tutto quello che è successo qui e altrove, e si è appellata alla riconciliazione
. Ma intorno a Omarska, la narrazione dei ritornanti precipita nel buco nero della memoria dei carnefici. Le guardie di sicurezza all’ingresso della miniera di Omarska ci dicono: "Non c’era nessun campo di concentramento qui. Erano tutte bugie, menzogne musulmane e invenzioni dei giornalisti."
"Non c’è alcun rimorso", afferma la sopravvissuta del campo Nusreta Sivac, "nessuno ha chiesto scusa o ha neppure ammesso quanto è accaduto. Se parli con i Serbi a Prijedor non ti diranno niente dei campi, o ti diranno che loro sono stati attaccati per p
imi. Per lo più dicono che non hanno mai sentito parlare dei campi. Ci sono 145 fosse comuni e centinaia di fosse individuali in questa regione, e invitiamo le autorità locali alle nostre commemorazioni, ma non vengono mai."
"Anche adesso", dice il leader politico dei Bosniaco Musulmani a Prjiedor, Muharem Murselovic, "i Serbi non accettano il fatto che sia accaduto qualcosa. Mi trovo sempre di fronte a questo dilemma: sono pazzi, o stanno facendo finta di essere pazzi?"
Nessuna pace può funzionare in questa situazione. La pace e la vita in comune dipendono dalla capacità di chi ha commesso i crimini di fare i conti con quanto è stato fatto, dichiara Sabahudin Garibovic, un ritornante bosniaco della vicina Kozarac, animatore della Associazione dei Sopravvissuti del Campo di Concentramento. "Ogni volta che vedo un estremista serbo gli ricordo quanto è avvenuto davanti agli occhi, e in modo tale che spero possa fargli cambiare il punto di vista. Ogni futuro insieme dipende dal fatto che loro ammettano quello che hanno fatto e chiedano scusa per quanto è avvenuto", ha dichiarato.
E’ qui il nocciolo della questione. Considerate questo: la moderna Germania è un avanzato Paese democratico perché i Tedeschi nella stragrande maggioranza hanno affrontato quanto hanno fatto, si sono guardati nello specchio e hanno fatto i conti con quello che hanno visto.
Hanno cercato di capire non solo quello che è accaduto ma perchè. La rappresentazione monumentale dell’atrocità da parte della generazione cui appartengono Gerhardt Schroeder e Joshka Fischer è stata cruciale in questo processo. Fondamentale nel riconoscimento, e nella guarigione che questo ha portato con sé, è stata la conservazione dei siti di crimini di guerra, e il tentativo di trasformare la commemorazione in oggetti fisici, così come i binari ferroviari incisi nella stazione ferroviaria di Grunewald a Berlino, da dove partivano i treni per Auschwitz. Tali monumenti sono la base della moderna democrazia tedesca.
Il futuro di una Bosnia in cui si possa vivere insieme, la speranza che Serbi, Croati, Bosniaco Musulmani costruiscano un futuro comune, dipende da questo riconoscimento e dalla ammissione della verità implicita nella creazione dei monumenti. Al momento, non ci sono molti segnali che un tale riconoscimento sia a portata di mano.
A Trnopolje, un altro brutale campo che abbiamo scoperto il 5 agosto del 1992, è stato eretto un monumento – ai Serbo Bosniaci caduti. Il sito di un altro campo ancora, Kereterm, dove 150 persone sono state massacrate in una singola notte sanguinosa, tra centinaia di altri, è ora un concessionario di automobili.
Con questa continua negazione delle atrocità non ci potrà essere nessuna pace. La pace non può essere costruita sulla distruzione della memoria fisica. Né comincia con il "perdono e oblio" di cui piagnucola la comunità internazionale. Inizia con il riconoscere quanto è accaduto e affrontarlo. E affrontarlo inizia con il processo di preservazione dei siti e con la edificazione di monumenti. Tali azioni sono essenziali per quella pace. E’ lì che inizia la pace.
Le richieste dei Bosniaco Musulmani per Omarska sono tipicamente, esasperantemente, modeste. "Se solo ci potesse essere una qualche sorta di memoriale – forse che la Casa Bianca venisse recintata. Sappiamo che equivarrebbe a chiedere troppo la conservazione dell’intero complesso", dice Garibovic.
Ma è saggio quando afferma: "Vogliamo solo qualcosa per assicurare che la memoria venga mantenuta e nel modo più piccolo per risvegliare la coscienza dei Serbi. Questa è la cosa davvero importante. Perché se non risvegliamo quella coscienza, tanto vale che dimentichiamo tutto. E questa sarebbe la cosa più triste – dimenticare quanto è successo e quanto potrebbe nuovamente succedere domani. Sì, domani".